Summorum Pontificum cura
Intervista di Mons. Albert Malcolm Ranjith Patabendige
Segretario della Congregazione per il Culto Divino
e la Disciplina dei Sacramenti
Pubblichiamo l'intervista rilasciata da Mons. Ranjith,
all'Agenzia
Fides della Congregazione per la Evangelizzazione dei Popoli
14 novembre 2007
(i neretti sono nostri)
VATICANO - Il Motu Proprio Summorum Pontificum è
“anche un segno per tutta la Chiesa su alcuni principi teologico-disciplinari
da salvaguardare per un suo profondo rinnovamento, tanto auspicato dal
Concilio”
Intervista a Sua Ecc. Mons. Albert Malcolm Ranjith,
Arcivescovo Segretario della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina
dei Sacramenti
Città del Vaticano (Agenzia Fides) - Il
14 settembre è entrato in vigore il Motu Proprio Summorum Pontificum
promulgato da Papa Benedetto XVI il 7 luglio 2007 e dedicato al rito di
San Pio V rivisto nel 1962 da Papa Giovanni XXIII.
Con il Motu Proprio (iniziativa promossa da parte di
chi ne ha le facoltà) torna la possibilità di celebrare col
Messale tridentino senza dover necessariamente chiedere il permesso del
Vescovo. Con il Concilio Vaticano II e in particolare con la riforma
liturgica del 1970 promossa da Papa Paolo VI, l’antico Messale era stato
sostituito dal nuovo e, anche se ufficialmente non era mai stato abolito,
i fedeli per utilizzarlo dovevano avere espressamente il permesso del Vescovo.
Un permesso sancito all’interno di un altro Motu Proprio: l’Ecclesia Dei
adflicta firmato da Papa Giovanni Paolo II il 2 luglio 1988. Oggi, con
il nuovo Motu Proprio, questo permesso non è più necessario
e qualsiasi "gruppo stabile" di fedeli può liberamente chiedere
al proprio parroco la possibilità di celebrare seguendo l’antico
Messale.
L’Agenzia Fides ha rivolto alcune domande a questo proposito
a Sua Ecc. Monsignor Albert Malcolm Ranjith, Arcivescovo Segretario della
Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti.
Eccellenza Reverendissima, qual è a suo
avviso il significato profondo del Motu Proprio Summorum Pontificum?
Vedo in questa decisione non solo la sollecitudine
del Santo Padre di aprire la strada del rientro nella piena comunione della
Chiesa ai seguaci di Monsignor Lefebvre, ma anche un segno per tutta la
Chiesa su alcuni principi teologico-disciplinari da salvaguardare per un
suo profondo rinnovamento, tanto auspicato dal Concilio.
Mi pare che ci sia un forte desiderio del Papa di correggere
quelle tentazioni visibili in alcuni ambienti i quali vedono il Concilio
come un momento di rottura con il passato e di un nuovo inizio. Basti ricordare
il suo discorso alla Curia Romana il 22 Dicembre 2005.
D’altronde neanche il Concilio pensò, di se stesso,
in questi termini. Sia nelle sue scelte dottrinali che in quelle liturgiche
come anche in quelle giuridiche-pastorali, il Concilio fu un altro momento
di approfondimento e di aggiornamento della ricca eredità teologico-spirituale
della Chiesa nella sua storia bimillenaria.
Con il Motu Proprio il Papa vuole affermare chiaramente
che ogni tentazione di disprezzo di queste venerate tradizioni è
fuori posto. Il messaggio è chiaro: progresso, sì, ma non
a scapito, o senza la storia. Anche la riforma liturgica deve essere fedele
a tutto ciò che è successo dagli inizi ad oggi, senza esclusioni.
Dall’altro lato, non dobbiamo mai dimenticare che per
la Chiesa Cattolica la Rivelazione Divina non è qualcosa proveniente
solo dalla Sacra Scrittura, ma anche dalla Tradizione vivente della Chiesa.
