Cittadine e cittadini


di Roberto Pecchioli

Pubblicato sul sito Ereticamente








Un granello di sabbia può far incespicare sino alla caduta più rovinosa.
Ci è capitato pochi giorni fa. Richiesti da un gruppo di persone – buone, animate da rette intenzioni – di dare una mano per organizzare un programma politico “antagonista”, ci siamo imbattuti nel più inaspettato intoppo. Due gentili, miti signore ci hanno ingiunto, con cortese fermezza, di far precedere ogni progetto dall’indicazione che esso è rivolto alle “cittadine e ai cittadini”. Poco vale, a giustificazione del nostro disorientamento, la sorpresa di aver verificato quanto è diviso – sino ai fondamenti – il variegato, talora pittoresco, universo antagonista. Dovevamo mettere in conto che l’arma della frammentazione interna è il più potente degli accorgimenti del potere.

Tra i mille conflitti in atto uno dei più insidiosi è legato al sesso. Sentiamo quindi la necessità di svolgere una riflessione articolata, nella speranza di non lasciarci prendere la mano, restando aperti al dibattito e alla confutazione. Poiché apparteniamo al sesso maschile – così ha voluto la natura, così ha constatato l’ostetrica, a voler seguire la litania del “sesso attribuito alla nascita”, distinto dal genere scelto nel tempo – non possiamo che ragionare al maschile. Questo impone il dato biologico. Non ce ne scusiamo: contra factum non valet argumentum.
Nei dibattiti è onesto mettere le carte in tavola: in materia manteniamo alcuni principi non negoziabili.
Il primo è la pari dignità tra i due sessi; nessun dubbio in proposito. Il secondo è la constatazione delle differenze naturali (preferite “biologiche”? E sia!) tra maschio e femmina, con le conseguenti diversità comportamentali, psicologiche, di attitudine nei confronti di grandi e piccoli temi della vita. Il terzo è la presa d’atto del dimorfismo sessuale prescritto da Dio o dalla natura. L’altro, che comprende i primi tre, è la gioiosa, per quanto concretamente complessa, certezza che i due sessi sono destinati a incontrarsi, ad amarsi, a collaborare. E non solo ai fini della riproduzione della specie.

Tanto premesso, ci rendiamo conto che quelle che a noi paiono ovvietà sono invece sanguinoso terreno di scontro da alcuni decenni, in particolare da quando il femminismo delle prime ondate – orientato a conseguire la parità – ha cambiato direzione, divenendo rancoroso, antimaschile, sino ad avvicinarsi – qualche volta a sovrapporsi – alla teoria di genere, alla decostruzione, alla cultura della cancellazione. Tuttavia, se non riconosciamo, come cornice del dibattito, che i sessi sono due, che non si tratta di costrutti culturali, sino alla ridicola affermazione della gravidanza come imposizione maschile, il dialogo è tra sordi e non può continuare.

