Alla ricerca del culto perduto  / 2



di Elia



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O uomo, se vuoi godere della libertà, infila il tuo collo nella sua catena e i tuoi piedi nei suoi ceppi (cf. Sir 6, 25 Vulg.). Non c’è gioia più grande della libertà, ma non potrai goderla se non piegherai il collo della superbia alla catena dell’umiltà e non chiuderai i piedi degli affetti carnali nei ceppi della mortificazione
(sant’Antonio di Padova, Sermone per la XV Domenica dopo Pentecoste, I, 4).

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Citando a memoria un testo sapienziale dell’Antico Testamento, il grande Dottore fattosi piccolo al seguito del Poverello d’Assisi enuncia un principio fondamentale: il segreto della libertà è radicato nel vivere secondo ragione. L’uomo, essere dotato di intelletto e volontà libera, non può esercitare adeguatamente la seconda se non sotto la guida del primo: la luce del vero, infatti, lo orienta verso il bene, al quale la volontà tende per sua stessa natura, così come per sua stessa natura l’intelletto tende alla verità.
Dato che la verità è l’essere in quanto è conoscibile e il bene lo stesso essere in quanto è fruibile, un uso del libero arbitrio contrario alla verità non produce alcun bene e, di conseguenza, non dilata l’ambito della libertà umana ma, al contrario, lo restringe; esso non può arrecare la gioia e soddisfazione che il soggetto ne sperava, bensì tristezza e frustrazione.

Il testo biblico citato si riferisce proprio al consilium intellectus, indicato nel versetto precedente: è appunto la guida della ragione, che l’educazione paterna abilita al suo compito e sviluppa in vista del suo esercizio maturo. Sant’Antonio la vede però applicata, in particolare, alla virtù che fonda le altre e all’indispensabile pratica dell’ascesi: l’umiltà di cuore e la mortificazione degli appetiti sono anzitutto disposizioni ragionevoli che pure la saggezza umana riconosce utili, pur non avendo, nello stato di natura decaduta, i mezzi necessari per realizzarle in modo retto e compiuto. Ecco allora la necessità della grazia, che risana l’intimo dell’uomo e gli ridona sia la capacità di essere realmente umile, piuttosto che in apparenza, sia quella di mortificarsi con frutto, anziché per vanagloria.
Caritas a fundamento humilitatis: già sant’Agostino si era reso conto che neanche la carità, anima e vincolo di tutte le virtù, è possibile a chi manca di autentica umiltà.



Malintesi morali e culto divino

Riecheggiando ancora l’Ipponate, il Nostro ne sviluppa il pensiero icasticamente espresso nel tanto celebre quanto frainteso Ama et quod vis fac (Ama e fa’ ciò che vuoi): «Se l’uomo si sottomette alla ragione, trova la grazia, diventa libero, ha la possibilità di andare dove vuole e di fare ciò che vuole. […] Al giusto non viene imposta la legge (cf. 1 Tm 1, 9), perché è lui stesso legge a sé medesimo (cf. Rm 2, 14). Ha infatti la carità, vive sottomesso alla ragione e, quindi, va dove vuole e fa ciò che vuole» (ibid.).

La carità consiste nell’amare Dio per Se stesso, cioè come Sommo Bene per sua natura infinitamente amabile, e nell’amare il prossimo come sé stessi per amore di Dio; il suo esercizio, di conseguenza, presuppone necessariamente la libera sottomissione alla retta ragione, in quanto senza quest’ultima è impossibile riconoscere il bene e tendervi, cosa che impedisce altresì di cooperare con la grazia. Il giusto non ha più bisogno della legge perché, avendone interiorizzato le esigenze, spontaneamente la applica nel bene che il suo intelletto vede e la sua stessa volontà gli comanda.


Trasferendo il discorso in campo liturgico, non possiamo fare a meno di osservare fino a qual punto il rito tradizionale traduca meravigliosamente queste verità in riferimento al culto dovuto a Dio: la ragionevole ed esatta conformazione ai gesti e alle parole prescritte affranca il ministro da tutta una serie di costrizioni illegittime impostegli [oggi] dalla necessità di “interpretare” e “animare” un rito privo di vita propria in quanto artificiale, costruito a tavolino con criteri, oltretutto, estranei. L’idea che la sua efficacia dipenda dall’originalità di chi lo esegue ingenera una vera e propria ossessione: il prete si trasforma così in intrattenitore e la Messa diventa uno spettacolo gratuito di basso livello e scarsa attrattività, malgrado tutti gli sforzi; ciò che è peggio, egli perde e fa completamente perdere di vista la vera natura e il vero significato di ciò che sta compiendo. L’insignificanza di un’azione già poco attraente per le sue modalità esecutive, a lungo andare, finisce col renderla insopportabile.