Tale fede ci distingue nettamente da altre manifestazioni della fede cristiana.
La verità per noi è ciò che emerge, per così
dire, da tutti e due questi poli, cioè Sacra Scrittura e Tradizione.
Questa posizione per me è molto più ricca di altre vedute
perché rispetta la libertà del Signore a guidarci verso una
più adeguata comprensione della verità rivelata anche attraverso
ciò che succederà nel futuro. Naturalmente, il processo di
discernimento di ciò che emerge verrà attuato attraverso
il Magistero della Chiesa. Ma ciò che dobbiamo cogliere è
l’importanza attribuita alla Tradizione. La Costituzione Dogmatica Dei
Verbum affermò questa verità chiaramente (DV 10).
Inoltre la Chiesa è una realtà che sorpassa
i livelli di una pura invenzione umana. Essa è il Corpo mistico
di Cristo, la Gerusalemme celeste e la stirpe eletta di Dio. Essa, perciò,
supera le frontiere terrestri e ogni limitazione di tempo ed è una
realtà che trascende di molto la sua manifestazione terrestre e
gerarchica.
Perciò in essa, ciò che è ricevuto,
dovrà essere trasmesso fedelmente. Noi non siamo né inventori
della verità, né i suoi padroni, ma solo coloro che la ricevono
e hanno il compito di proteggerla e trasmetterla agli altri. Come diceva
San Paolo parlando dell’Eucaristia: “io infatti ho ricevuto dal Signore
quello che a mia volta vi ho trasmesso” (ICor 11, 23).
Il rispetto della Tradizione non è dunque una
nostra scelta libera nella ricerca della verità, ma la sua base
che deve essere accettata. Nella Chiesa la fedeltà alla Tradizione
perciò, è un atteggiamento essenziale della Chiesa stessa.
Il Motu Proprio, a mio parere, và inteso anche
in questo senso. Esso è un possibile stimolo per una necessaria
correzione di rotta. Infatti, in alcune scelte della riforma liturgica
attuata dopo il Concilio, sono stati adottati degli orientamenti che hanno
offuscato alcuni aspetti della liturgia, meglio riflettuta dalla precedente
prassi, perché, da alcuni, il rinnovamento liturgico è stato
inteso come qualcosa da realizzare ex novo. Però, sappiamo bene
che tale non fu l’intenzione della Sacrosanctum Concilium, che rileva
che “le nuove forme in qualche modo scaturiscano organicamente da quelle
già esistenti” (SC 23).
Una caratteristica del Pontificato di Benedetto
XVI sembra essere l’insistenza intorno a una corretta ermeneutica del Concilio
Vaticano II.
Secondo Lei il Motu Proprio “Summorum Pontificum”
va in questa direzione? Se sì, in che senso?
Già da Cardinale nei suoi scritti il Papa
aveva rigettato un certo spirito di esuberanza visibile in alcuni circoli
teologici motivati da un cosiddetto “spirito del Concilio” che per lui
fu in realtà un vero “anti spirito” o un “Konzils - Ungeist” (Rapporto
sulla Fede, San Paolo, 2005, capitolo 2).
Cito testualmente tale scritto in cui il Papa sottolinea:
“bisogna decisamente opporsi a questo schematismo di un prima e di un dopo
nella storia della Chiesa, del tutto ingiustificato dagli stessi documenti
del Vaticano II che non fanno che riaffermare la continuità del
cattolicesimo” (ibid p. 33).
Ora, un tale errore di interpretazione del Concilio e
del cammino storico-teologico della Chiesa ha influito su tutti i settori
ecclesiali, liturgia inclusa. Un certo atteggiamento, di facile rigetto
degli sviluppi ecclesiologici e teologici, come anche di quelli liturgici
dell’ultimo millennio da un lato e una ingenua idolizzazione di ciò
che sarebbe stato la mens della Chiesa cosiddetta dei primi cristiani dall’altro,
ha avuto un influsso di non poca rilevanza sulla riforma liturgico-teologica
dell’era post conciliare.
