Le discussioni tra la Santa Sede e la FSSPX:
il Concilio a rischio dall’interpretazione di Mons. Gherardini

dell’abbé Claude Barth

Quest'articolo dell'abbé Claude Barth è stato pubblicato sul sito francese Disputationes theologicae e ripreso dal sito omonimo in italiano.
In esso si delinea la possibilità di una conciliazione tra alcuni passi di certi documenti del Vaticano II e l'insegnamento tradizionale, tenuto conto, come dice l'abbé Barth, «…che la presente situazione magisteriale è abbastanza inedita nella storia dei dogmi. Non si tratta, come è sempre stato, di eresie esterne e di condanne interne, ma di flussi dottrinali interni e del rigetto all’esterno (fino ad oggi) della loro contestazione».

Non v'è dubbio che le considerazioni dell'abbé Barth, come sempre, sono molto interessanti, ma occorre notare che, in questo articolo, egli prende in considerazione la problematica da un solo punto di vista, quello appunto delle discussioni che avranno luogo tra il Vaticano e la Fraternità, e in questa prospettiva valuta la detta possibilità di conciliazione.
Vi sono però altri punti di vista dai quali osservare questa problematica: mossi da preoccupazioni sostanziali, piuttosto che da preoccupazioni pragmatiche come in questo caso.
L'abbé Barth accenna a questi aspetti, ma non li approfondisce, poiché si porterebbe su un terreno molto accidentato.

Ci limitiamo a considerare che questi prossimi colloqui hanno finito col concentrare l'attenzione sui rapporti tra la Fraternità e la Santa Sede, come se le problematiche sorte col Concilio riguardassero da un lato la Fraternità e dall'altro una corretta lettura teologica istituzionale dei documenti conciliari, come suggerito e impostato dal Papa nel suo famoso discorso del 22 dicembre 2005.
Ora, se le problematiche riguardassero solo, o quasi, la Fraternità, sarebbe gioco forza considerare che la Santa Sede sbaglia a concedere tanto spazio ad un ridotto numero di chierici e laici che dovrebbero per loro conto cercare di risolvere i “loro” problemi, per di più a fronte di un contesto ecclesiale che questi problemi ritiene siano inesistenti. Se, invece, le problematiche riguardano tutta la Chiesa, com'è di fatto e come si evince dal citato discorso del Papa, appare davvero singolare che la Santa Sede chiami a colloquio quel ridotto numero di chierici e di laici per affrontarle ed eventualmente risolverle.
Tranne che non si debba pensare che i colloqui con la Fraternità serviranno alla Santa Sede per aprire un capitolo ben più articolato e complesso circa la rilettura e l'eventuale correzione del Concilio o di parte di esso. Ma, se così fosse, non v'è dubbio che salterebbe all'occhio un elemento di macroscopica debolezza da parte della Santa Sede, costretta ad usare un tale espediente per iniziare la necessaria operazione correttiva che invece avrebbe dovuto condurre da tempo.
Non potendosi ipotizzare la malfede o la noncuranza della Santa Sede, si è costretti a concludere che tale atteggiamento rivela una oggettiva difficoltà a condurre nell'attuale contesto ecclesiale una qualche seria azione magisteriale. E se questa è la situazione è del tutto evidente che la problematiche, prima ancora di essere di carattere “esegetico” o interpretativo, sono di carattere antropologico, sono legate strettamente ad una forma mentis ormai diffusa nella Chiesa che riesce a leggere in maniera controversa tutto l'insegnamento tardizionale.

Quando l'abbé Barth parla di “flussi dottrinali interni” ha ragione, ma andrebbe precisato che non si tratta di semplici disquisizioni tra scuole teologiche diverse, bensì di modi d'essere diversi, e tanto diversi dall'uso tradizionale da condurre a quella assoluta novità “del rigetto all’esterno (fino ad oggi) della loro contestazione”.
Quando il Concilio si volle “pastorale” non lo fece solo in ordine ad un distinguo di metodo, come potrebbe sembrare da una lettura superficiale, ma praticò ciò che per molti versi era già in atto nella compagine ecclesiale: una differenza di merito. Non più la dottrina che informa la pastorale, ma la pratica quotidiana, l'esperienza della fede, il vissuto esistenziale (come si ama dire oggi) che rivisitano e adattano e trasformano la dottrina.
È questo il vero nodo della questione, trascurando il quale si finirà per adagiarsi su delle più o meno accettabili enunciazioni di principio che continueranno però a rimanere lettera morta rispetto alla pratica della fede e, in ultima analisi, rispetto alla suprema legge della Chiesa: la salus animarum.

