Taybeh, Gaza.

Il villaggio cristiano minacciato dai coloni israeliani




Pubblicato dal Centro Studi Federici






Statua del Sacro Cuore di Gesù in una piazza del villaggio di Taybeh



Taybeh, unico villaggio tutto cristiano che lotta per non venire cancellato

Assediata dagli insediamenti illegali, falcidiata dalla crisi economica, minacciata dai mitra spianati, l’antica Efraim cerca di contenere la fuga di anime.

Entriamo a Taybeh attirati dai dati ufficiali: unico villaggio interamente cristiano, 15mila residenti, una chiesa cattolica, alcune ortodosse, un’antica chiesupola bizantina.
Dove sono finiti tutti? «Scappano da 70 anni: siamo rimasti in neanche 1.300», risponde padre Bashar, il parroco che vuole salvare l’ultimo abitato con tante croci e nessun minareto.

Pioggia, nebbia, filo spinato e carcasse d’auto crivellate o prese a sassate. Taybeh è un deserto d’anime.
Assediata dagli insediamenti israeliani illegali, falcidiata dalla crisi economica, minacciata dai mitra spianati, l’antica Efraim lotta per non venire cancellata.
«Dal 1948 ad oggi sembra non sia cambiato niente», dice “abuna” Bashar, come lo chiamano tutti.
E “padre” Bashar parla come a inventariare i ricordi tramandati da profugo in profugo. Memoria di guerre, occupazioni, tradimenti, promesse. E di nuovo fughe. Perché Taybeh è a Parigi, in Austria, in Messico, in Australia, in Germania, in Cile, in Guatemala, ovunque ci sia stato modo di andarsene per non stare più qui.
E ce ne vuole per trasformare una valle rigogliosa a ridosso dei deserti in un girone infernale. Ma abuna Bashar spera. E agli emigrati chiede di dare una mano per quelli che stanno qui, per sostenere i cristiani che resistono. I coloni israeliani hanno perfino circondato e inglobato la collinetta con l’antica cappella bizantina, ora inaccessibile.

A Natale il parroco non se l’è sentita di fare un presepe bucolico. «I bambini hanno ricostruito le macerie di Gaza e hanno messo sulle rovine la Sacra Famiglia e i Magi». Non è un modo per alimentare il rancore, assicura.
«Quello che tanti non capiscono – spiega – è che noi non siamo solo cristiani, siamo Palestinesi». Per dire tutto quello che pensa di Hamas dovrebbe togliersi l’abito da prete. Senza considerare il rischio di rappresaglie dei fondamentalisti sui cristiani.
Ma che gli estremisti siano peggio di una sventura e che il 7 ottobre sia stato «un crimine, una follia, una disgrazia», questo intorno alla parrocchia lo pensano quasi tutti.

Da lontano gli emigrati rispondono alla chiamata. Chi comprando il nuovo organo per la Chiesa del Cristo Redentore, chi sostenendo i progetti di sviluppo sociale e chi investendo in una bottega che fin dal nome spiega da dove arriva l’ispirazione: il chiosco dei pasticcini “Vienna”, la pizzeria “New York”, il café “Milano”. Ma non basta, se poi, «dopo che magari abbiamo trovato un posto da impiegato o da assistente sociale a un giovane capofamiglia, succede che per percorrere i 20 chilometri fino a Ramallah o i 30 fino a Gerusalemme deve impiegare due ore all’andata e due al ritorno», si lamenta il parroco indicando sul telefono la mappa dei posti di blocco che sulla carta non dovrebbero esserci, ma che poi spuntano regolarmente. Ufficialmente, per proteggere i Palestinesi dai coloni. Ma accade il contrario.
Ce ne accorgiamo mentre tentiamo di raggiungere il villaggio di Sinwal, lungo una strada che secondo le dicerie è tra le più pericolose perché sovrastata dalle postazioni armate di una mezza dozzina di colonie israeliane. Abbiamo una targa israeliana e dovrebbe tenerci al riparo. Non facciamo in tempo a imboccarla che un fuoristrada scuro prima ci insegue e poi ci blocca. «Andate via», urlano. «Jalla jalla», in fretta, e ci fanno cenno di seguirli e sgommare. Si sente una raffica che scortica un ulivo a poca distanza. «Un avvertimento», ci diranno poi i due barbuti con la croce al collo. Ci avevano visto fare domande in paese. «Non è vero, stavano dando la caccia a delle volpi», provano a rassicurarci dopo aver visto il “permesso stampa” alcuni israeliani armati, senza divisa.

I cristiani di Palestina pensavano che la soluzione dei due Stati e il processo di pace sostenuto dagli Usa con gli Accordi di Oslo del 1993, sarebbero stati una svolta. L’intesa aveva portato l’Organizzazione per la liberazione della Palestina di Arafat a riconoscere il diritto all’esistenza di Israele, rinunciando alla lotta armata, creando l’Autorità Nazionale Palestinese (Anp), che ha un’autonomia limitata in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Ma il percorso è stato minato dai fondamentalismi.
Hamas, che si opponeva al processo e inneggia ancora alla completa distruzione di Israele, ha compiuto attacchi che hanno ucciso decine di persone. E il leader israeliano Rabin, che di quegli accordi fu protagonista, fu assassinato nel 1995 da un ultranazionalista che si opponeva alla pace con i Palestinesi. Quanto alla morte di Arafat, nel 2004, resistono ancora i dubbi su un sospetto avvelenamento. Gli ostacoli, perciò, non sono mai stati veramente rimossi. E chi può fa le valigie.

Eppure c’è stato un tempo in cui questo era un luogo appartato e sicuro. C’è scritto in otto lingue sulla vetrata ad arco della chiesa cattolica: «Gesù pertanto non si faceva più vedere in pubblico tra i Giudei; egli si ritirò di là nella regione vicina al deserto, in una città chiamata Efraim, dove si trattenne con i suoi discepoli» (Gv. 11, 54).

Duemila anni dopo il racconto dell’evangelista Giovanni, Efraim-Taybeh non è più il luogo in cui cercare rifugio e ristoro, ma da cui andarsene alla svelta.






 
febbraio 2024
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