Il rigetto categorico della Messa pre-conciliare, come
un relitto di un’epoca ormai “superata”, fu il risultato di questa mentalità.
Tanti hanno visto le cose in questo modo, per grazia di Dio, non tutti.
La stessa Sacrosanctum Concilium, la Costituzione
Conciliare sulla Liturgia, non offre alcuna giustificazione a tale atteggiamento.
Sia nei principi generali che nelle norme proposte, il Documento è
sobrio e fedele a ciò che significa la vita liturgica della Chiesa.
Basti leggere il numero 23 di detto documento per essere convinti di tale
spirito di sobrietà.
Alcune di queste riforme hanno abbandonato importanti
elementi della Liturgia con le relative considerazioni teologiche: ora
è necessario e importante recuperare questi elementi. Il Papa, considera
il rito di San Pio V rivisto dal Beato Giovanni XXIII una via di recupero
di quegli elementi offuscati dalla riforma, avrà certamente riflettuto
tanto sulla sua scelta; sappiamo che ha consultato diversi settori della
Chiesa su tale questione e, nonostante alcune posizioni contrarie, ha deciso
di permettere la libera celebrazione di quel Rito.
Tale mossa non è tanto, come dicono alcuni, un
ritorno al passato, quanto il bisogno di riequilibrare in modo integro
gli aspetti eterni, trascendenti e celesti con quelli terrestri e comunitari
della liturgia. Essa aiuterà a stabilire eventualmente un equilibrio
anche tra il senso del sacro e del mistero da un lato e quello dei gesti
esterni e degli atteggiamenti e impegni socio-culturali derivanti dalla
liturgia.
Quando era ancora Cardinale, Joseph Ratzinger insisteva
molto sulla necessità di leggere il Concilio Vaticano II a partire
dal suo primo documento e cioè la Sacrosanctum Concilium.
Perché, secondo Lei, i Padri Conciliari hanno voluto dedicarsi innanzitutto
alla liturgia?
Prima di tutto dietro tale scelta stava sicuramente la
consapevolezza dell’importanza vitale della liturgia per la Chiesa. La
liturgia, per così dire, è l’occhio del tifone, perché
ciò che si celebra, è ciò che si crede e ciò
che si vive: il famoso assioma Lex orandi, lex credendi. Perciò
ogni vera riforma della Chiesa passa attraverso la liturgia. I Padri erano
consci di tale importanza. D’altronde la riforma liturgica era un processo
già in atto anche prima del Concilio a partire soprattutto dal Motu
Proprio Tra le Sollecitudini di San Pio X e la Mediator Dei
di Pio XII.
È San Pio X che attribuì alla liturgia
l’espressione “prima sorgente” dell’autentico spirito cristiano. Forse
già anche l’esistenza delle strutture e dell’esperienza di chi si
impegnava per lo studio e l’introduzione di alcune riforme liturgiche,
stimolava i Padri Conciliari a scegliere la liturgia come materia da considerare
per prima nelle sedute del Concilio. Papa Paolo VI rifletteva la mens dei
Padri Conciliari sulla questione quando disse: “noi vi ravvisiamo l’ossequio
della scala dei valori e doveri: Dio al Primo posto; la preghiera prima
nostra obbligazione; la liturgia prima fonte della vita divina a noi comunicata,
prima scuola della nostra vita spirituale, primo dono che possiamo fare
al popolo cristiano…” (Paolo VI, Discorso di chiusura del 2° periodo
del Concilio, 4 dicembre 1963).
In molti hanno letto la pubblicazione del Motu
Proprio “Summorum Pontificum” come una volontà del Pontefice
di avvicinare la Chiesa agli scismatici lefebvriani. È così
secondo Lei? Va anche in questo senso il Motu Proprio?