La forma mentis di cui parliamo e di cui facciamo tutti esperienza attraverso la “guerra dei vescovi”, che sembrerebbe interessare la liturgia tradizione e che invece attiene all'intera Tradizione, non è legata a supposte cattive interpretazioni del Concilio o di altro, ma ad un modo diverso di concepire la Chiesa. Modo mutuato quasi interamente dalla concezione moderna del mondo e della società. I possibili ditinguo, che indubbiamente non mancano, sono relativi più al metodo che al merito. Un esempio illuminante in questo senso lo si coglie quando si leggono affermazioni di questo tenore:
«Vi sono delle patologie estremamente pericolose nelle religioni, che rendono necessario considerare la luce divina della ragione come una sorta di organo di controllo che la religione deve accettare come un organo permanente di purificazine e di regolazione…
«Ma, esistono anche delle patologie della ragione… un hybris della ragione che non è meno pericolosa. […] È per questo che, in senso inverso, anche la ragione deve essere richiamata ai suoi limiti e acquisire una capacità di ascolto rispetto alle grandi tradizioni religiose dell'umanità […].
«È importante integrarle [le componenti culturali e religiose] in un tentativo di correlazione polifonica in cui si apriranno spontaneamente alla complementarietà essenziale tra fede e ragione. Così potrà nascere un processo universale di purificazione ove, in fin dei conti, i valori e le norme conosciuti o intuiti in un modo o in un altro da tutti gli uomini acquisiranno una nuova forza di irraggiamento. Ciò che mantiene insieme il mondo ritroverà così un nuovo vigore» (
Jürgen Habermas - Joseph Ratzinger, Ragione e fede in dialogo, Marsilio, 2005).

Senza entrare nel merito di queste affermazioni, per i limiti qui impostici, facciamo notare che questa sorta di super ottimismo circa la possibile collaborazione tra  fede e ragione, sulla base della loro “complementarietà essenziale” e attraverso una loro “correlazione polifonica”, è quello che ha generato la rivoluzione all'interno del Concilio e ha prodotto i documenti conciliari e le loro successive applicazioni.
Più che un problema esegetico, qui si presenta un problema gnoseologico: considerando la ragione come un elemento paritario rispetto alla fede si disconosce l'elementare verità che è la fede ad illuminare e la ragione ad essere illuminata.

L'abbé Barth, considera che « tutta l’attuale effervescenza scatenata o attivata dal discorso teologico liberatorio del 2005, ha un indispensabile valore preparatorio sul lungo termine – e senza dubbio sul lunghissimo termine», lasciando intendere che i prossimi colloqui in questione saranno una tappa di un lungo processo che egli chiama di “maturazione: «Si è in presenza di qualcosa che assomiglia, se si vuole, ad una crisi d’adolescenza – molto tardiva, certo –, in cui il meglio e il peggio si mescolano per accedere ad una maturità».
Ora, questa considerazione, se non la si subordina a quanto dicevamo prima, corre il rischio di trasformarsi in un assunto indifferentista, certamente ben lontano dall'intendimento dell'abbé Barth, ma molto prossimo al sentire comune che informa oggi il mondo e che ha scavato ampi e profondi alloggiamenti nel corpo ecclesiale.



Il punto di partenza di questo mio articolo - le cui riflessioni impegnano solo il me - è la mia lettura nell’ultimo numero di La Nef (settembre 2009, p. 21), di un’intervista di Padre Manelli, Superiore dei Francescani dell’Immacolata, con Christophe Geoffroy e Jacques de Guillebon. Padre Manelli dichiara: « Egli (il Papa) cerca di evitare rotture, specialmente nella ricezione del Concilio Vaticano II – è la famosa “ermeneutica della riforma nella continuità”. Possono tuttavia esserci nel Concilio delle discontinuità su dei punti precisi, la cosa non avrebbe nulla di scandaloso, poiché quest’ultimo ha voluto essere “pastorale” possono esservi degli “errori” che il Papa può correggere, come Mons. Gherardini ha dimostrato in uno studio che noi abbiamo pubblicato e che sarà presto tradotto in francese ».

