Una risposta:
una rivoluzione e
un sovvertimento della verità

Bergoglio: la Chiesa e la società


di Giovanni Servodio




Parte prima: Bergoglio e l'immigrazione
Parte seconda: Bergoglio: l'immigrazione e l'Europa
Parte terza: Bergoglio: la Chiesa e la società
Parte quarta: Bergoglio: la Tradizione e l'Islam
Parte quinta: Bergoglio: le sfide della Chiesa
Parte sesta: Bergoglio: confidenze personali


Proseguendo la sua intervista con Dominique Wolton, papa Bergoglio affronta il rapporto fra la Chiesa e la società, ed esordisce con un luogo comune che era già stato ripreso a suo modo da papa Ratzinger e che rappresenta una sorta di trabocchetto inventato dal laicismo per far credere ai cattolici che non esisterebbe, esattamente come usa fare il demonio che cerca di far credere che non esista per poter andare in giro “come leone ruggente… cercando chi divorare” (I Pt. 5, 8).

«Lo Stato laico è una cosa sana. Vi è una sana laicità. Gesù l’ha detto, bisogna dare a Cesare quello che è Cesare e a Dio quello che è di Dio. Noi siamo tutti uguali davanti a Dio

La sana laicità è chiaramente una contraddizione in termini. Essa è fondata sull’equivoco che si è volutamente instaurato tra il termine “laico” e il termine “laicità”.
Che possa esistere, e che esista, un “laico sano” è cosa scontata, poiché l’espressione indica un laico che vive correttamente, e cioè sottoposto alle leggi di Dio e della Sua Chiesa, un laico che vive religiosamente. Ma che questo concetto lo si possa trasferire tale è quale alla “laicità” è cosa impossibile: la laicità è la presunzione di un modo d’essere che prescinde dalla religione e che considera l’uomo autosufficiente nel sociale e nel morale.

Per dare un’idea della differenza, ricordiamo che il termine “laico” è tale per il suo differenziarsi dal termine “chierico”, i due termini indicanti un diverso stato sociale ed esistenziale. Il laico e il chierico costituiscono insieme il corpo sociale organizzato in cui il primo (laico) conduce una vita religiosa ricorrendo al secondo (chierico) per mantenere strutturalmente il suo collegamento con la Chiesa e con Dio.
Allorché il laico assolutizza la sua condizione, ritenendo di poter coltivare una propria visione del mondo, una propria autonomia sociale e morale, ecco che si degenera in una forma di disordine che sovverte l’ordine stabilito da Dio: è questa la laicità. D’altronde, lo stesso accade quando è il chierico che pretende di fare altrettanto con la sua condizione: nasce allora la “chiericità” e il “clericalismo”, controparti della laicità e del laicismo; ed anche qui si degenera in una forma di disordine simile al primo.
La conseguenza è che, come dicevamo prima, la laicità, essendo di per sé una stortura, non potrà mai essere buona o “sana”.
Se ne deduce quindi che quando Francesco afferma “lo Stato laico è cosa buona”, sostiene un’impossibilità e una falsità.

Per di più, egli pretende di fondare questa diffusa mala pretesa sulla nota ingiunzione di Nostro Signore: «Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Reddite quae sunt Caesaris Caesari et quae sunt Dei Deo) Mt. 22,21; Mc. 12, 17; Lc. 20, 25; e senza preoccuparsi di accompagnarla con una contraddizione: “Noi siamo tutti uguali davanti a Dio”.
E’ evidente che Francesco si rivela essere ancora una volta alquanto confuso, così da mischiare inavvertitamente concetti contraddittori.

Partiamo dalla fine. Se siamo tutti uguali davanti a Dio ne consegue che anche Cesare lo è, così che sottolineare la distinzione fra Dio e Cesare non potrà mai significare giustificare la laicità. Anche Cesare deve dare a Dio quello che è Dio, e qui pensiamo sia il caso di aggiungere che soprattutto Cesare deve farlo, come deve necessariamente dare anche ai sudditi ciò che è dovuto ai sudditi… le due cose sono imposte proprio dall’essere lui Cesare.
Da ciò deriva che, se si vuole identificare lo Stato con Cesare, anche lo Stato deve dare a Dio quello che è di Dio e quindi non può permettersi di essere laico, ma è obbligato ad essere religioso e ad esserlo primariamente, per poter dare ai sudditi la migliore possibilità per poterlo essere anche loro.
In altre parole, partendo dall’ingiunzione di Nostro Signore si può solo affermare correttamente che lo Stato laico NON è una cosa buona; contrariamente a quanto sostiene alla leggera Francesco.