Si, ma non solo. Il Santo Padre spiegando le
motivazioni della sua decisione, sia nel testo del Motu Proprio che nella
lettera di presentazione scritta ai Vescovi, elenca anche altre ragioni
importanti. Naturalmente avrà tenuto conto della richiesta sempre
più crescente, fatta da diversi gruppi e soprattutto dalla Società
di San Pio X e la Fraternità Sacerdotale di San Pietro come anche
da Associazioni di Laici, per la liberalizzazione della Messa di San Pio
V. Assicurare l’integrazione totale dei Lefebvriani era importante anche
per il fatto che spesso, nel passato, sono stati commessi degli errori
di giudizio causando inutili divisioni nella Chiesa, divisioni che ora
sono diventate quasi insuperabili. Il Papa parla di questo possibile pericolo
nella lettera di presentazione del Documento scritta ai Vescovi.
Quali sono a Suo avviso le problematiche più
urgenti per la giusta celebrazione della Sacra liturgia? Quali le istanze
su cui insistere maggiormente?
Credo che nella crescente richiesta per la liberalizzazione
della Messa di San Pio V, il Papa abbia visto segni di un certo svuotamento
spirituale causato dal modo con cui i momenti liturgici, sono finora celebrati
nella Chiesa. Tale difficoltà scaturisce tanto da certi orientamenti
della riforma liturgica post conciliare che tendevano a ridurre, o meglio
ancora, a confondere aspetti essenziali della fede, quanto da atteggiamenti
avventurosi e poco fedeli alla disciplina liturgica della stessa riforma;
il che si constata ovunque.
Credo che una delle cause per l’abbandono di alcuni elementi
importanti, del rito tridentino nella realizzazione della riforma post
conciliare da parte di certi settori liturgici sia il risultato di un abbandono
o d’una sottovalutazione di ciò che sarebbe successo nel secondo
millennio della storia della liturgia. Alcuni liturgisti vedevano gli sviluppi
di questo periodo piuttosto negativamente. Tale giudizio è erroneo
perché quando si parla della tradizione vivente della Chiesa non
si può scegliere qua e là ciò che concorda con le
nostre idee pre concepite. La Tradizione, considerata in un senso generale
anche negli ambiti della scienza, filosofia o teologia, è sempre
qualcosa di vivente che continua a evolvere e progredire anche nei momenti
alti e bassi della storia. Per la Chiesa la Tradizione vivente è
una delle fonti della rivelazione divina ed è frutto di un processo
di evoluzione continuo. Ciò è vero anche nella tradizione
liturgica, con la “t” minuscola. Gli sviluppi della liturgia nel secondo
millennio hanno il loro valore. La Sacrosanctum Concilium non parla di
un nuovo Rito, o di un momento di rottura, ma di una riforma che emerga
organicamente da ciò che già esiste. È per questo
che il Papa dice: “nella storia della liturgia c’è crescita e progresso,
ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro,
anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente
del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso” (Lettera ai Vescovi,
7 luglio 2007). Idolatrare ciò che è successo nel primo Millennio
a scapito di quello successivo è, dunque, un atteggiamento poco
scientifico. I Padri Conciliari non hanno mostrato un tale atteggiamento.
Una seconda problematica sarebbe quella di una crisi
di obbedienza verso il Santo Padre che si nota in alcuni ambienti. Se tale
atteggiamento di autonomia è visibile fra alcuni ecclesiastici,
anche nei ranghi più alti della Chiesa, non giova certamente alla
nobile missione che Cristo ha affidato al suo Vicario.
Si sente che in alcune nazioni o diocesi sono state emanate
dai Vescovi delle regole che praticamente annullano o deformano l’intenzione
del Papa.
Tale comportamento non è consono con la dignità
e la nobiltà della vocazione di un pastore della Chiesa. Non dico
che tutti siano così. La maggioranza dei Vescovi ed ecclesiastici
hanno accettato, con il dovuto senso di riverenza e obbedienza, la volontà
del Papa. Ciò è veramente lodevole.
Purtroppo ci sono state delle voci di protesta da parte
di certuni.