Simili dichiarazioni, nuove non già per il loro tenore, quanto per la sicurezza con la quale sono ormai formulate, sono in effetti come cristallizzate dalla « linea ermeneutica » che rappresenta Mons. Brunero Gherardini[1], alla quale Disputationes theologicae dato larga eco [2]. Essa rimette in auge, rinnovandola sostanzialmente, quella della minoranza conciliare – minoranza di cui non si può dimenticare l’importanza del ruolo nell’elaborazione dei testi di transizione o, detto in maniera più polemica, di ambiguità - e cioè in breve: un certo numero di punti del Vaticano II è suscettibile, non solo di precisazioni, ma anche eventualmente di future correzioni.

In maniera diversa, Mons. Nicola Bux, voce molto ascoltata alla Congregazione per la Dottrina della Fede, dichiarava all’agenzia Fides, il 29 gennaio 2009 : « Si è stato constatato che non vi erano differenze dottrinali sostanziali, e che il Concilio Vaticano II, i cui decreti furono firmati da Mons. Lefebvre, non poteva essere separato dall’intera Tradizione della Chiesa. In uno spirito di comprensione, bisogna in seguito tollerare e correggere gli errori marginali. Le divergenze passate o più recenti, grazie all’azione dello Spirito Santo, saranno ricomposte grazie alla purificazione dei cuori, alla capacità di perdono, e alla volontà di giungere a superarle definitivamente ».

In questo contesto di libertà teologica e di effervescenza di sane disputationes alle quali questo sito vuol partecipare, le conversazioni dottrinali che verranno, implicitamente evocate da Nicola Bux, e che presto si apriranno tra i teologi che rappresentano la Congregazione per la Dottrina della Fede e i teologi che rappresentano la Fraternità San Pio X, dovrebbero logicamente far progredire le cose. Questo è ciò che in ogni caso si può pensare, tenuto conto della qualità dei tre teologi, tutti e tre consultori alla Congregazione per la Dottrina delle Fede, che dovrebbero partecipare a queste discussioni per conto della Santa Sede (nella misura in cui le informazioni concernenti queste nomine siano esatte e fermo restando che l’ «equipe» così costituita possa essere modificata, ridotta o aumentata), sotto lo guida di Mons. Guido Pozzo, nuovo segretario della Commissione Ecclesia Dei.



Qual è il grado d’autorità di quei punti che presentano difficoltà nel Vaticano II?


Di Mons. Pozzo, che ha insegnato in maniera molto classica all’Università del Laterano, LeFigaro dell’8 luglio riportava queste dichiarazioni: «Il punto debole della Chiesa è la sua identità cattolica spesso poco chiara», e aggiungeva: «Non è rinunciando alla propria identità che la Chiesa si metterà nelle migliori condizioni per dialogare con il mondo, è esattamente il contrario », per poi concludere : «Noi abbiamo bisogno di uscire da questa illusione ottimistica, quasi irenica, che ha caratterizzato il post-concilio». 
Egli è tra l’altro uno specialista di quelle che vengono chiamate “note teologiche” (valore normativo che si può attribuire ai testi dottrinali), così che le discussioni non potranno evitare di occuparsi della normatività delle asserzioni discusse, del loro valore contestuale, dell’eventuale assenza di ogni obbligo di fede che esse comportano[3].



Il Padre Charles Morerod, nuovo Segretario della Commissione Teologica Internazionale, che dovrebbe partecipare a queste discussioni, è un domenicano svizzero che ha fatto la sua tesi su Lutero e il Gaetano. È decano della facoltà di filosofia dell’Università San Tommaso d’Aquino, l’Angelicum, a Roma, redattore dell’edizione francese della rivista Nova et Vetera. Su richiesta della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha lavorato molto sulla questione dell’anglicanesimo. È vicino al Cardinal Cottier e gode della totale fiducia del Segretario di Stato, già Segretario del Sant’Uffizio e del Papa stesso.
Nella sua importante bibliografia, si può citare: Tradition et unité des chrétiens. Le dogme comme condition de possibilité de l’œcuménisme [4] ; Œcuménisme et philosophie. Questions philosophiques pour renouveler le dialogue [5]. 


