L’aborto clandestino non si debella legittimandolo


di Fabio Fuiano



Pubblicato su Corrispondenza Romana






(foto tratta da La Marcia per la Vita)



Nei giorni scorsi, dopo l’introduzione dell’aborto all’interno della Costituzione francese, il mondo abortista ha esultato. Ma vi è stato chi, pur riconoscendo la portata dell’evento, ha evidenziato una soddisfazione solo parziale.
È il caso della scrittrice femminista Pauline Hermanage, la quale, rilasciando un’intervista a Open, ha commentato: «Come molte femministe in Francia, mi rammarico del fatto che il testo faccia riferimento a una “libertà” piuttosto che a “un diritto” o, meglio ancora, a una “garanzia”. Il suo significato può, così, variare a seconda delle inclinazioni politiche […]. Questo riporta l’aborto su un piano individuale e toglie allo Stato l’obbligo di garantire condizioni adeguate di accesso all’aborto […]. Quindi siamo felici, ma solo a metà» (Open, Francia, l’aborto entra in Costituzione: «Siamo felici, ma a metà» – L’intervista alla scrittrice e femminista Pauline Harmange, 4 marzo 2024).
Insomma, felici di sopprimere vite umane innocenti, ma solo a metà perché questa dovrebbe essere una “garanzia” e non solo una “libertà”.

Nel mondo abortista, come più in generale tra le forze anticristiane, c’è sempre una tenacia nel male che spinge i suoi militanti a combattere senza alcun compromesso. Anche il discorso del primo ministro Gabriel Attal poco prima del voto dell’Assemblea Nazionale è permeato da questo senso militante: «questa revisione fa parte di sette anni di azione continua e risoluta per i diritti delle donne. È una battaglia che il Presidente della Repubblica porta avanti dal 2017, quando non era scontata nel dibattito politico. È una battaglia che ha portato avanti in tutti gli ambiti della vita pubblica: politico, economico, sociale e societario. È una lotta che non ha mai abbandonato e che per due volte è stata la causa principale dei suoi cinque mandati» (tondi nostri).

Nel mondo pro-life e cattolico oggi invece si è perduto quell’antico spirito militante, che lo ha contraddistinto per secoli nella lotta tra il bene e il male. Per ritrovarlo c’è bisogno di essere risoluti, perseveranti e, soprattutto, formati in modo da poter rispondere efficacemente alle menzogne propalate senza remore dal mondo abortista.
Si è ricordato, in un articolo precedente, come una delle falsità più utilizzate per la legalizzazione dell’aborto sta nella sistematica mistificazione del fenomeno degli aborti clandestini, alterandone le cifre di vari ordini di grandezza. Ma esistono degli argomenti ancor più forti, che varrebbero anche se, per assurdo, tali cifre fossero vere. Il compianto prof. Mario Palmaro le ha riassunte nel suo ottimo contributo, Aborto & 194 (Sugarco, Milano 2008, pp. 110-114).

Per prima cosa, tutte le azioni delittuose sono per loro natura “clandestine”. Almeno, affermava Mario Palmaro, «fino al momento in cui uno Stato non decida sciaguratamente di trasformare un certo delitto in diritto: perseguitare gli ebrei prima delle leggi razziali era una condotta clandestina; le leggi razziali hanno fatto emergere queste condotte ripugnanti dalla clandestinità, elevandole a rango di diritto e perfino di dovere dei consociati […]. Che nella realtà vi sia sempre un certo numero di violazioni della legge vigente non solo è un fatto normale, ma è addirittura qualche cosa di inevitabile».

Palmaro faceva l’esempio dei furti e degli omicidi che avvengono in clandestinità, e aggiungeva che «per ogni divieto scritto dagli uomini nei loro codici, si registrano violazioni più o meno frequenti di quel divieto. Ma c’è di più: l’esistenza delle violazioni è in un certo senso la prova della necessità di quel divieto. Il codice penale si potrebbe infatti definire come la raccolta delle azioni che gli uomini sono di volta in volta tentati di compiere, ma che la società ritiene giusto vietare e punire, per convincere quante più persone è possibile a desistere dal loro proposito criminoso».