Allo stesso tempo non si può ignorare che tale
decisione fu necessaria perché come dice il Papa la Santa Messa:
“in molti luoghi non si celebrava in modo fedele alle prescrizioni del
nuovo Messale, ma esso veniva addirittura inteso come un’autorizzazione
o perfino come un obbligo alla creatività, la quale porta spesso
a deformazioni della liturgia al limite sopportabile”. “Parlo per esperienza”,
continua il Papa perché ho vissuto anche io quel periodo con tutte
le sue attese e confusioni e ho visto quanto profondamente siano state
ferite dalle deformazioni arbitrarie della liturgia, persone che erano
totalmente radicate nella fede della Chiesa” (Lettera ai Vescovi). Il risultato
di tali abusi fu un crescente spirito di nostalgia per la Messa di San
Pio V. Inoltre un senso di disinteresse generale a leggere e rispettare
sia i
documenti normativi della Santa Sede, nonché le
stesse Istruzioni e Premesse dei libri liturgici peggiorò la situazione.
La liturgia ancora non sembra figurare sufficientemente nella lista delle
priorità per i Corsi di Formazione continua degli ecclesiastici.
Distinguiamo bene. La riforma post conciliare non è
del tutto negativa; anzi ci sono molti aspetti positivi in ciò che
fu realizzato. Ma ci sono anche dei cambiamenti introdotti abusivamente
che continuano ad essere portati avanti nonostante i loro effetti nocivi
sulla fede e sulla vita liturgica della Chiesa. Parlo qui per esempio
d’un cambiamento effettuato nella riforma, il quale non fu proposto né
dai Padri Conciliari né dalla Sacrosanctum Concilium, cioè
la comunione ricevuta sulla mano. Ciò ha contribuito in qualche
modo ad un certo calo di fede nella Presenza reale di Cristo nell’Eucaristia.
Questa prassi, e l’abolizione delle balaustre dal presbiterio, degli inginocchiatoi
dalle chiese e l’introduzione di pratiche che obbligano i fedeli a stare
seduti o in piedi durante l’elevazione del Santissimo Sacramento riducono
il genuino significato dell’Eucaristia e, il senso della profonda adorazione
che la Chiesa deve rivolgere verso il Signore, l’Unigenito Figlio di Dio.
Inoltre, la Chiesa, dimora di Dio viene in alcuni luoghi usata come un’aula
per incontri fraterni, concerti o celebrazioni inter-religiose. In qualche
chiesa il Santissimo Sacramento viene quasi nascosto e abbandonato in una
Cappellina invisibile e poco decorata. Tutto questo oscura la fede così
centrale della Chiesa, nella presenza reale di Cristo. Per noi cattolici
la Chiesa è essenzialmente la dimora dell’eterno.
Un altro serio errore è quello di confondere i
ruoli specifici del clero e dei laici sull’altare rendendo il presbiterio
un luogo di disturbo, di troppo movimento e non certamente “il luogo” dove
il cristiano riesce a cogliere il senso di stupore e splendore davanti
alla presenza e all’azione salvifica del Signore.
L’uso delle danze, degli strumenti musicali e di canti
che ben poco hanno di liturgico, non sono per nulla consoni all’ambiente
sacro della chiesa e della liturgia; aggiungo anche certe omelie di carattere
politico-sociale spesso poco preparate. Tutto ciò snatura la celebrazione
della S. Messa e ne fa una coreografia e una manifestazione di teatralità,
ma non di fede.
Ci sono anche altri aspetti poco coerenti con la bellezza
e lo stupore di ciò che si celebra sull’altare. Non tutto va male
con il Novus Ordo, ma molte cose ancora devono essere messe in ordine evitando
ulteriori danni alla vita della Chiesa. Credo che il nostro atteggiamento
verso il Papa, le sue decisioni e l’espressione della sua sollecitudine
per il bene della Chiesa deve essere solo quello che San Paolo raccomandò
ai Corinzi ? “ma tutto si faccia per Edificazione” (1Cor 14, 26). (P.L.R.)
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