Nello sviluppare il suo ragionamento, Francesco incappa in un altro errore.
Dopo aver ripetuto la leggenda che in Francia ci sarebbe troppa laicità a causa dell’eredità dei “Lumi” (come se negli altri paesi europei tale eredità non ci fosse), e che sarebbe auspicabile che si “elevasse” il livello di laicità, Francesco precisa che tale “elevazione” consisterebbe nel riconoscimento che “le religioni fanno parte anch’esse della cultura” e non devono essere considerate delle “sottoculture”.
La cosa è curiosa, poiché anche le “sottoculture” fanno parte della “cultura”, quindi Francesco sfonderebbe una porta aperta, ma, in realtà, c’è qualcosa di vero nella sua precisazione, solo che non si tratta dello Stato laico che considera le religioni come delle “sottoculture”, ma della laicità che, nella sua assolutezza e nel suo esclusivismo, considera le religioni “subordinate” a se stessa e nel tollerarle le vuole al servizio di se stessa.
E tutto questo, mentre è logico per laicità, non lo è per la Chiesa e per la religione che non possono essere per loro natura subordinate, se non solo a Dio.

Insomma, senza rendersene conto, Francesco sostiene che la religione è una componente paritaria della cultura di un popolo, insieme ad altre diverse componenti, rivelando che non ha la minima idea di cosa sia la “cultura”, la quale per essere tale deve essere informata essenzialmente dalla religione. Diversamente, come accade con la laicità, ci si ritrova in una sorta di cultura scadente o decadente o degenerata, una “sottocultura”, appunto. E in effetti le cose stanno così, poiché il primato della laicità implica necessariamente un abbassamento ai livelli più bassi del vivere civile, visto che l’uomo laicista prescinde volutamente dalla religione che è il solo tramite che lo tiene collegato con Dio. Per essere più precisi, il laicista e la laicità si caratterizzano proprio per il loro rifiuto di Dio e, quando sono “buone”, “sane”, ammettono e tollerano l’esistenza delle religioni solo come fattori meramente umani e strettamente relegati nell’ambito personale di ognuno.

Col suo discorrere, quindi, Francesco non fa altro che avallare  tale subordinazione della religione alla “sana laicità”.

«Come esprimere questo in maniera laica? Con l’apertura alla trascendenza.», spiega Francesco sviluppando il suo ragionamento sulle religioni che fanno parte della cultura.
Ma qui inciampa in un altro grosso ostacolo e questa volta cade e si fa pure male.

Secondo questa nuova affermazione: la laicità dovrebbe “aprirsi” alla trascendenza.
Concetto un po’ machiavellico, perché può significare due cose: o che la laicità, aprendosi, lasci entrare in sé la trascendenza, o, aprendosi, esce da sé e si auto-trascende.
E visto che la prima ipotesi è impraticabile, poiché il più non entra nel meno, resta la seconda, che, di per sé, è un’impossibilità intrinseca della laicità: se la laicità si trascende, per così dire, smette ipso facto di essere ciò che è.

Ora, a dire il vero, Francesco sembrerebbe voler affermare, più semplicemente, che la laicità dovrebbe solo riconoscere che esiste il trascendente. Ma anche questa è cosa ardua, poiché la laicità è tale proprio perché non solo non ammette la trascendenza, ma, allorché la intravede, la rifiuta come il suo primo nemico… quello che la porterebbe ad uscire da sé e a non più essere.

Ora, tutto questo discorrere, alquanto vano, è fondato su due fattori: l’abbracciare i luoghi comuni, da un lato, e l’abbandono del sacrosanto dovere di servire Dio, dall’altro.
Posto che il primo fattore è sotto gli occhi di tutti, non sarà inutile spendere qualche parola sul dovere di servire Dio, proprio dei chierici e in primis del Papa.