È ormai notorio che il Padre Morerod ha partecipato coi membri della Fraternità San Pio X a delle conversazioni

dottrinali che si potrebbero definire preliminari. In una riunione pubblica tenutasi nel quadro del Grec (Groupe de Rencontres entre catholiques), nei locali prossimi a Saint-Philippe-du-Roule, a Parigi, il 26 febbraio 2008, in cui dibatteva con l’abbé Grégoire Célier, della Fraternità San Pio X, sul tema: « Rivedere e/o interpretare certi passi del Vaticano II ? », i due relatori erano arrivati ad una convergenza molto interessante. Padre Morerod spiegava che a lui sembrava: 1) che la possibilità di una ricezione del Vaticano II, « che si fondasse solidamente sullo stato del magistero anteriore », potrebbe perfettamente avere il suo posto nella Chiesa, a condizione, a suo parere, che questa interpretazione non fosse un rigetto del Vaticano II; 2) che poteva essere ammessa la non confessione di certi punti del Vaticano II, con «una certa esigenza di rispetto» dell’insegnamento «ufficiale» del Vaticano II.

Alcune precisazioni interpretative dal sapore di incompiuto

Il Padre Karl Josef Becker, gesuita che dovrebbe anche lui partecipare a queste discussioni, nato nel 1928, teologo molto amato da Benedetto XVI, è stato professore esterno alla facoltà di teologia dell’Università Gregoriana (ha in particolare insegnato la teologia sacramentaria e scritto sulla giustificazione e l’ecclesiologia). Ha pubblicato un articolo apparso ne L’Osservatore Romano del 5 dicembre 2006 [6], nel quale tutti hanno visto un’applicazione del discorso del Papa del dicembre 2005, di cui parlerò più avanti. Qui egli sosteneva che il subsistit in del n° 8 di Lumen Gentium (la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica) non vuol dire altro che il tradizionale: est (la Chiesa di Cristo è puramente e semplicemente la Chiesa Cattolica). E addirittura, secondo la rilettura molto volontaristica di Padre Becker, il subsistit in sarebbe destinato a rinforzare l’est, da cui risulterebbe, secondo lui, guardando alla parte dell’ecumenismo conciliare che è più difficile da far concordare con la dottrina tradizionale, che l’ecclesialità parziale delle Chiese separate è molo dubbia [7].


Fernando Ocáriz, il terzo teologo che dovrebbe ugualmente far parte dell’equipe di Pozzo per partecipare a questi dibattiti teologici, è nato nel 1944, è vicario generale dell’Opus Dei, ha insegnato alla Pontificia Università della Santa Croce, è l’autore di numerosissime pubblicazioni.
La sua designazione è da attribuire certamente al suo interesse per la questione dell’interpretazione omogenea  della dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis Humanae, a proposito del punto più sensibile – l’apparente sostituzione della teologia della tolleranza con quella della libertà in materia di “diritto pubblico della Chiesa” [8]" – sul quale lui stesso ha scritto [9]. D’altronde, si può affermare senza grandi rischi che egli propende molto per la formulazione che si potrebbe definire di transazione della libertà religiosa nel Catechismo della Chiesa Cattolica [10].

Quanto al Padre Charles Morerod, approfittando della parte importante che ha assunto nei lavori dell’Anglican-Roman Catholic International Commission (ARCIC), ha mostrato nel suo Œcuménisme et philosophie. Questions philosophiques pour renouveler le dialogue [11], che un dialogo ecumenico serio dev’essere integrato con dei chiarimenti sui presupposti

