Il diritto alla violenza


di  Don Renaud de Sainte Marie, FSSPX




Pubblicato sul sito francese della Fraternità San Pio X

La Porte Latine








Momento tristemente storico questo lunedì 4 marzo 2024! La Francia è il primo paese a inserire il diritto all’aborto nella sua legge fondamentale.

Vi è molto da dire su questo fatto. Noi lasciamo ad altri il compito di commentare e di ribadire ancora la più profonda avversione che ogni cattolico deve avere per l’atto di interrompere direttamente una gravidanza.  Praticare quest’atto è infatti una violenza ingiusta, che per i cattolici comporta una scomunica.

Come sempre, non bisogna farsi immobilizzare dalla paura che i nostri avversari cercano di instillare nei nostri cuori. Noi dobbiamo trovare il modo per rispondere a coloro che ci rimproverano il nostro rifiuto categorico.
Cominciamo col dire che il testo adottato dal Parlamento non parla di diritto all’aborto, ma di «libertà garantita alla donna di ricorrere ad una Interruzione Volontaria della Gravidanza (IVG)». Questo non impedisce che i più avanzati parlino di un diritto e che ai loro occhi la clausola di coscienza che consente ai medici di rifiutarsi di praticare l’aborto un giorno dovrebbe essere abolita.

Ciò che ha motivato gli uomini politici del nostro paese a legiferare in questo senso è la revisione americana del diritto all’aborto realizzata dalle Corte Suprema americana nel 2022. Notiamo che una tale preoccupazione rivela l’inconsapevole dipendenza intellettuale (per non dire politica) dalla democrazia americana di gran parte della classe politica del nostro Paese. Perché ciò che accade dall’altra parte dell’Atlantico dovrebbe lasciarci indifferenti, visto che siamo ufficialmente un Paese indipendente in cui non esiste una minaccia concreta all’accesso all’aborto. Ma una tale paura panica dovrebbe far aprire gli occhi a chi si rifiuta di accettare la quasi ovvietà: che il dominio francese si sta così proteggendo legislativamente dai preoccupanti sviluppi della sua capitale imperiale, Washington.

A parte le ipotesi, noi dobbiamo esaminare il significato del diritto all’aborto. Dobbiamo analizzarlo nei termini usati dai suoi sostenitori e mostrare cosa esso significhi realmente. Perché dietro a questa grandiloquenza giuridica si nasconde una frode intellettuale. Dobbiamo quindi sollevare il velo di ipocrisia che copre questa triste realtà e denunciare un discorso giuridico che permette a tutte le forme più ingiuste di violenza di esprimersi e di darsi un titolo di legittimità.


Il diritto di ciascuno a disporre del proprio corpo

Ritorna uno slogan

Questa espressione è storicamente ancorata nella tradizione liberale, che vuole che ogni individuo abbia il controllo assoluto del proprio dominium, di ciò che possiede. E’ questa concezione di proprietà inviolabile che sta all’origine del pensiero liberale, dei suoi eccessi economici e delle sue negazioni religiose.
Dire che si dispone del proprio corpo implica che il pensiero liberale del nostro tempo ha rigettato il limite del dominio e ha fatto del corpo un bene mobile al pari di un altro.
Questo fatto, lo abbiamo già notato nel nostro libro La Supercherie du Genre [1], dove abbiamo scritto che l’ideologia metagenista ha escluso una parte di noi stessi dalla nostra umanità, ovvero il nostro corpo. Infatti, fare del corpo umano il luogo di un’appropriazione paradossale significa introdurre una lacerazione nel nucleo stesso del nostro essere. Come possiamo appropriarci di ciò che già siamo se non rifiutando una parte di noi stessi? Questo corpo rifiutato diventa allora qualcosa che può essere conquistato, rivendicato, reinvestito di potere (il famoso empowerment delle donne che si dimenano per dimostrare di essere padroni del proprio corpo).

«Il mio corpo, la mia scelta!» scandiscono le femministe; espressione che ci dice che questo elemento materiale di base della loro umanità può ora essere oggetto di qualsiasi transazione, di un numero infinito di scelte a disposizione della loro volontà radicalmente indipendente, indipendente persino dal destino del loro stesso corpo.
Propriamente parlando si tratta di un’espressione diabolica, nel senso in cui il greco diabolos indica colui che divide; ingegnoso stratagemma per convincere le persone che la divisione di se stessi, l’autodivisione, è la condizione di ogni libertà. Cosa che equivale a convincerci che tagliare le gambe a un uomo dimostri che egli è libero. Libero, ovviamente, in un certo senso, dalla libertà di chi ha scelto di odiare se stesso per dimostrare a se stesso di essere libero. Uno spettacolo davvero patetico. Ci sono molti altri modi per affermare se stessi senza arrivare a questi estremi. Quanto a noi, siamo ancora abbastanza intelligenti da capire e abbastanza liberi da dire che tutto questo è solo follia e illusione mortale.


