Continuità a rottura?

Libertà religiosa:
La Chiesa era nel giusto anche quando la condannava?

Entro in punta di piedi e con il dovuto sussiego nell’annosa e dottissima disputa, dilemma attualmente irrisolto, sulla rottura o continuità fra il Concilio Vaticano II e il precedente Magistero della Chiesa, con speciale riguardo al tema sensibile e cruciale della libertà religiosa.

Non è questa una controversia sanabile in termini definitivi, anche se i teologi, filosofi, giuristi e maestri della “sacra doctrina” ammessi alla disputa, presi uno per volta, sembrano avere ciascuno ottime e convincenti ragioni, specie chi si è fatto precedere dall’aura di sedicente “mente eletta”.

Un fatto appare incontrovertibile. E’ un’impresa assai ardua per chiunque dimostrare in modo affermativo e inequivoco il citato teorema della continuità e insieme escludere ogni pericolosa apertura all’agguato del relativismo e dell’indifferentismo religioso. Lo dimostra lo schieramento di accademici ed esperti di varia cultura scesi in campo, primo fra tutti lo “specialista” per eccellenza, il Papa.
Sempre apprezzati per la raffinata erudizione, seppur non esenti da possibilità di critica, i suoi reiterati interventi sono atti magisteriali oggettivamente autorevolissimi, anche se non godono dell’infallibilità propria dei pronunciamenti dogmatici impegnati ex cathedra. Teorizzano con rara perizia il principio problematico dell’ermeneutica della continuità ricorrendo financo, per l’occasione, al conio di una discussa novità semantica, la “riforma nella continuità”.

Punto di forza dello schieramento pro-continuità sembra essere, ma ne vedremo i limiti, la monumentale tesi di dottorato di padre Basile Valuet, monaco benedettino del Barroux.
Indegnamente anni fa ebbi la ventura di seguire alcune tappe di quell’interminabile lavoro di ricerca racchiuso in tre tomi monumentali e diviso in sei volumi, e venni a conoscenza anche delle ripercussioni di quella fatica massacrante sulla fragile salute dello studioso.
A maggior ragione mi sento perciò debitore verso il padre benedettino del più deferente rispetto per l’impegno profuso in quell’impresa, la cui mole avrebbe scoraggiato chiunque non si chiamasse Tommaso d’Aquino.

Soprattutto mi riconosco inadeguato a entrare nel merito della disputa fra “continuisti” e no, timoroso come sono di quei precipizi esegetici tanto cari ai moderni ricercatori, ove pure potrei cogliere qualche fiore raro e originale, ma esponendomi al baratro eterodosso di chi, teologo di fama, nella stessa pagina di Famiglia Cristiana scrive chiesa cattolica in minuscolo e Consiglio Presbiterale e Camera del Lavoro in maiuscolo.

La modestia del mio sapere, tuttavia, non mi esime dal ritenere assolutamente pertinente porre a lor signori ricercatori una domanda in apparenza provocatoria, in realtà semplicemente ispirata al buon senso.
Che per difendere una verità, la cui difendibilità dovrebbe invece risultare di per sé agevole, scontata e postulatoria, ci siano volute più di tre mila pagine di stressante alpinismo esegetico e, secondo certi critici, neppure ancora esaustivo, non costituisce forse la più lampante dimostrazione che trattasi di una verità sin troppo nascosta, sì da rendere più plausibile la tesi opposta, quella che sostiene che il documento conciliare sulla libertà religiosa rappresenti invece un’inconfutabile rottura con la dottrina precedente?

Fra i tanti esiti paradossali e aberranti equilibrismi interpretativi del Concilio debbo allora mettere in conto, io piccolo fra i piccoli, poco alpinista e punto speleologo, anche quello di aver sovvertito, nell’occasione di una disputa a me così inaccessibile, il senso delle consolanti parole di Gesù: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli(Mt 11,25)?

Ugo Tozzini




ottobre 2011

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