filosofici delle posizioni teologiche dei cristiani separati, presupposti che possono largamente spiegare la loro incomprensione dei dogmi della Chiesa.
Ma è soprattutto la sua opera Tradition et unité des chrétiens. Le dogme comme condition de possibilité de l’œcuménisme [12], che merita una particolare attenzione per l’argomento che ci interessa. Quest’opera rappresenta un considerevole sforzo d’interpretazione tradizionale dell’ecumenismo portato ad un grado molto elevato d’acume e di agilità, perché mira nientemeno a dimostrare come il dogma cattolico in generale e quello dell’infallibilità pontificia in particolare siano….i motori più efficaci dell’ecumenismo. Dimostrazione paradossale (paradossale nella misura in cui si ritiene comunemente, per gioirne o per lamentarsene, che l’ecumenismo cerca d’attenuare le definizioni dogmatiche della dottrina cattolica). Ora, il paradosso si raddoppia quando la pia interpretatio dello studioso domenicano fa una lettura tomista di un punto spesso criticato nel testo conciliare, la « gerarchia delle verità ». Secondo lui, se si accorda ai separati che, dalle due parti, c’è stata cattiva comprensione delle rispettive posizioni, alla fine bisognerà ben ammettere qualche formula obbligatoria per tutti – in altre parole, un dogma - che manifesti che ormai ci si capisce perfettamente e che ci si accorda univocamente nell’esprimere la fede ricevuta dagli Apostoli.
Riguardo al decreto conciliare sull’ecumenismo al n. 11 §3 [13], egli ricorda che la Tradizione cattolica, specie per bocca di San Tommaso, ha sempre affermato che il rifiuto di credere ad un qualunque articolo di fede significa rifiutare l’autorità di Dio, da cui dipende la fede, e annichilire di fatto il motivo di credere, quindi polverizzare la fede. Tuttavia, come espone anche San Tommaso, l’insieme delle verità da credere si organizza secondo un certo ordine, che non sopprime in nessun modo l’importanza di ogni articolo. Il Padre Morerod spiega che, così intesa, la «gerarchia delle verità» non è fondamentalmente niente altro che un metodo di catechesi elementare per esplicitare, per esempio, la Maternità divina a partire dall’Incarnazione, un mezzo pedagogico per portare alla fede cattolica coloro che se ne sono allontanati.

Un nuovo contesto teologico e le sue virtualità



Le dimostrazioni in forma di precisazioni dei Padri Becker, Ocáriz, Morerod e di tanti altri ancora, sono molto seducenti. L’inconveniente è che esse sono giustamente rese necessarie perché i testi in questione (in ciò che ho richiamato: il n° 8 di Lumen Gentium, il n° 2 di Dignitatis humanae e il n° 11 di Unitatis Redintegratio, ma esistono altri luoghi di difficoltà [14]) non contengono le precisazioni che avrebbero evitato tutte le interpretazioni devianti[15].


Non è forse, più in generale, la grande difficoltà che solleva tale o tal’altra asserzione del Vaticano II, e cioè quella di aver avuto l’effetto di ciò che potremmo chiamare un «ri-velamento» del dogma (per alludere alla teoria dello «svelamento» che, secondo il cardinale Journet, avrebbe la funzione dogmatica) ?


Ma prima di tutto bisogna far notare, che il fenomeno innescato dal discorso indirizzato il 22 dicembre 2005 da un Papa teologo, Benedetto XVI, alla Curia romana, sulla buona interpretazione del Vaticano II, si colloca in una fase storica particolarmente interessante di « ritorno al dogma ». Del resto, si potrebbe sostenere che l’esercizio del suo incarico di Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, specialmente dal 1985 (con la pubblicazione di Inchiesta sulla Fede) fino al 2005, ha costituito una specie di pre-pontificato di reinterpretazione e di inquadramento dei punti sensibili del Vaticano II.


In fondo, ciò che oggi si dice e scrive liberamente un po’ dappertutto era perfettamente conosciuto: e cioè che l’autorità dei passi del Vaticano II che sono apparsi o appaiono in disaccordo con le asserzioni dogmatiche anteriori, non aveva niente di dogmatico. Allo stesso modo si potrebbe dire che le reinterpretazioni in forma di precisazioni ortodosse di questi passi, che oggi si moltiplicano a cura di scritti ben autorizzati, sono sempre esistite. Ma, mi sia permesso far notare che queste due vie praticate, che oggi assumono un carattere quasi ufficiale, restano fino ad un certo punto insoddisfacenti: la prima via (la non infallibilità dei punti contestati) perché è puramente negativa e non regola il fondo del dibattito; la seconda (la reinterpretazione tomista di questi punti) perché appare relativamente artificiale o in ogni caso è con tutta evidenza a posteriori.