Dalla sofferenza intrasmissibile al giudizio impossibile

Questa libertà che rimbomba continuamente nelle nostre orecchie dovrebbe impedirci di considerare la violenza intrinseca dell’aborto e la sua insita ingiustizia. Certo, anche i sostenitori di questa pratica riconoscono che non è mai innocua. Il recente documentario trasmesso da France Télévisions [2], IVG, le droit d'en parler (Aborto, il diritto di parlarne) non ci dirà il contrario. Esso mostra una serie di donne che spiegano i loro percorsi, le circostanze delle loro gravidanze e le prove che hanno affrontato per giustificare le loro scelte. Fortunatamente, sentiamo che non esiste un aborto di comodo e nessuno degli oratori sembra negare questo fatto. Non si tratta di rimuovere un tumore, ma di interrompere un processo che le donne che parlano sanno essere centrale per la loro specificità. Non si dice che la donna è solo questo, ma che è colei che porta in grembo il bambino, colei che soffre per l’atto che sta compiendo (il documentario dimentica peraltro la sofferenza e la morte dell’embrione, che vengono cancellate).

Una scrittrice cattolica pro scelta, Monique Hébrard, ha pubblicato un libro nel 2006: Avortement, la parole confisquée. Dove riporta le parole di donne anonime che all’epoca si esprimevano sui forum (non eravamo ancora nell’era dei social network).
Significativamente, uno dei capitoli è intitolato: La souffrance interdite [La sofferenza vietata], per dimostrare che questa sofferenza non deve trasparire perché rischia di indurre le persone ad essere contro l’aborto.
Il documentario televisivo prima citato intende fare ammettere, al pari del libro di Monique Hébrard, che la scelta appartiene alle donne, perché sono esse che soffrono.
Ci si vuole proibire di esprimere un giudizio sull’atto nonostante la terribile sofferenza che esso implica. Ci si chiede di chiudere gli occhi sulla violenza intrinseca del sentire il battito del cuore dell’embrione che è portato in grembo e tuttavia di decidere di interrompere questa vita che sta arrivando, di sopprimerla...


Il diritto degli uni contro il diritto degli altri

Risposta all’obiezione abituale

Bisogna anche rispondere all’argomentazione piuttosto facile che mette in caricatura la seria obiezione che abbiamo nei confronti di questo atto. Léa Bordier, che ha realizzato il documentario citato, riassume così l’obiezione antiabortista: «Ci troviamo di fronte a paradossi psico-sociali. Ci è sempre stato detto che una donna è realizzata quando diventa madre, che lei stessa è figlia di un’altra madre e che è suo dovere assicurare che la discendenza continui. Questi sono assunti radicati nella nostra cultura e sono queste rappresentazioni arcaiche che fanno da sfondo al discorso antiabortista che sentiamo ancora oggi».

E allora, cara Léa Bordier, se un giorno avrà la possibilità di leggerci, capirà che non è questo discorso arcaico a guidarci nelle nostre obiezioni, ma semplicemente un principio morale piuttosto semplice. Non si può fare il male morale per ottenere il bene, per quanto questo bene possa essere desiderabile. Sappiamo che molte donne abortiscono perché si sentono incapaci di crescere un figlio in certe circostanze. Possiamo capire l’angoscia delle giovani donne che si trovano incinte in determinate condizioni. Sono d’accordo, ma questo non ci dà certo il diritto di non fare tutto il necessario per uscire da una situazione difficile.

Per farci capire meglio, usiamo un paragone molto attuale.
Nessuno nega ad Israele il diritto di difendersi contro l’aggressione di Hamas, ma molti commentatori politici hanno quanto meno indicato che tale diritto di legittima difesa non include la carta bianca per l’azione armata contro la popolazione di Gaza. E molti ritengono giustamente che la risposta di Israele all’attacco del 7 ottobre sia un mezzo inadeguato per un fine legittimo.
Se ci si dice, come fa Monique Hébrard nel suo libro, che alla fine la scelta appartiene solo alle donne e che nessuno può giudicare, allora si dimostra che si è d’accordo che la scelta dei mezzi armati e l’intensità del fuoco usato contro Gaza appartiene solo a Israele e che nessuno può giudicare, qualunque sia il costo umano. E anche se donne e bambini sono direttamente presi di mira, questa scelta finale dello Jus in bello, di ciò che è giusto in guerra, appartiene solo al governo israeliano e ai suoi capi militari. Spetta solo a loro decidere, poiché solo loro devono affrontare il problema di Hamas e l’ostilità dei Palestinesi nei loro confronti.


