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La “non accettazione del Concilio”
Note dell’abbé Claude Barthe
a) sia il fatto di stimare in coscienza che le espressioni dell’Unitatis Redintegratio n° 3 non possono essere accettate come magistero della Chiesa;In maniera generale, è possibile pretendere di congelare per sempre la tradizione viva della Chiesa nelle espressioni di 40 anni fa manifestamente da correggere? Si dovrebbe aver paura a priori di fare una teologia (e domani un insegnamento magisteriale) con nuove premesse, tenendo conto non solo degli apporti del Vaticano II, ma anche delle risposte alle “questioni aperte” da questo Concilio? 2 Su questo punto, dei colloqui teologici con la Fraternità S. Pio X sono già stati fatti D’altronde, quando il decreto del 21 gennaio apre la via a dei “colloqui” circa le “questioni ancora aperte”, non innova affatto. A più riprese si sono svolte delle discussioni concernenti le difficoltà sollevate, fra gli altri, dalla Fraternità S. Pio X, sotto l’egida del Groupe de Rencontre entre Catholiques, Grec. In una seduta pubblica del 21 febbraio 2008, sul tema: “rivedere e/o interpretare alcuni passi del Vaticano II?”, si è evidenziata una convergenza che è semplicemente quella del buon senso: il rappresentante della Fraternità S. Pio X postulava la pertinenza di una critica sana e positiva dei nuovi punti dottrinali del Vaticano II al fine di offrire elementi ad una futura elaborazione di testi più chiari; il teologo romano da parte sua riteneva che una ricezione del Vaticano II che si fondasse fortemente sul magistero anteriore avrebbe il suo posto nella Chiesa. Sarebbe quindi irrealista fare del risultato di questo tipo di colloqui (risultato che è evidente che si poggia innanzi tutto sulla maniera di abbordare i problemi, e questo non solo per la Fraternità S. Pio X) un preliminare per una reintegrazione canonica. Il buon senso - che si accomuna al sentire cum Ecclesia vuole al contrario che sia la reintegrazione canonica a permettere la tenuta di tali colloqui e di altri ancora, i quali concorreranno alla riflessione teologica nei termini in cui permetteranno utilmente ad intra l’espressione di un pensiero risolutamente tradizionale. 3 Perchè domandare alla Fraternità S.Pio X ciò che ha già accettato? Del resto, tutto ciò è virtualmente acquisito. In effetti, il 5 maggio 1988, in testa ad un “protocollo d’accordo”, Mons. Lefebvre firmò una “dichiarazione dottrinale” che non rimise mai in questione. In essa, egli dichiarava di accettare la dottrina del n° 25 della Lumen Gentium sull’adesione proporzionata al magistero secondo i suoi diversi gradi (non gli si chiedeva affatto di affermare, e d’altronde non è mai stato precisato dalla S. Sede, che tale o tal’altro passo del Concilio Vaticano II rilevava dell’infallibilità solenne o ordinaria). Riconosceva inoltre la validità della liturgia nella sua nuova forma, qualora fosse celebrata secondo i testi approvati dalla S. Sede. Infine si impegnava (terzo dei 5 punti della Dichiarazione) “ A proposito di certi punti insegnati dal Concilio Vaticano II o relativi alle riforme posteriori della liturgia e del diritto, che ci sembrano difficilmente conciliabili con la Tradizione, ci impegniamo ad assumere un atteggiamento positivo e di comunicazione con la Sede Apostolica, evitando ogni polemica.”. L’impegno si fondava sull’“assenza di polemica” e per niente su un assurdo “livello zero di critica”, che del resto si chiederebbe solo ai tradizionalisti. Leggendo bene la recente intervista rilasciata da Mons.
Fellay, il 25 febbraio 2009, a Rachad Armanios, http://www.lecourrier.ch/,
non è tanto il riconoscimento del Concilio che Mons. Fellay rifiuta,
egli nega piuttosto che questo inafferrabile “riconoscimento” gli sia richiesto
dalla S. Sede.
Perché volere che la tradizione viva della Chiesa si sia fermata, non al Vaticano II stesso, ciò che sarebbe di per se assurdo, ma ad un certo Vaticano II? Abbé Claude Barthe - Marzo 2009
(su)
marzo 2009
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