Tuttavia, come nella vita spirituale l’accesso alle vie mistiche non può prescindere dalle purificazioni ascetiche, così tutta l’attuale effervescenza scatenata o attivata dal discorso teologico liberatorio del 2005, ha un indispensabile valore preparatorio sul lungo termine – e senza dubbio sul lunghissimo termine. Mi sia concesso dire che la presente situazione magisteriale (qui parlo sempre, unicamente, dei punti sensibili del Vaticano II, e in nessun modo dei progressi indiscutibili di questo Concilio, come il decreto Ad gentes e, a mio avviso, la costituzione DeiVerbum) è abbastanza inedita nella storia dei dogmi. Non si tratta, come è sempre stato, di eresie esterne e di condanne interne, ma di flussi dottrinali interni e del rigetto all’esterno (fino ad oggi) della loro contestazione. Si è in presenza di qualcosa che assomiglia, se si vuole, ad una crisi d’adolescenza – molto tardiva, certo –, in cui il meglio e il peggio si mescolano per accedere ad una maturità.


Il peggio sarebbe restare in mezzo guado - per esempio: Unitatis redintegratio non assegna uno scopo chiaramente precisato in termini dogmatici all’ecumenismo. Il meglio è nella materia nuova che è emersa – parlo sempre a titolo personale - e che fa si che, non dispiaccia a coloro che vorrebbero ritornare allo status quo ante, è impossibile pretendere per esempio di cancellare l’ecumenismo dall’insegnamento della Chiesa. Più esattamente, al termine di un lavoro teologico che certo non si è mai interrotto da quarant’anni, ma al quale un Papa teologo permette uno sviluppo libero e insperato, bisognerà fare dell’ecumenismo un insegnamento della Chiesa in quanto tale. Le difficoltà di questi testi che chiamo «d’adolescenza» (poiché mi è stato rimproverato da ogni parte l’appellativo di «magistero incompiuto») possono essere allora capiti come delle problematiche.


Mi spiego approfondendo questo esempio dell’ecumenismo. Leggendo il n° 3 di Unitatis Redintegratio, si può capire questo testo come il riconoscimento tradizionale dell’esistenza di elementi della Chiesa cattolica, come il Battesimo, la Sacra Scrittura, a volte l’Ordine, in seno alle comunità separate: «Tra gli elementi o i beni con l’insieme dei quali la Chiesa si edifica ed è vivificata, diversi e perfino molti, e di grande valore, possono esistere al di fuori dei limiti visibili della Chiesa Cattolica». Ma Unitatis Redintegratio aggiunge, e questo comporta una considerevole difficoltà, una certa legittimazione ecclesiale di queste comunità separate in quanto tali: «Di conseguenza , queste Chiese e comunità separate , sebbene noi crediamo che soffrano di deficienze, non sono affatto sprovviste di significato e di valore nel mistero della salvezza. Lo spirito di Cristo, in effetti, non rifiuta di servirsi di esse come di mezzi di salvezza, la cui forza deriva dalla pienezza di grazia e di verità che è stata affidata alla Chiesa Cattolica». I termini del testo sembrano dire dunque che in quanto separate queste Chiese sarebbero dei «coadiuvanti» della Chiesa Cattolica. Il che sarebbe, se tale fosse la vera interpretazione, in rottura con l’insegnamento anteriore.


E tuttavia è gioco forza convenire che se – conformemente alla dottrina tradizionale – dei separati in buona fede accedono alla salvezza attraverso questi elementi cattolici che si trovano de facto nelle loro comunità, non è la loro concreta appartenenza a queste comunità separate che può (nell’insondabile mistero di Dio) apportar loro questi elementi cattolici salutari. Allo stesso tempo, è vero, che questa appartenenza è anche il principale ostacolo oggettivo al loro ritorno nell’unità della Chiesa. È chiaro che il dogma del passato non ha integrato esplicitamente il fatto che gli elementi cattolici che esistono in queste comunità separate possano essere strumenti della grazia per dei cristiani separati in buona fede e dunque la loro eventuale appartenenza in voto alla Chiesa di Pietro, né che questi elementi sono in attesa di essere rivivificati dal ritorno alla Chiesa cattolica dei cristiani separati che ne beneficiano (cosa che non ho in nessun modo la pretesa di spiegare in poche righe). È come se la «problematica» del n° 3 di Unitatis Redintegratio testimoniasse due insufficienze, una del passato che diceva troppo poco, e l’altra del presente che, di contro, dice troppo.



Note


[1] Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, Case Mariana Editrice, 25 marzo 2009.
[2] Mons. Brunero Gherardini, « Quale valore magisteriale per il Concilio Vaticano II », da Disputationes Theogicae, 5 maggio 2009 ; Claude Barthe, « Il Magistero ordinario infallibile. L’abbé Barthe difende la posizione di Mons. Gherardini », 18 giugno 2009.