Riflessione sui diritti

In effetti, alla fine non rimarrà altro che l’argomento del diritto fondamentale, una sorta di mantra, una formula sacra pensata per immobilizzare l’avversario. Il diritto viene proclamato come un jolly o una scusa, che interrompe il gioco e impone la fine del dibattito. Ed è qui che la logica dei diritti oggi prende una piega del tutto caotica. Per due motivi: in primo luogo perché apre la porta a un’inflazione di rivendicazioni, una più contraddittoria dell’altra, e in secondo luogo perché impedisce l’avvento di una vera giustizia.

E’ il caso di constatare l’inflazione dei diritti umani da quando gli uomini hanno avuto l’idea di redigere le dichiarazioni dei diritti. I diritti individuali, un tempo garantiti della Legge divina rivelata o dalla legge naturale, attengono ormai solo agli uomini, che ne sono gli unici legittimi legislatori. Ma non è più la ragione illuminata, che insegna il bene e il giusto, a guidare l’agire e le rivendicazioni; ormai l’espressione della giustizia umana risiede nei sentimenti personali sacralizzati e protetti da tutto l’armamentario della legge. Ed è a questi sentimenti che la società deve garantire ogni possibilità di realizzazione.
Così Pierre Manet ha potuto scrivere:
«L’essere umano ormai, se è ancora in grado di essere definito, è un animale sensibile, un io qualificato dal modo in cui “sente” la sua vita, o ne è affetto, un circolo chiuso di adesione a se stesso, una tautologia di autosensibilità da cui non nasce alcuna domanda e che non può sentirne alcuna: un individuo vivente senza città e senza ragione, incessantemente impegnato a ridurre il suo essere a ciò che sente e al tempo stesso di veder riconosciuto il proprio essere in base a ciò che egli sente di essere» [3].

Quindi noi rifiutiamo una logica del sentimento che rifiuta ogni giudizio e si ammanta di diritto. Se dobbiamo rispettare ogni monade umana e garantirle tutti i suoi capricci, non c’è bisogno di essere un gran chierico per capire che questa è la fine della società umana.

«O medicina mirabile! - capace di curare tutto, anche le malattie che essa stessa ha prodotto! Utilizzati da Hobbes, i diritti dell’uomo sono stati un’arma contro l’anarchia, per l’instaurazione dell’assolutismo; da Locke, un rimedio per l’assolutismo, per l’instaurazione del liberalismo; quando i mali del liberalismo sono stati rivelati, sono stati la giustificazione per regimi totalitari e ospedali psichiatrici. Ma in Occidente, essi sono la nostra ultima risorsa contro lo Stato assoluto; e se fossero presi sul serio, ci riporterebbero all’anarchia...» [4].

Villey mostra qui l’aspetto magico della parola che ha permesso ogni follia e che ormai ci conduce diritto all’abisso dell’anarchia e del regno degli ingiusti.
E’ un po’ difficile spiegare in questo articolo la logica che sviluppa il gran giurista che è Villey, ma egli dice molto giustamente che la logica dei diritti individuali porta a favorire il diritto degli uni contro quello di tutti gli altri. Ormai, e non difficile constatarlo, è il diritto dei colpevoli che prevale su quello delle vittime. La legge Veil è del 1974, quella di Badinder è del 1981. L’inversione di tendenza nel sistema giudiziario a cui assistiamo oggi può essere fatta risalire a questo settennio.

In definitiva, ci si chiede di ammettere il diritto delle donne contro quelli dei bambini che sono troppo deboli per gridare e che non possono comparire in tribunale. I sadici, gli assassini di bambini e i peggiori macellai hanno diritto a un avvocato, ma non chi è alle prime armi. Badinter è morto di recente. È stato celebrato per aver guidato l’abolizione della pena di morte. E allo stesso tempo, alle donne viene riconosciuto il diritto assoluto e incondizionato di fermare la vita di coloro che vivono per un certo periodo nel loro corpo.

La giustizia come atto è concepita per unire i membri di una stessa città, mentre i diritti moderni garantiscono la soddisfazione del forte contro le legittime aspettative del debole. Sono i diritti della divisione, i diritti di chi divide, e non possiamo accettarli.
Non possiamo chiamarli diritti...

NOTE

1 - Edizione Via Romana, Paris, 2022.
2 -  Nel settembre 2023.
3 - Pierre Manent, La loi naturelle et les droits de l’homme, ed. PUF, Paris, 2018, p. 88.
4 - Michel Villey, Le droit et les droits de l’homme, ed. PUF, Paris, 2008, p. 153.









 
marzo 2024
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