Sì, dirà il lettore, ma che c’entra la questione dei cittadini e delle cittadine?
C’entra, eccome, in quanto simbolo dell’interiorizzazione della divisione artificiosa. Recentemente, un esponente del Partito Democratico (la forza politica che meglio rappresenta i tic dell’occidente postmoderno) ha proposto di cambiare nome alla Camera dei Deputati, che andrebbe ribattezzata “dei deputati e delle deputate”. Non riusciamo ad opporre argomenti a pretese di questo tipo, tanto ci paiono fuori posto. Possiamo solo ergerci a paladini dei transessuali e dei queer: se i generi sono dieci o trentatré, perché escluderli? Si scolpisca nel marmo Camera de* deputat* e ognuno scelga la dizione che preferisce. Sarebbe più coerente, pardon inclusivo.
La lingua obbliga: ovvio, è un codice che deve essere compreso e condiviso. Per gli strutturalisti – i peggiori tra i cattivi maestri – è addirittura fascista perché impone un sistema di idee, comportamenti e credenze introiettati attraverso l’uso delle parole e il giudizio che ne consegue. Il linguaggio definito non sessista – la declinazione per genere di ogni definizione e funzione (sindaca, ministra, perfino “vescova” riferito a un prelato donna della chiesa anglicana) – determina divisione.
Lo rigettiamo per questo, non per arroganza maschile. Ammettiamo senz’altro che in origine la prevalenza linguistica del genere maschile sia stata determinata dalla mentalità dominante degli uomini. Nel tempo, tuttavia, questo carattere si è perduto e la definizione al maschile si è neutralizzata. Cittadini siamo tutti, dame e cavalieri e anche le drag queens. Dovremmo rivendicare, noi maschi, “il” tigre, “il” pantera o “il” volpe?
Dovremmo parlare di orsi e di orse, cani e cagne, per fare contente alcune permalose?
Poiché i cittadini – nell’accezione moderna – sono un concetto della rivoluzione francese, ci tocca incolpare sanculotti e giacobini (al maschile, a differenza delle tricoteuses, le cittadine che assistevano impassibili sferruzzando alle esecuzioni capitali di uomini e donne) di aver scritto la dichiarazione dei diritti “dell’uomo e del cittadino”, dimenticando l’altra metà del cielo?
Pensieri oziosi di un ozioso, se non fossero idee condivise da una parte della società. Puntigli, suscettibilità di questa natura rendono il clima irrespirabile e allontanano dall’obiettivo comune di tutti (e di tutte, così va meglio?) coloro che combattono un sistema folle, anche nel linguaggio.
Una lunga introduzione per un ragionamento complesso: il giudizio sulla guerra dei sessi che sta rendendo difficili le relazioni tra uomini e donne, avvelenando la società.
Ahi, ecco un giudizio forte, cittadine e cittadini. Bisogna tentare di motivarlo. Se vi è discriminazione, esistono forme molto diverse di combatterla. Se consiste nel trattare in modo disuguale gli uomini e le donne, va respinta. Preliminarmente occorre chiarire se la diseguaglianza si deve intendere come sinonimo di “medesimezza”.
In altri termini, occorre sapere se, per stabilire l’uguaglianza tra i sessi, deve sparire la differenza tra di essi, cosa assurda. Temiamo che le teorie dominanti abbiano per obiettivo proprio questo, la demolizione e la scomparsa del maschile e del femminile, per raggiungere l’androgino, l’Identico innaturale, funzionale al transumano che avanza.
In questo senso, è semmai da invocare un’alleanza dell’umanità intera – uomini e donne – contro chi vuole stravolgere natura e biologia.

Altro è ripensare ruoli e funzioni sociali di uomini e donne, senza pretendere però che le differenze siano irrilevanti rispetto ai ruoli svolti. Boscaioli donna e bambinai uomini non ci entusiasmano. Attraverso l’integrazione delle donne al sistema salariale è stata progressivamente cancellata la frontiera tra una sfera privata femminile e una sfera pubblica maschile. L’accesso alla contraccezione, la legalizzazione dell’aborto, la separazione tra le responsabilità familiari e le attribuzioni di indole sessuale hanno conferito alle donne molte libertà. Alcune ci paiono illusorie. La possibilità di lavorare fuori dall’ambiente domestico ha costituito insieme una liberazione e un’alienazione a favore del sistema economico: l’esercito di riserva descritto da Marx.

La questione – posta dalla teoria di genere, accolta da alcuni filoni femministi – è se la trasformazione delle funzioni sociali maschili e femminili debba implicare una negazione o una sparizione della femminilità e della virilità. L’appartenenza non è una questione di organi sessuali (il cervello stesso è già sessuato alla nascita), e le desessualizzazione di un certo numero di ruoli e funzioni non ha fatto sparire l’invarianza antropologica della divisione della specie umana in due sessi. Nello spazio e nel tempo, nell’ambito delle differenti culture, i ruoli sociali maschile e femminile sono andati evolvendo senza sosta.

