Dalla parte del torto.

Contro i nuovi diritti 


di Roberto Pecchioli



Pubblicato sul sito Ereticamente








Ci sedemmo dalla parte del torto perché tutti gli altri posti erano occupati, dicono alcuni personaggi dell’Opera da tre soldi di Bertolt Brecht. Fortunati loro.
Chi scrive è dalla parte del torto dalla pubertà e non ha mai trovato posti a sedere. Solo spazi vuoti perché il torto è doloroso e tutti lo sfuggono.
Scrisse Seneca che è facile passare alla maggioranza, il modo più spiccio per sentirsi dalla parte della ragione.
Nel deserto del torto ci si deve sedere per terra: è scomodo, ma permette di osservare dal basso – l’unica posizione che merita – il giardino di chi ha ragione.
Questo abbiamo pensato alla notizia che l’accolita di nullafacenti del Parlamento Europeo ha votato a larga maggioranza l’inserimento dell’aborto tra i diritti fondamentali degli abitatori della piccola penisola a occidente dell’Asia.

La parte del torto consente di guardare le cose con occhi liberi e di non prendere sul serio i pilastri di una società in disfacimento. Nello specifico, la modifica dell’articolo 3 della Carta dei Diritti Fondamentali europoidi: “ogni persona ha diritto all’autonomia fisica e a un accesso libero, informato, pieno e universale alla salute e ai diritti sessuali e riproduttivi così come a tutti i servizi sanitari connessi, incluso l’accesso a un aborto sicuro e legale, senza discriminazione”.
Poiché a un diritto corrisponde sempre un’obbligazione, dovrà essere ritirata la clausola “di coscienza” dei medici, al fine di realizzare pienamente la “pratica medica” abortiva. Medicina, terapia, giacché il feto è una malattia, un’escrescenza.
Infine, poiché la logica dei mercanti non si smentisce mai, sarà eliminato il sostegno agli organismi pro-vita a favore di finanziamenti ai “programmi e servizi sanitari di pianificazione familiare”.

Qualche settimana fa, l’impiegato della monarchia Rothschild, Emmanuel Macron, con grottesca solennità, dopo l’approvazione della modifica costituzionale che rende diritto universale l’aborto in Francia, dichiarava: “in questo giorno il timbro della Repubblica sigla una lunga lotta per la libertà. Oggi non è il finale di una storia, ma l’inizio di una battaglia”. La metafora guerresca ammantata di retorica – che il Giovin Signore estende alla smania di partecipare alla guerra ucraina – sarebbe comica se non fosse rivoltante.

Oh, solo per noi – noi pochi infelici – che stiamo dalla parte del torto. Con l’ingenuità di eterni Peter Pan pensavamo che il primo diritto fosse alla vita. Cancellato: l’aborto non è più una triste possibilità, una sconfitta talvolta obbligata, come diceva Simone Veil, madre della legge francese sull’interruzione di gravidanza nel giurassico 1974, ma un diritto universale. E’ solo l’inizio, minaccia il marito dell’attempata Brigitte.
Deve sbrigarsi, però: la cultura della morte conduce alla morte.

Dalla parte del torto sin dalla pubertà, ci permettiamo di attaccare la mistica dei “diritti”, il dirittismo tossico.
L’idea dei diritti umani nacque con John Locke, dopo la “gloriosa rivoluzione” inglese di fine Seicento, transitò nella Dichiarazione d’indipendenza americana e nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 come risposta a secoli di guerre di religione in Europa e di assolutismo.
La prima generazione di diritti umani – alla vita, alla libertà religiosa, alla libertà di pensiero e di espressione, alla proprietà privata, alle garanzie giurisdizionali– era composta da diritti “difensivi”. La persona non chiedeva allo Stato che di essere lasciato in pace (non calpestarmi, don’t tread on me). La radice era solidamente ancorata alla civiltà cristiana e ai principi della legge naturale.
Locke scriveva: “essendo tutti gli uomini opera di un solo Creatore (…) forniti delle stesse facoltà e partecipando tutti di una comune natura, non si può supporre alcuna subordinazione tra noi tale da autorizzarci a distruggerci l’un l’altro”.
La Dichiarazione di Indipendenza americana parla di “diritti inalienabili di cui l’uomo è stato dotato dal suo Creatore”, espulso dal campo dalla rivoluzione francese. Le libertà indicate come diritti si rivelarono formali (Marx).
Per Anatole France “la libertà borghese è libertà di dormire sotto i ponti”. Emerse così la seconda generazione di diritti umani, economici e sociali: il diritto all’istruzione, alla salute, alle pensioni, a un livello ragionevole di benessere.
I diritti di prima generazione richiedevano l’astensione del governo; quelli del secondo, il suo massiccio intervento.

