Non è bene che l’uomo sia solo (Genesi 2, 18)


Articolo di Don Benoît de Jorna, FSSPX


Editoriale della Lettera agli Amici e Benefattori (n° 94) del Distretto di Francia

  Pubblicato sul
sito francese della Fraternità San Pio X
La Porte Latine






Cari amici e benefattori,

quando Dio ebbe creato Adamo, in mezzo al Paradiso delle delizie, dove era circondato da alberi magnifici e dove conversava con gli animali, il nostro primo padre si sentì solo; poiché, ci dice la Genesi, «non trovò un aiuto che gli fosse simile».

Si tenga presente che l’anno scorso Mons. Mutsaerts decise di abbandonare l’Assemblea sinodale, di cui non esitò a dire: «Dio è assente in questo ignobile processo sinodale».

E’ così che fin dall’inizio, in base allo spontaneo desiderio del primo uomo, Dio creò la società umana, formando Eva a partire dallo stessi Adamo, per manifestare la comunità reale tra gli uomini: gli esseri umani non sono separati gli uni dagli altri, essi  sono partecipi di una stessa natura la cui origine fisica risale al primo uomo.

Adamo si rallegrò di avere con lui, al suo fianco, la prima donna e di poter fare comunità con lei: egli lo espresse con un grido che manifestava la sua gioia: «Ella è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa».

Poiché, come abbiamo visto, è essenziale per l’uomo vivere in società, un una società umana; Dio stesso l’afferma nello stesso capitolo della Genesi: «Non è bene che l’uomo sia solo»; noi abbiamo bisogno gli uni degli altri, non possiamo essere pienamente uomini senza un rapporto con la società umana. Perfino il naufrago solitario continua ad avere un rapporto con la società, attraverso tutto ciò che è ed è stato, e attraverso il suo insopprimibile desiderio di ricongiungersi al più presto con altri uomini. È questa realtà costitutiva dell'uomo che Aristotele traduce nella sua famosa formula: «L’uomo è un animale politico», cioè un essere fatto per vivere in una polis, una «città» dove può beneficiare dell’aiuto, della compagnia e dell’amicizia di altri uomini.

Ora, più il tempo avanza, più ciò che noi vediamo intorno a noi assomiglia, non più alla società umana (seppure aggravata da delle imperfezioni), ma a quello che il filosofo Marcel De Corte chiamava, con una intuizione profetica, una «dissocietà», un aggregato che non ha più niente di veramente umano.

In realtà, noi non viviamo più in un insieme umano in cui le interazioni propriamente umane (di scienza, virtù, amicizia, aiuto reciproco, ecc.) avvengono tra gli uomini, ma piuttosto in un magma di individualità separate, nella coesistenza di monadi totalmente indipendenti.

Certo, ci sono ancora alcuni contatti materiali essenziali, di cui il «commercio» è di fatto il fondamento. Per il mio bene privato, scambierò occasionalmente alcuni beni per ottenere quelli necessari alla mia vita individuale. Ma anche questo contatto sarà il più ridotto possibile, e non è un caso che l’uso delle «casse automatiche» nei supermercati sia in continua crescita, permettendo che questo. quasi ultimo contatto con una parvenza di società umana, avvenga senza alcuna interazione con gli esseri umani.

Nascosti dietro i nostri schermi, con l’accesso virtuale a un mondo di conoscenza, commercio, intrattenimento, cultura e dibattito, abbiamo l’impressione di poter condurre una vita tranquilla. Ma è una terribile illusione: sfuggire in questo modo alla vera vita umana ci disumanizza ogni giorno di più.

Purtroppo, difficilmente possiamo cambiare questa «dissocietà» che ci circonda e ci corrompe. Dobbiamo quindi aggrapparci ostinatamente a ciò che ci permette, a un livello inferiore rispetto alla «città», di formare una società umana.
La prima áncora di salvezza è ovviamente la famiglia. Teniamoci stretti i rapporti familiari, facciamo uno sforzo nonostante le distanze, nonostante il sovraccarico di occupazioni.

Coltiviamo anche le amicizie, le amicizie sane, virtuose, in cui ci si scambia cuore a cuore. L’amicizia, al di là della famiglia, ci apre orizzonti più ampi e ci permette di contrastare un po’ il restringimento della visione che ci impone la necessaria fuga da una «dissocietà» corruttrice.

La nostra parrocchia, dove andiamo a Messa ogni Domenica, è e deve essere sempre più un luogo di socialità cristiana, un luogo dove, non solo onoriamo Dio (scopo primario), ma incontriamo altri cristiani e abbiamo occasione di socializzare con loro, anche solo chiacchierando per qualche istante in piazza.