Se il compito della Chiesa, e quindi del Papa, è di condurre le anime in Cielo, secondo il disegno e i comandi di Dio, ne consegue che la prima preoccupazione dei chierici, e in primis del Papa, è quella di far sì che tutto il contesto sociale sia ordinato a questo fine. E per far questo è necessario che la Chiesa informi di sé per primo lo Stato, tale che la migliore organizzazione sociale in grado di aiutare gli uomini a condursi al Cielo, è quella in cui lo Stato venga diretto, concettualmente e normativamente, dagli insegnamenti della Chiesa.
E’ quello che, con altre parole, costituisce la subordinazione del potere temporale, lo Stato, al potere spirituale, la Chiesa. E questo non perché a priori la Chiesa debba ritenersi superiore allo Stato, ma per la stessa natura delle cose: lo spirituale è necessariamente superiore al temporale; infatti, essendo il temporale, per definizione, soggetto ad un inizio e ad una fine correlativa, si viene a trovare gerarchicamente sotto allo spirituale, che per definizione prescinde dal tempo e dal divenire.
In altre parole: come lo spirito è l’ispiratore della parola, così lo spirituale sarà l’ispiratore del temporale; senza contare che un papa, in quanto rappresentante di Dio in terra, dovrebbe ricordare, sempre e a tutti, che ogni cosa in questo mondo, e quindi anche lo Stato, non esiste “di per sé”, ma solo grazie alla volontà di Dio, alla quale deve necessariamente conformarsi se vuole esistere in maniera ordinata.

L’unica scusante che ha Francesco è che questo stravolgimento della realtà non è tutta farina del suo sacco, poiché fu proprio l’infausto Vaticano II a mettere diabolicamente nero su bianco che l’uomo «è la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stesso» (Gaudium et Spes, 24 §4), sancendo così la falsa legittimità dell’autonomia del temporale, supposto esistente “di per sé”, anzi “per se stesso”.

E Francesco si appella proprio al Vaticano II e afferma: «Ecco la sana laicità! Il concilio Vaticano II parla molto bene di questo, con molta chiarezza».






«Rinunciare alla sessualità e scegliere il cammino della castità e della verginità equivale a tutta una vita consacrata. E qual è la condizione senza la quale questo cammino è morto?  E’ che questo cammino porti alla paternità o alla maternità spirituali. Uno dei mali della Chiesa è costituito dai preti «scapoloni» e dalle suore «zitelle». Perché essi sono pieni di amarezza.»

Questo è un motivo ricorrente nei discorsi che fa Francesco: la fecondità dei consacrati.
Solo che questa fecondità, da lui chiamata “spirituale”, si rivela essere una mera condizione materiale: da realizzarsi «sia con la parrocchia, sia con la scuola o l’ospedale», cioè con una sorta di servizio assistenziale a livello umanitario che nulla ha a che vedere con la “fecondità spirituale”.
E questo nonostante egli affermi che la castità e la verginità sono «una rinuncia volontaria», «una ricerca umana: rinunciare per cercare Dio all’origine, per la contemplazione», offrendo così una nuova contraddizione, poiché “la contemplazione” non è certo quella che si realizza con l’attività nella parrocchia, nella scuola e nell’ospedale.
Per contemplare, il consacrato deve innanzi tutto staccarsi dal mondo, vivere nel mondo, ma senza far parte del mondo; solo così sarò fecondo spiritualmente, per se stesso e per gli altri, perché la sua continua ricerca della contemplazione permette in qualche modo alla grazia divina di manifestarsi tangibilmente nel mondo a beneficio di coloro che la ricercano.

Ma Francesco non accenna neanche minimamente a questo e parla e sogna di «una sorta di fecondità diversa dalla fecondità carnale, della fecondità sessuale», una fecondità che partorisce solo atti umani, senza tenere conto della necessità della grazia divina.