Nella prima formulazione, soggetto dei diritti era la persona gelosa della propria autonomia. Nel XX secolo lo Stato assistenziale ha abituato a dipendere dal governo.
Il diritto al benessere ha prodotto la crisi della famiglia, l’istituzione autosufficiente per eccellenza. Le funzioni che prima assicurava vennero assunte dall’onnipresente Stato sociale.
L’ulteriore passaggio è allo Stato woke, il progressismo che impone i falsi diritti al benessere sessuale. Il governo non deve fornire solo sanità, pensioni e istruzione, ma anche cambio di sesso, contraccettivi, inseminazione artificiale, maternità surrogata se non abbiamo un coniuge del sesso opposto. Soprattutto, deve garantire la nostra infinita libertà sessuale, che comprende la liberazione dalle conseguenze genetiche delle relazioni (il “diritto all’interruzione della gravidanza”).

E’ così che i “nuovi diritti” negano quelli veri: il diritto all’aborto ha sostituito il diritto alla vita; il “diritto ad avere un bambino” (tramite l’inseminazione artificiale o la maternità surrogata), il diritto del bambino ad una famiglia formata da padre e madre (articolo 16 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo); il diritto a cambiare sesso ribalta il diritto all’integrità fisica. Il diritto alla “discriminazione positiva” (quote e vantaggi basati sul sesso, la razza o l’orientamento sessuale) sostituisce l’uguaglianza davanti alla legge; il diritto alla protezione contro il “discorso d’odio” nega la libertà di espressione.
Questa degenerazione ha sfumature irreversibili: i diritti funzionano come una religione e ogni proposta di “regressione dei diritti” è un anatema. La semplice parola “diritti” ha un effetto ipnotico su coloro che la usano, trasformando desideri discutibili, autentici capricci e follie psichiatriche, in richieste sacre e non negoziabili.
La nozione di “diritti” è così saldamente radicata nell’immaginario collettivo che la sua riforma è oggi impossibile.
La società dei diritti trasforma i suoi cittadini in bambini viziati, esigenti e ingrati: non apprezziamo ciò che ci viene dato poiché ne “abbiamo diritto”; il mondo è nostro debitore.
Un’orgia nichilista.
Che ne è del diritto alla vita, di quello del bambino ai genitori, della libertà di pensiero e parola, di libera istruzione, dell’uguaglianza davanti alla legge incompatibile con la discriminazione dichiarata “positiva”?

Ci fu una lunga stagione in cui l’uomo sapeva di avere prima di tutto dei doveri. Ma era un tempo in cui si credeva in Dio. La rottura è la prepotenza del positivismo giuridico. Tutte le teorizzazioni del passato si basavano su un impianto di diritto naturale, mentre gli occidentali contemporanei si sono convinti che le leggi non siano altro che il frutto delle preferenze (e degli interessi) dominanti in un determinato momento storico, confondendo legalità (ciò che diventa norma a seguito di procedure formali) e legittimità (ciò che è “giusto” in quanto conforme alla legge naturale).
Un caso esemplare viene dall’Arizona, che ha vietato l’aborto in base a una legge del XIX secolo che dichiarava la vita valore preminente. Chi contesta la decisione afferma che la norma non corrisponde alle vedute di questo tempo.

Ma i principi – se sono tali – non hanno scadenza temporale. Del resto la rivoluzione francese dichiarò di proclamare “immortali principi” e la stessa costituzione americana, nel suo impianto, è la stessa dal 1776.










 
aprile 2024
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