La banalizzazione degli insegnamenti divini

Guerra e pace

Che cos’è la guerra?
La guerra è la guerra!

Che cos’è la pace?
La pace è… ?!

Se il termine “guerra” suscita immediatamente un’idea precisa, lo stesso non avviene col termine “pace”. Lo stesso termine non richiama la medesima idea in tutti.
Si potrebbe dire che la pace è lo stato di tranquillità sociale in cui vive un gruppo umano. Ma il concetto si presta a considerazioni diverse e talvolta contraddittorie.
Si potrebbe dire che la pace è lo stato di percezione indisturbata dell’àmbito in cui si vive. Ma anche questo concetto rende solo un particolare aspetto dell’esistenza.
Si potrebbe dire che la pace è lo stato di serenità d’ànimo in cui vive un individuo. Ma il concetto non è applicabile in maniera universale.
Si potrebbe dire che la pace è lo stato di armonia vissuto da piú uomini tra di loro. Ma, anche qui, il concetto si presta ad una interpretazione individuale o di gruppo, cosí da non permettere l’evocazione di un’idea precisa e immediata a carattere universale.
Si potrebbe dire che la pace è l’assenza di guerra. Ma pur trattandosi della definizione più idonea, essa non dà ragione della complessità che sottintende.

Comunque si cerchi di dare un significato al termine pace, ci si trova di fronte alla impossibilità di formulare un concetto immediatamente definibile e, soprattutto, di indicare uno stato esistenziale immediatamente percettibile.
L’unica definizione capace di corrispondere alla percezione immediata dell’uomo è quella che indica la pace come assenza di guerra, e quindi non in relazione al concetto stesso di pace, bensí in relazione al concetto di guerra. Della guerra, e solo di essa, si ha un’idea immediata e concreta, un’idea che pur ammettendo sfumature diverse anche importanti, evoca con naturalezza un preciso stato di esistenza.
Per quanto la cosa possa apparire strana, l’uomo riesce a percepire e a concepire con immediatezza l’idea di guerra perché sia l’idea, sia lo stato d’esistenza che essa indica, sono connaturate nella condizione umana. 
In certo modo l’esistenza umana è, per sua natura, un combattimento, una guerra. E se questo vale, a priori, per ogni uomo, a maggior ragione vale nei rapporti tra gli uomini e nei rapporti tra gruppi umani; e i modi e le gradualità con cui questo stato conflittuale viene percepito e vissuto dagli uomini, sono tantissimi e differiscono nel tempo e nello spazio anche a seconda delle circostanze che informano questo o quel momento dell’esistenza.

In effetti, la stessa etimologia del termine “pace” non esprime uno stato che trova giustificazione in sé stesso, bensì una condizione esistenziale sopraggiunta, fissata in seguito ad un patto (dalla radice pak, da cui pax ed anche pacere). Come dire che la “pace” è una condizione esistenziale che non scaturisce dall’esistenza stessa, ma deriva dalla volontà dell’uomo che mira a trascendere tale esistenza. L’uomo non vive in condizioni di pace, ma mira a raggiungere tale condizione, impegnandosi in un conflitto, a volte anche strenuo, con le sue pulsioni meramente umane.
In realtà la vita dell’uomo è, essa stessa, per sua natura, un insieme di conflitti che costituiscono di fatto un permanente stato di guerra. Si potrebbe ricordare perfino la stessa organizzazione fisiologica di ogni essere vivente, la quale risponde primariamente all’esigenza di regolare ogni interferenza ed ogni impedimento intrinseci ed estrinseci.

Tutti questi punti di vista da cui si può giungere all’idea di pace sono relativi alla conduzione ordinaria della vita, e hanno in vista la vita umana considerata nel suo aspetto piú ordinario e piú immediato.

Come per l’organizzazione fisiologica degli esseri viventi, questi diversi concetti in grado di descrivere la “pace”, sono tutti riconducibili all’idea di “ordine”. Una vita “ordinata” è, in linea di principio, anche una vita “pacifica”.
Peraltro, anche nel caso dell’accostamento tra l’idea di “pace” e quella di “ordine”, ci si trova a dover convenire che pace e ordine, ancora una volta, non costituiscono due condizioni spontanee dell’esistenza, bensí due condizioni da raggiungere attraverso l’allontanamento degli elementi conflittuali da un lato (nel caso della “pace”), o degli elementi scomposti o disordinati dall’altro (nel caso dell’ “ordine”).
Detto in altri termini, si può affermare che la condizione ordinaria e spontanea dell’esistenza umana è direttamente connessa con la guerra e col disordine, mentre lo stato di pace e di ordine appartengono alle aspirazioni derivate da quella componente esclusivamente umana che è la morale.

