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La S. Messa tradizionale
Riflessioni di un fedele
La S. Messa Tridentina, cioè la forma classica del rito romano, deve essere correttamente definita S. Messa tradizionale, la sua struttura, infatti, vanta un’antichità ben maggiore di quella del Concilio di Trento (1545-1563): essa è la Messa della riforma gregoriana che rivede e rende stabile la liturgia ordinata precedentemente, nel IV secolo, da papa Damaso. L’Ordo Romanus I è la più antica fonte da noi posseduta che offra la prima elaborazione completa del rito romano: esso è stato redatto sullo scorcio del VII secolo, ma la liturgia che descrive non è quella del periodo di composizione, bensì quella di un secolo prima, la Liturgia stazionale dei tempi di S. Gregorio Magno che, come già sottolineato, è sistematizzazione di ordinamenti precedenti di almeno tre secoli. Non dobbiamo immaginare assoluta identità tra ogni
sezione del rito detto Tridentino e quello di allora, ma certo siamo chiamati
a riconoscere la costanza della struttura, ordinata alla attualizzazione
del Divino Sacrificio, espressione di una fede
costante.
Nel corso dei secoli del Tardoantico e del Medioevo, la
liturgia romana, e particolarmente la Messa, così come veniva celebrata
dal successore di Pietro, fu oggetto di particolare attenzione da parte
di molte Chiese periferiche le quali tendono, progressivamente, ad assimilare
i loro usi liturgici a quelli della Cappella Papale: un moto di uniformazione,
dunque, favorito dalla fusione, voluta sia dai papi sia dai re franchi,
delle tradizioni romana e franca che determina una stabilità destinata
a durare.
Quanto detto ci porta a comprendere come la S. Messa tradizionale sia l’espressione più pura, non del sentire di un momento storico, ma della percezione cristiano-cattolica della salvezza operata da Cristo: essa non è spiegata dalla storia, vive e si dispiega maturando nella storia, ma è frutto dell’ispirazione divina, supera la storia e la contiene. Nella S. Messa tradizionale l’attenzione del fedele è
tutta volta, grazie al lavorio ispirato nei secoli alla Chiesa, al Sacrificio
di Cristo che compie la Redenzione del genere umano operata dal Signore
attraverso la dazione del Suo Figlio; in essa è evidente lo slancio
del rendimento di grazie e della lode a Dio, come è evidente il
senso della soddisfazione offerta per il peccato del mondo attraverso il
dolore, la concentrazione del dolore del mondo che il Figlio di Dio, in
un supremo atto di amore che diviene libera obbedienza, ha voluto caricare
su Se stesso.
Nella S. Messa tradizionale tutto questo rifulge in maniera mirabile: durante la celebrazione il fedele percepisce pienamente, di fronte a questo inestimabile Sacramento, lo “stupore eucaristico” del quale parla, nell’Enciclica Ecclesia de Eucharistia, il S. Padre Giovanni Paolo II di v. m. e questa percezione non si deve a grandi proclamazioni tribunizie, non si deve a rimbombanti amplificazioni, né alla comprensione della lettera di troppe parole, bensì all’afflato di profonda umiltà che caratterizza ogni atto, espressione del sentire del sacerdote che profondamente ha interiorizzato le parole del proprio Maestro. Non eccesso di parole, ma atti, non forma, ma sostanza; questo si coglie nel sacerdote che di fronte all’altare, prima di raggiungerlo, prega “Emitte lucem tuam et veritatem tuam, ipsa me dedu-xerunt et adduxerunt in montem sanctum tuum et in tabernacula tua”, questo nel sacerdote che, profondamente prostrato, senza preoccuparsi di quanto gli accade attorno, fa la confessione dei suoi peccati per poi salire a venerare l’altare. Il medesimo animo continua a percepirsi ancora, attraverso
le preghiere accompagnate dagli atti, nel fluire del rito che tende verso
il suo culmine, l’offerta della Vittima immacolata: ora le cose della terra
si uniscono a quelle del cielo, le cose visibili con quelle invisibili,
il Corpo e il Sangue di Cristo levati in alto, di fronte al simbolo della
Croce, sono realmente l’offerta all’eterno Padre, per mezzo della Passione,
del Sacrificio gradito; e la contemplazione di esso, l’adorazione non possono
essere se non nel silenzio, se non il silenzio pregno di tutta la tensione
dell’anima.
Lo stesso poeta continuava:Questo terror divino, Con che fidente affetto G. A.
3 luglio 2007 (su)
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