Il progetto contro l’omofobia, tappa verso il totalitarismo

di Carlo Manetti


Articolo pubblicato sul Corrispondenza Romana






Ci troviamo di fronte all’ennesimo tentativo del movimento omosessualista e dei suoi alleati di far passare una legge che criminalizzi (nel senso di rendere reato) la pubblica condanna etica dell’omosessualità, con conseguente pubblica disistima nei confronti di coloro che praticano il vizio sodomitico: è ripartito l’iter parlamentare, sospeso per la pandemia, del disegno di legge contro l’omofobia, di cui è relatore il deputato Pd Alessandro Zan, attivista LGBT; attualmente è ancora alla Commissione Giustizia della Camera, ma i promotori contano di arrivare in Aula a Montecitorio già nel mese di luglio. Qual è la logica che soggiace a questi tentativi?

Essa presume che, se non tutti, almeno la maggioranza dei reati commessi contro persone omosessuali sia dovuta ad una “pregiudiziale” ostilità nei confronti di coloro che hanno tendenze contro natura, senza distinzione tra chi ha comportamenti conformi a tale indole e chi, vincendo queste pulsioni, se ne astiene; si ritiene, di conseguenza, opportuno e, quindi, “giusto” colpire giuridicamente chiunque, in qualunque modo ed a qualunque titolo, condanni qualsivoglia libera determinazione dell’individuo nella propria sfera sessuale ed affettiva. Si prescinde da ogni valutazione oggettiva dei comportamenti e si nutre tutto alla logica del rapporto amico-nemico degli omosessuali, partendo dal rifiuto del concetto di natura e, conseguentemente, di quello etica naturale, discendente dalla prima; ci si rifiuta, dunque, di riconoscere la politica come parte della morale ed il diritto come scienza.

Nella filosofia realistica, di cui Aristotele (384-322 a.C.), cristianamente perfezionato da San Tommaso d’Aquino (1225-1274), è la massima espressione, tutto ciò che esiste è regolato da leggi interne, coordinate in una sorta di ordinamento, voluto da Dio nel momento della Creazione. Tale ordinamento raggruppa tutti gli esseri in gruppi omogenei, a loro volta regolati ciascuno da una propria normativa (natura); ciascun essere, quindi, appartiene alla propria natura e la sua finalità sarà quella di raggiungere la massima perfezione possibile all’interno di essa.

Anche l’uomo, quindi, deve tendere alla propria perfezione. Egli è l’unico essere razionale sulla terra e, dunque, questa sua finalità non può essere conseguita tramite leggi meccaniche, come per gli esseri inanimati, o attraverso il puro dispiegarsi di leggi vegetative, come per le piante, o, ancora, con il seguire incoercibili e perfetti istinti, come per gli animali, ma deve essere adempiuta con il continuo adeguamento delle proprie pulsioni istintuali alla ragione, le prime imperfette e manchevoli, proprio perché bisognose di adeguarsi a questa. Tale adeguamento, finalizzato, come si diceva, al perseguimento della perfezione della propria natura, prende il nome di etica; non si può, quindi, parlare di etica se non con riferimento all’essere umano, proprio perché egli è il solo, su questa terra, ad essere libero, in virtù della propria natura razionale.

L’uomo, oltre che natura razionale, ha anche natura sociale, tanto che Aristotele arriva a definirlo ζῷον πολιτικόν (zoon politcòn), vale a dire animale politico. Questa socialità si esprime, in primo luogo, nella famiglia, ma riveste ambiti più ampi, tanto nel campo materiale e del proprio sostentamento, quanto in quello spirituale; di qui discende la tendenza a costituire comunità, all’interno delle quali l’elemento di natura spirituale è sempre stato presente, sia pure in forme diverse; si pensi, ad esempio, alla presenza di sacerdoti e di poeti in ogni società umana. La più compiuta forma di organizzazione umana fino ad oggi conosciuta è quella statuale.