Ciò che osserviamo ora, tuttavia, è un rancore, un odio vero e proprio per la figura dell’uomo, del maschio e del padre. Non neghiamo che in altri tempi i valori femminili siano stati considerati inferiori a quelli maschili. Nella tradizione cristiana, ad esempio, la donna è stata associata simbolicamente alla voluttuosità e quindi al peccato. Non possiamo cadere nell’estremo inverso.
I valori considerati femminili (la sensibilità, lo spirito di aiuto e di cooperazione, la cura, un modo specifico di affrontare i conflitti) sono stati collocati al di sopra dei valori maschili. Tutto ciò che evoca la virilità o la mascolinità risveglia ironie, sdegno, ostilità. La nozione di autorità è screditata in radice, benché resti onnipresente nella vita reale. Allo stesso tempo il bambino – nel passato considerato più carnalmente legato alla madre che al padre – è oggetto di un’idolatria senza precedenti. Prima il crimine supremo era il parricidio; oggi è il “femminicidio”. Questa situazione non è preferibile al vecchio ordine. In realtà, ne è l’inversione simmetrica. Non si esce dallo squilibrio sostituendo il patriarcato con il matriarcato.
Particolarmente inquietante nello sgretolamento della figura paterna è il divieto di svolgere la funzione assolta per millenni: incarnare la legge simbolica che permette al figlio di mettere fine alla simbiosi materna della prima infanzia; ovvero gli si impedisce di entrare nell’età adulta.
Il crollo dei valori virili porta gli uomini a dubitare di se stessi, ciò che deteriora gravemente le relazioni tra i sessi. Il tracollo del ruolo paterno produce una generazione di immaturi narcisisti, fragili, talvolta inclini a risolvere con la violenza – la natura ci ha fatto mediamente più alti e più forti – i conflitti nelle relazioni tra i sessi. Questa involuzione è uno degli aspetti centrali della società postmoderna e una certa mentalità femminista – vendicativa, agonistica – ha le sue colpe.
Vogliono davvero questo le “cittadine” per i loro figli e gli uomini che amano?
Entriamo qui nel campo delle relazioni sentimentali, di coppia e negli istituti della famiglia e del matrimonio, travolti dal ciclone femminista. Ci sono sempre state due grandi tendenze all’interno di quel movimento. La prima, identitaria e differenzialista, cerca innanzitutto di difendere, promuovere e valorizzare il femminile in relazione ai valori maschili. Proclama il suo uguale valore rispetto al maschile. Ha conosciuto eccessi, talvolta è caduta nella misandria, come quando alcune femministe radicalizzate proclamarono che “una donna ha la stessa necessità di un uomo che un pesce di una bicicletta”. Ha però fatto avanzare la condizione femminile.
La seconda tendenza, una sorta di femminismo egualitario e universalista, pensa che il riconoscimento della differenza tra i sessi ha permesso al “patriarcato” di imporsi. La differenza è associata alla dominazione, l’uguaglianza è intesa come indifferenziazione.

La conseguenza è che per combattere il “sessismo” (cioè il pregiudizio antifemminile, nella distorta definizione corrente) si vuol far sparire la distinzione dei sessi. Altri/e arrivano a negare la naturale complementarità, cardine dell’incontro, del mutuo riconoscimento, della collaborazione tra uomo e donna, per promuovere un’identità femminile impegnata in competizione continua, ostile, ossessivamente rivendicativa.

Il rischio è la differenziazione litigiosa, una frattura in cui donne e uomini la pensano tanto diversamente da compiere scelte politiche, ideologiche, esistenziali incompatibili, trincerati su barricate opposte. Le cittadine contro i cittadini, se l’identità agonistica diventa progetto di vita il linguaggio inclusivo si volge nel contrario se alimenta separatezza anziché collaborazione, divisione in luogo di comunanza. Si rimarca con pignoleria la distinzione sessuale per soddisfare un’ansia di riparazione di torti antichi ma si finisce per costruire steccati nuovi, allargare la distanza tra i sessi a partire dalle parole.

L’accademia linguistica francese ha stabilito che il genere del linguaggio comune non distinto per sessi è di fatto neutro. Non servirà a placare la rivalsa inesausta del femminismo di ultima generazione, le cui parole d’ordine incoraggiano l’omosessualità come atto estremo di estraneità verso il maschio. Una separatezza nemica che genera un muro di non conoscenza, incomunicabilità, un apartheid di genere dagli esiti infausti per la società civile, per l’equilibrio familiare, per quello sessuale.
Maschio e femmina li creò, dice la Genesi. Destinati a stare insieme nonostante – o piuttosto grazie – alle differenze di visione, psicologia, senso della vita. Separati, il destino è Sodoma o Babilonia. Per tutti, cittadini e cittadine.





 
febbraio 2024
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