Secondariamente, il fatto che un certo delitto sia più o meno diffuso non implica mai una sua legittimazione e legalizzazione. I numeri dei diversi atti criminosi, forniti dall’ISTAT, ci dicono che i divieti del codice penale scontano sempre una certa percentuale di insuccesso. Ciò non implica che il codice penale, i carabinieri o il carcere siano inutili o addirittura fallimentari, in quanto grazie a questi un numero non quantificabile di persone evita di commettere un delitto che, altrimenti, avrebbe compiuto.

Continuava il filosofo del diritto affermando: «ci sono molti furti, ma nessuno chiede la legalizzazione del furto. Ci sono molti evasori fiscali, ma lo Stato non abolisce l’obbligo di pagare le tasse. Solo per l’aborto – e per altri temi bioetici come l’eutanasia o la fecondazione artificiale – si applica questo ragionamento grottesco: siccome ci sono molti aborti clandestini, allora dobbiamo rendere lecita quella condotta. Ma la ragione umana non inquinata dall’ideologia vede dove questa “regola” ci condurrebbe, se dovessimo applicarla a tutte le azioni dell’uomo. Sarebbe la fine del diritto penale e più in generale dell’ordine costituito».

In terzo luogo, il fatto che una certa azione malvagia sia anche pericolosa per chi la compie non è un argomento valido per trasformarla in un atto lecito, tutelato e pagato dallo Stato.

Dire che bisogna legittimare l’aborto perché una condotta clandestina è un “pericolo per la donna” non ha senso. Infatti: «o l’atto di abortire non configura la violazione di alcun diritto altrui, perché non comporta l’uccisione di un altro essere umano innocente; e allora è pacifico che deve essere legalizzato, tutelato e compiuto con le migliori garanzie di sicurezza per la donna […]. Oppure, con l’aborto si viola il generale precetto giuridico (e non solo morale) che vieta di uccidere l’innocente. Siccome le cose stanno esattamente in questo secondo modo, allora il fatto che – abortendo clandestinamente – la donna si espone a un rischio per la sua salute e per la sua vita non costituisce in alcun modo una ragione per “legalizzare” quel comportamento».

Anzi, la pericolosità è un elemento dissuasivo. Sottolineava giustamente Palmaro che «nessuno si augura che le donne periscano nel compiere un atto abortivo illegale; ma la responsabilità di quell’eventuale decesso non è in alcun modo ascrivibile allo Stato che vieta l’aborto, quanto a chi ha deciso di abortire contro la legge, e a chi ha prestato le proprie abilità tecniche alla commissione di quel reato. È l’aborto che uccide: uccide sempre il figlio; e qualche volta, tragicamente, anche la madre».

Come ultimo punto, bisogna ricordare che una certa condotta umana non si scoraggia rendendola lecita. Per quanto la legge punisca certe azioni, alcuni uomini continuano a commetterle. Ciononostante, «nella storia dell’umanità non si è mai sentito qualcuno che, per dissuadere la commissione di un delitto, proponesse di legalizzarlo […] se vuoi contrastare una condotta, non la dichiarerai lecita, riconoscendola addirittura come diritto tutelato dallo Stato. Nessuna persona sana di mente può pensare che l’evasione fiscale si combatta legalizzandola; o che lo scippo si sconfigga legalizzando o regolamentando l’attività degli scippatori. Dunque, non si vede per quale misteriosa ragione la legalizzazione dell’aborto, e la sua gestione gratuita e sicura nelle strutture pubbliche, dovrebbe eliminare o anche solo far diminuire l’aborto».

Argomenti assolutamente logici, laddove la ragione non è obnubilata dal delirio dell’uomo che vuol sostituirsi al Creatore.






 
marzo 2024
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