[3]. Sul modo in cui la FSSPX affronta il tema della non infallibilità dei punti contestati del Vaticano II: JEAN-MICHEL GLEIZE, Le concile Vatican II a-t-il exercé l’acte d’un véritable magistère? e ALVARO CALDERÓN L’autorité doctrinale du concile Vatican II, in Magistère de soufre (Iris, 2009, pp. 155-204 et 205-218)

[4]. Parole et Silence, 2005.

[5]. Parole et silence, 2004.
[6]. « Nel clima dell’Immacolata i quarant’anni del Concilio. Subsistit in (Lumen gentium, 8) », pp. 1, 6-7.

[7]. Un altro vecchio professore dell’Università Gregoriana, il Padre Francis Sullivan, aveva d’altronde contestato questa interpretazione in «A Response to Karl Becker, S.J., on the Meaning of Subsistit in» Theological Studies, vol. 67 (2006), pp. 395-409. Il Padre Sullivan, di tendenza opposta a quella del Padre Becker, non crede tuttavia come lui all’autorità infallibile del Vaticano II. Nella linea Sullivan, ma in una prospettiva diversa che quella del dibattito sui punti contestati del Vaticano II, e attinente alla relativizzazione dell’autorità magisteriale nell’ambito della teologia attuale, vi è una considerevole bibliografia. In francese: un classico: JEAN-FRANÇOIS CHIRON, L’infaillibilité et son objet. L’autorité du magistère infaillible de l’Église s’étend-elle aux vérités non révélées ? (Cerf, 1999), il contributo più recente: GRÉGORY WOIMBÉE, Quelle infaillibilité pour l’Église ? De jure veritatis (Téqui, 2009).

[8]. L’ultimo lavoro apparso che dà un breve, ma molto sostanziale compendio del dibattito: GUILLAUME DE THIEULLOY, « Vers une relecture de Vatican II », in La théologie politique de Charles Journet (Téqui, 2009, pp. 149-163). Allo stato, il più completo e il meglio documentato sulla dottrina anteriore alla Dignitatis humanae è il capitolo 9 dello schema De Ecclesia (Documenta oecumenico Vaticano II apparando, Constitutio De Ecclesia, c. 9), tradotto in CLAUDE BARTHE, Quel avenir pour Vatican II. Sur quelques questions restées sans réponse (François-Xavier de Guibert, 1999, pp. 163-179).

[9] « Délimitación del concepto de tolerancia y su relación con el principio de libertad », Scripta Theologica 27 (1995), pp. 865-884. Su questa questione cfr. : P. BASILE VALUET, OSB, La liberté religieuse et la Tradition catholique, edizioni Sainte-Madeleine, 1998, di cui occorre sottolineare che non sembra voglia assimilare l’insegnamento conciliare al magistero ordinario universale. Sono invece per la qualificazione di magistero ordinario e universale della dottrina conciliare sulla libertà religiosa (di cui danno delle interpretazioni cattoliche dalle sfumature diverse, che qui non è possibile indicare): BRIAN W. HARRISON, Le développement de la doctrine catholique sur la liberté religieuse (Dominique Martin Morin, 1988); i numerosi articoli di Dominique-M. de Saint-Laumer, come per esempio « Liberté religieuse. Le débat est relancé », Sedes Sapientiae, 25, pp. 23-48 ; Bernard Lucien, : Les degrés d’autorité du Magistère (La Nef, 2007).
[10]. « Le devoir social de religion et le droit à la liberté religieuse », nn. 2104-2109.

[11]. Op. cit., Parole et silence, 2004.

[12]. Op. cit., Parole et Silence, 2005.

[13]. « En exposant la doctrine, ils [les théologiens catholiques] se souviendront qu’il y a un ordre ou une “hiérarchie” des vérités de la doctrine catholique en raison de leur rapport différent avec les fondements de la foi chrétienne ».

[14]. Il n° 2 della Dichiarazione Nostra aetate : « Essa [la Chiesa cattolica] considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini».
[15]. Per ciò che concerne l’insieme delle difficoltà sollevate dalla FSSPX e il modo in cui le presenta, si può leggere specialmente il libro collettivo: Magistère de soufre, op. cit. (Iris, 2009).



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