Bergoglio visita i preti sposati

E questa contraddizione del poter praticare ad un tempo la contemplazione e l’azione, Francesco la esprime anche a proposito del celibato ecclesiastico:
«Anche nella Chiesa vi sono dei preti sposati. Tutti i preti orientali sono sposati, questo esiste. Ma la rinuncia al matrimonio per il regno di Dio è un valore in sé. Significa rinunciare per essere al servizio, per meglio contemplare

Intanto, con una battuta, e di volata, egli si schiera a favore dei “preti sposati”, ma quando poi spiega – apparentemente in maniera corretta – che “la rinuncia al matrimonio per il regno di Dio è un valore in sé”, scivola rovinosamente nella rinuncia “per essere al servizio, per meglio contemplare”; ribadendo l’equivalenza tra azione – il servizio – e contemplazione, cioè tra l’impegno umano e il distacco dall’umano.



Francesco abbraccia e bacia l'amico omosessuale Yayo Grassi col compagno

Il problema della pedofilia, Francesco lo affronta richiamandosi ai provvedimenti presi a proposito in Vaticano e ricordando che «Se un prete è uno che abusa, si tratta di qualcuno che è malato. Su quattro che abusano, due sono stati abusati quand’erano ragazzi. Queste sono le statistiche degli psichiatri.»

Niente di cui stupirsi se in queste parole non c’è il minimo cenno al tradimento della vocazione, alla violazione delle leggi di Dio, all’abbandono al vizio e alla depravazione, visto che Francesco mantiene ferma la sua prospettiva pragmatica. Sarà pure un grave problema quello dell’abuso dei minori, ma alla fin fine, dice Francesco, è principalmente un problema legato alla patologia fisica e psichica, da curare ovviamente con l’intervento del medico o dello psichiatra; e nel frattempo attuando una «politica… per la tutela dei minori».

In realtà, si continua a disconoscere che la pedofilia è strettamente connessa all’omosessualità, parte da essa e conduce ad essa; affrontandola quindi circoscrivendo il problema all’abuso dei minori significa guardare all’effetto trascurando la causa.

Ma continuando ad ascoltare Francesco si comprende che per lui il problema dell’omosessualità non esiste.
«Che pensare dei matrimoni delle persone dello stesso sesso?… il matrimonio è quello tra un uomo e una donna. Questa è la dizione esatta. Chiamiamo l’unione dello stesso sesso: “unione civile”»

Ed ecco risolto il problema dell’omosessualità, basta parlare di “unioni civili”!
Ma in fondo, senza neanche saperlo, Francesco ha ragione: in una “civiltà” come la nostra in cui ognuno ha il diritto di fare quello che gli pare, coltivare il vizio e pretenderne il riconoscimento ufficiale è quanto di più civile ci possa essere.
Ora, noi non pretendiamo che un papa moderno, liberale, rivoluzionario e modernista, debba ricordare il Vangelo o gli insegnamenti di San Paolo, ma un minimo di decenza gli avrebbe permesso di fare almeno un cenno al peccato contro natura che grida vendetta al cospetto di Dio.
E anche qui ricordiamo che l’attuale acquiescenza nei confronti delle pretese del mondo affonda le radici nel Vaticano II. Prima abbiamo citato la Gaudium et Spes, ora richiamiamo la Dignitatis hamanae, che esordisce dicendo che «Nell'età contemporanea gli esseri umani divengono sempre più consapevoli della propria dignità di persone e cresce il numero di coloro che esigono di agire di loro iniziativa, esercitando la propria responsabile libertà, mossi dalla coscienza del dovere e non pressati da misure coercitive.»
E’ questo l’humus nel quale sono cresciuti i preti e i papi del post-concilio, e dei tanti virgulti Francesco è uno dei più robusti e più ricchi di maleodoranti efflorescenze.

Signore, dove sono i tuoi giardinieri per estirpare le male piante dal campo della tua messe?

Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: Padrone, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene dunque la zizzania? Ed egli rispose loro: Un nemico ha fatto questo. E i servi gli dissero: Vuoi dunque che andiamo a raccoglierla? No, rispose, perché non succeda che, cogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Cogliete prima la zizzania e legatela in fastelli per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio» […]

Ed egli rispose: «Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. Il campo è il mondo. Il seme buono sono i figli del regno; la zizzania sono i figli del maligno, e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura rappresenta la fine del mondo, e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti gli operatori di iniquità e li getteranno nella fornace ardente dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, intenda!

(Mt. 13, 27-30 e 37-43)



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