Nel rito antico, invece, il sacerdote sa di prestare la voce e le mani a Gesù Cristo e di doversi quindi limitare a compiere fedelmente quanto stabilito, senza inventare né modificare nemmeno il minimo dettaglio. Ciò non vuol dire, ovviamente, che debba agire come un automa privo di pensiero nonché di sensibilità; la consapevolezza di quel che fa, al contrario, mantiene la sua mente attenta al massimo grado di cui è capace e infiamma il suo cuore di appassionato amore per Colui che, tra le sue mani, torna a incarnarsi e immolarsi per gli uomini, a cominciare dal Suo ministro. Non esiste nulla di più sublime né di più liberante: lasciando che Dio si serva di lui per comunicare agli uomini i doni del Suo amore, egli si sente realizzato – come usa dire al giorno d’oggi – a un livello inimmaginabile da chiunque aspiri ad affermarsi mettendo in mostra le proprie qualità per ottenerne pubbliche lodi; siamo semplicemente in un altro mondo, quello della carità divina.


Vivificante mortificazione

Non è solo il sacerdote a sperimentare questa liberazione dall’io e dalle costrizioni di un’efficienza puramente orizzontale, quando lascia a Cristo il posto che Gli spetta, ma anche il popolo cristiano, non più tiranneggiato dal bisogno di attivismo, emotivismo e protagonismo, che nessuna esibizione può comunque soddisfare. Chi, dopo aver ascoltato e adorato col cuore pieno di fede e riverenza, si inginocchia alla balaustra per ricevere il Pane vivo come un bambino imboccato dalla mamma, non è ripiegato su esigenze soggettive indotte che prevalgano sulla realtà oggettiva del Sacramento, ma accoglie il crocifisso Redentore tutto dimentico di sé e proteso a Lui, in quanto rapito dallo stupore e dalla gratitudine suscitati da un incommensurabile quanto immeritato amore.
Non c’è niente di più miserabile e blasfemo che, da peccatori quali siamo tutti, rivendicare diritti inesistenti nel ricevere il Dono in assoluto più grande e magnifico, come se il prenderlo con le proprie mani avesse maggiore importanza che l’accoglierlo in un’anima che sia almeno in stato di grazia…

La superbia e gli attaccamenti dell’io impediscono di godere della libertà che il Signore ha donato ai redenti e sono all’origine della tentazione, ricorrente nella storia dell’antico popolo eletto, di tornare in Egitto, preferendo i meschini vantaggi della schiavitù ai benefici della condizione libera (cf. Es 16, 2-3; Nm 14, 3-4; Ger 42, 14-15).
La Provvidenza permette le prove proprio per purificare l’uomo dall’egoismo che lo asservisce e affrancarlo dalle catene del suo orgoglio; chi è centrato su di sé e tale vuol rimanere, tuttavia, le respinge stolidamente e vi si ribella, non presagendo le benevole intenzioni divine. Per questo la Chiesa ha sempre insegnato, almeno fino a qualche decennio fa, ad astenersi a intervalli anche dai godimenti leciti per restituire all’anima la sovranità sul corpo e rendere così alla persona la vera libertà e la vera vita, per le quali è fatta. Diversamente si vive contro natura, ossia in maniera contraria a quel che si è per costituzione; l’uomo è allora dominato da bisogni, godimenti e passioni della parte inferiore, che lo rendono schiavo e infelice.

Tutta la Tradizione, a cominciare dal rito della Messa, è una scuola di questa mortificazione capace di liberare e vivificare chi la pratica. È comprensibile che, per quanti ne sono del tutto digiuni, sia necessario un periodo più o meno lungo di adattamento e assimilazione: chi ha sempre camminato male non può mettersi subito a correre, benché sia in via di guarigione, così come chi non ha mai veduto con occhi sani si abitua solo gradualmente alla luce piena. Voler bruciare le tappe non porta buoni frutti, ma rischia di trasformare gli individui in fanatici che si sentono a posto per il solo fatto di aver cambiato rito o di aver adottato nuove abitudini, senza comprendere in profondità né l’uno né le altre e, di conseguenza, senza cambiare interiormente. Si è modificata soltanto l’esteriorità, mentre il cuore rimane ricolmo di superbia e di affetti carnali.

Tornati, pur non volendo, alla stessa conclusione della volta scorsa, non possiamo fare altro che ribadire: che il Signore ce ne guardi.






 
febbraio 2024
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