Lo Stato ha la funzione di facilitare il cammino di ogni persona umana verso il raggiungimento della perfezione della propria natura. La politica, quindi, è parte dell’etica e, per essere più precisi, ne costituisce la branca che regola i rapporti umani tra le singole comunità (Stati) ed all’interno di ciascuno di essi. Lo Stato deve, dunque, promuovere il «bene comune», vale a dire l’ordinata convivenza, in grado di fornire, nei limiti del possibile ed a seconda delle circostanze storiche in cui ci si trova a vivere, gli aiuti utili a ciascuno per conseguire il suo fine ultimo. Gli obiettivi di carattere materiale, quali la sicurezza ed il benessere economico, sono strumentali a questo fine.

In tutta la tradizione occidentale, il diritto non è mai stato concepito, almeno fino all’Illuminismo, come strumento nelle mani del detentore del potere politico per costringere i membri della propria comunità ad adeguarsi al suo volere; ma, fin dall’antichità romana, le norme poste dal legislatore sono sempre state viste come applicazione, alla concreta fattispecie trattata, del diritto naturale, discendente, a sua volta, dalla natura (jus naturale) o, in maniera più specifica, dall’umana ontologia (jus gentium). È solo con l’Illuminismo che, ad imitazione del totalitarismo cinese, si è voluti tornare alla barbarie della riduzione della legge a puro atto di volontà del potere; la teorizzazione di questo regresso va sotto il nome di «giuspositivismo» e trova il suo maggiore cantore nel giurista austriaco Hans Kelsen (1881-1973).

Il ridurre il diritto ad espressione della volontà politica, privandolo, quindi, della sua autonoma scientificità, significa sottrarre la politica al dominio della morale e, conseguentemente, invertire la naturale gerarchia tra di loro, facendo dell’etica una pura appendice della politica e del potere. È in queste dottrine, così seducenti per ogni governante ambizioso, che trovano le loro radici i totalitarismi, fino alla Rivoluzione francese sconosciuti in Occidente, ed i tentativi di giustificazione dei loro crimini. È qui che nasce anche il concetto di «politicamente corretto», che, già nel lessico, esprime chiaramente la sovversione della gerarchia di cui parlavamo, ponendo nella politica e non nella morale l’origine della correttezza o meno di un’azione o di un pensiero.

Da queste aberrazioni, passando attraverso la teoria Gender, che, contro ogni evidenza scientifica, nega la natura sessuata dell’essere umano, nascono il concetto di «omofobia» ed i vari tentativi di sua criminalizzazione. Per «omofobia», neologismo linguisticamente orrendo, si intende la paura-avversione nei confronti dell’omosessualità e delle persone omosessuali (anche qui senza nessuna distinzione tra i due concetti). Si passa dalla repressione di atti di violenza nei confronti delle persone, indipendentemente dalle loro pulsioni e/o atti sessuali, al reprimere come reato la condanna morale della sessualità contro natura. Il bene giuridicamente tutelato da tali eventuali norme penali non sarebbe, quindi, più la persona, tanto nella sua dimensione fisica, quanto in quella morale, ivi compreso il diritto all’onore, ma l’omosessualità come tale. La legge, dunque, si farebbe garante della liceità (cosa ben diversa dalla tolleranza) di un comportamento oggettivamente contro natura e, conseguentemente, malvagio nella sua ontologia.

Come per tutte le legislazioni che riconoscono l’aborto come diritto soggettivo della donna, anche tutte le normative tese a reprimere la cosiddetta «omofobia» possono acquisire il valore di legge solo a patto di prendere il potere politico (nel caso di specie quello legislativo) “sovrano” della morale e, quindi, legittimato ad imporre ai cittadini norme immorali. Ma, poiché l’etica deriva dalla natura, per poter imporre come bene ciò che è oggettivamente male, si è costretti a negare la realtà, anche scientifica.

Una volta fatto saltare anche quest’ultimo argine, la strada verso il totalitarismo risulta completamente spianata: il detentore del potere politico potrà, così, “stabilire” non solo ciò che è lecito o illecito, ma anche ciò che è giusto o ingiusto e, quindi, ciò che è vero e ciò che è falso. George Orwell (1903-1950) ha dato prova di impressionanti doti di chiaroveggenza, anche se la realtà rischia di superare le sue pur tetre previsioni.






giugno 2020
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