Questo luogo di culto è servito dalla Fraternità San Pio X o da sacerdoti amici. Ora, avviene che, a seguito della crisi che sta scuotendo sempre più la Chiesa e il mondo e di indicazioni chiaramente provvidenziali, la Fraternità San Pio X ha sviluppato una rete di luoghi di culto, naturalmente, ma anche di priorati, scuole, case di ritiro spirituale, case di riposo per anziani, ecc. Ha anche sviluppato una serie di eventi, come pellegrinaggi, processioni, colloqui, conferenze, ricordi e congressi. Attraverso tutto questo, noi possiamo socializzare, creare legami che ci umanizzano (e cristianizzano) e sfuggire alla solitudine mortale della modernità.




Pellegrinaggio della Fraternità da Chartres a Parigi


Richiamo specialmente la vostra attenzione su due grandi pellegrinaggi annuali: il pellegrinaggio a piedi da Chartres a Parigi, nella Pentecoste, e il pellegrinaggio più «statico» ma non meno fervente di Cristo Re a Lourdes. Questi due avvenimenti procurano alle anime che vi partecipano innumerevoli grazie, ma in più sono occasioni per condurre una eccezionale vita sociale cristiana, sia per le relazioni personali che si possono instaurare, sia per la partecipazione ad una attività ecclesiale, una realtà visibile in cui il clero, i religiosi e le religiose, gli anziani e i giovani, le famiglie, i bambini, i celibi e le nubili, organizzati gerarchicamente, cantano insieme le lodi di Dio.

Di altro genere sono le Università d’Estate e d’Inverno, che riuniscono centinaia di partecipanti, esse si svolgono in un’atmosfera di studio, ma la vita comunitaria che offrono per alcuni giorni permette di stringere amicizie cristiane. E per i giovani che si preparano a entrare nella vita attiva e pensano al loro futuro, vi sono i campi di gruppo, dove essi condividono le difficoltà e le affrontano insieme, essi sono un’ottima occasione per prepararsi a esercitare le responsabilità nella società, qualunque sia la strada che Dio indicherà loro.

Io sono anche particolarmente felice di vedere le famiglie che riempiono le cappelle, quando vado a visitarle. A seconda del dono di Dio, ce ne sono di più o di meno, ma ognuna contribuisce a costruire la Città di Dio che è la Chiesa.

Tuttavia, mentre la famiglia umana genera nuovi esseri umani, non si può dire lo stesso della generazione soprannaturale nella Chiesa. Questa si basa su uomini scelti da Dio, chiamati da Lui, ma che devono rispondere a questa chiamata, ascoltarla e seguirla. Mentre una società meramente umana può esistere, almeno in embrione, finché gli esseri umani si sposano e hanno figli, lo stesso non si può dire della società divina. Qui è necessario che i giovani uomini (per il sacerdozio e la vita religiosa), le giovani donne (per la vita religiosa) prendano, sotto l’impulso della grazia, la decisione di consacrarsi al culto esclusivo di Dio.

Questa è ovviamente responsabilità di coloro che sono effettivamente chiamati da Dio. Ma non dobbiamo illuderci: è anche, e senza dubbio soprattutto, responsabilità di ciascuno di noi. Se non offriamo ai nostri figli, ai nostri giovani, un clima favorevole alle vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa, c’è da temere che molti di coloro che sono chiamati vengano meno lungo il cammino.

In particolare, la famiglia deve sapersi aprire alle prospettive del bene comune: i figli devono essere educati (prima di tutto con l’esempio) a mettersi al servizio, in parrocchia, nella tale e tal’altra opera di formazione, di pietà, di carità, ecc. È perché un ragazzo ha acquisito il senso del servizio in questo modo che sarà in grado di aprirsi al «servizio più grande», il servizio di Dio.

Noi abbiamo bisogno di queste vocazioni per animare la «società delle anime» che è la Chiesa. Il buon Dio suscita queste vocazioni. Sta a noi fare in modo, con le nostre preghiere e i nostri sacrifici, con l’atmosfera che creiamo, con la stima che mostriamo verso le vocazioni, che coloro che sono chiamati possano, per grazia di Dio, rispondere generosamente alla chiamata e perseverare fino alla fine nel loro stato santo, in modo che quando verrà il giorno, attraverso il loro ministero, tutti possano essere santificati nella santa Chiesa cattolica.









 
dicembre 2023
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