Di tutti gli esseri viventi l’uomo è l’unico che abbia la facoltà di guardare alla propria esistenza non solo in base ai meri fattori della sopravvivenza, ma in base ad esigenze che trascendono la sua stessa vita. Esigenze che, da sempre, sono conosciute come esigenze morali e spirituali.

Questo permette di introdurre un’altra accezione della “pace”.
La pace è quella condizione di equilibrio che fa corrispondere la vita ordinaria dell’uomo non alle sue esigenze materiali, bensí alle sue esigenze spirituali. Per raggiungere questo equilibrio l’uomo impone a sé stesso delle norme comportamentali che costituiscono l’insieme della sua vita morale.
L’abitus, il costume dell’uomo, è quell’insieme di norme comportamentali che gli permettono di condurre la propria esistenza terrena in vista del suo superamento e, finalmente, dopo la morte, della piena realizzazione di sé. E queste norme comportamentali scaturiscono dalla sua consapevolezza spirituale che gli permette di prendere atto della sua limitatezza materiale: cosí che ogni pulsione meramente esistenziale viene regolata e finalizzata.
Una vera e propria lotta, o guerra, con sé stesso: la lotta della propria volontà e intelligenza che, informate dalla sua componente spirituale, discriminano, regolano, dirigono, finalizzano tutti gli istinti, i desideri, i piaceri che, connaturati inevitabilmente nella sua condizione umana, tendono a monopolizzare l’uomo e ad esaurirlo entro le esigenze della mera sopravvivenza.

Ora, mentre si riflette sulla possibilità che si possa raggiungere uno stato di pace attraverso una guerra continua con il proprio istinto, ci si accorge che è possibile concepire un’altra accezione della “pace”.
Se l’uomo si lasciasse andare interamente al proprio istinto, al soddisfacimento delle proprie pulsioni materiali, riuscendo a tralasciare ­ se fosse possibile ­ ogni esigenza derivata dalla sua componente spirituale, è indubbio che non si troverebbe piú nella necessità di lottare continuamente contro queste pulsioni, e, per ciò stesso, vivendo in una condizione di a-conflittualità, vivrebbe uno stato di pace.
Si tratterebbe, in definitiva, dello stesso stato di pace in cui vivono gli animali, con la differenza che per l’uomo si tratterebbe di una scelta consapevole e non di una condizione istintiva.
In tal modo l’uomo si porrebbe nella condizione di dover rinunciare alla propria componente spirituale, non solo trascurandola, ma, ogni qual volta essa si ripresentasse, combattendola.
Ancora una volta, lo stato di pace sarebbe raggiungibile solo con l’esercizio continuo del conflitto.
Quest’ultima possibilità, però, nonostante possa dare l’impressione di piú agevole perseguibilità, in realtà porrebbe l’uomo in conflitto con quella parte di sé che è causa e fine della sua stessa esistenza.
Intendiamo dire che mentre il conflitto con la propria parte materiale comporta per l’uomo la lotta contro una serie di fattori che sono quasi tutti contingenti e intercambiabili, il conflitto con la propria parte spirituale corrisponde alla lotta contro l’essenziale di sé stesso, ad una sorta di autoannientamento.
D’altronde, è facile constatare come i morsi della fame possano essere sopiti dall’assunzione di cibo, mentre le esigenze spirituali non possono essere soddisfatte da un qualsivoglia ritrovato materiale e pratico, sia esso meccanico sia intellettivo, pena lo scadimento a quello stadio assolutamente anomalo che oggi è parecchio diffuso e che si usa chiamare “angoscia esistenziale”.
Questo significa che lo stato di pace non può essere considerato secondo una accezione generica e applicabile sempre e ovunque, ma è strettamente vincolato alla subordinazione della componente materiale dell’uomo alla sua componente spirituale. Solo in questo senso lo stato di pace è perseguibile con una fondata possibilità di riuscita, diversamente si tratterebbe di una stato di guerra continuo e distruttivo.

Se facciamo caso al modo con cui oggi si considera l’idea di pace e, soprattutto, allo stato esistenziale che si intende perseguire seguendo questo modo, ci accorgiamo che si ha in vista una condizione d’esistenza in cui la preoccupazione principale è una sorta di a-conflittualità che permetta il tranquillo godimento dei beni materiali. Si desidera la pace per poter vivere tranquillamente una vita ordinaria tutta volta al perseguimento del benessere materiale, dell’appagamento psicologico, della soddisfazione dei desideri, del godimento dei frutti della moderna attività umana. Soprattutto, si desidera la pace per poter tranquillamente dare spazio alla proprie personali aspirazioni e vedute individuali.

Oggi si usa dire che la pace è la condizione indispensabile perché ognuno possa vivere in piena libertà.
Ed è proprio la falsa idea della libertà che spinge l’uomo a rincorrere un permanente stato di guerra dissimulato dietro declamazioni parolaie. 
Come non accorgersi che oggi conosciamo un numero interminabile di guerre che non vengono avvertite come tali e dove quelle palesemente guerreggiate sono solo una minoranza?
I concetti di pace e di guerra, infatti, non possono essere considerati solo secondo l’ottica semplicistica del mero conflitto cruento. 
Poiché è parimenti guerra la violazione delle leggi naturali: come la pratica del divorzio, la sovversione della famiglia, la corruzione dei costumi, l’aborto. 
È parimenti guerra l’esasperazione scientifica, la soggezione tecnologica, la manipolazione genetica, la procreazione artificiale. 
È parimenti guerra la volgarizzazione del sapere, la semplificazione del pensiero, la massificazione delle coscienze, la persuasione occulta. 
E massimamente è parimenti guerra la banalizzazione della Santa Religione Cattolica, che ad ogni pie’ sospinto viene paragonata a qualunque altra cosa partorita dalla mente dell’uomo, con un totale disprezzo per Dio e per le sue leggi.
Ora, allorché ogni aspirazione umana alla pace si basi su esigenze di questo tipo, sfocia inevitabilmente in una impossibilità, poiché piuttosto che essere un mezzo per migliorare la conduzione ordinata della vita, finisce con l’essere un fine: una scelta meramente umana in funzione di sé stessa. Tralasciando le primarie esigenze spirituali dell’uomo, questa concezione della pace si vede costretta a combatterle nel momento stesso in cui esse si presentano, realizzando uno stato di guerra che, come dicevamo prima, corrisponde ad uno stato di autoannientamento. 

Per cercare di comprendere il senso di questa distinzione tra il concetto di pace che si fonda su esigenze spirituali e quello che si fonda su esigenze di mera sopravvivenza, basta rifarsi all’insegnamento cristiano, esemplarmente sintetizzato in due passi del Vangelo di San Giovanni.
Il versetto 27 del capitolo 14 del Vangelo di San Giovanni riporta una importante precisazione del Signore Gesú: 
Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore.
Ripetuta nel versetto 33 del capitolo 16 del Vangelo di San Giovanni: 
Vi ho detto queste cose perché abbiate pace in me. Voi avrete tribolazioni nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!

È necessario sottolineare che il primo passo è di una cosí grande importanza che la Chiesa ha sempre ritenuto di doverlo inserire nell’Ordinario della S. Messa. Come dire che si tratta di uno dei capisaldi della dottrina cattolica.
Questo insegnamento del Signore fa parte ancora oggi dell’Ordinario della S. Messa, nonostante le molte stravaganti variazioni da esso subite dopo il Concilio Vaticano II; ed è una delle poche parti dell’Ordinario che quasi non ha subito variazioni.
Nel corso della S. Messa, prima che il celebrante si comunichi, invoca il Signore Gesú:
Signore Gesú Cristo, che hai detto ai tuoi Apostoli: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace”, non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua Chiesa, e donale unità e pace secondo la tua volontà. Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli.

Vi sono due momenti importanti in questo passaggio della S. Messa.
Il primo è dato dal fatto che il celebrante non si comunica se prima non invoca la pace del Signore, e la invoca chiedendo a Dio il perdono dei peccati, riconoscendosi indegno e incapace di essere “pacifico” senza l’intervento del Signore Gesú. Per di piú, in questa invocazione si sottolinea che la pace richiesta non è la pace voluta dalla volontà dell’uomo, ma la pace secondo la volontà di Dio: riconoscendo che la vera pace non è quella che scaturisce da volontà umana, la pace del mondo, ma quella che scende in terra secondo la volontà di Dio e in base al suo intervento.

Il secondo passaggio è costituito dal gesto simbolico con cui viene presentata la discesa di questa pace.
L’Ordinario della S. Messa tradizionale, cosiddetta di San Pio V, prescrive che il celebrante passi il segno della pace al diacono, questi al suddiacono, che a sua volta lo passa agli altri, fino ai ministri che aiutano nella celebrazione, i quali sono dei veri e propri rappresentanti dei fedeli.
Questa sequenza di gesti indica chiaramente che la pace viene direttamente dall’Altare, su cui sta ancora il Signore in Corpo, Anima e Divinità, e il celebrante passa al diacono la pace del Signore, quella stessa che ha invocato un momento prima, ed è questa pace del Signore che scende dall’alto e gradualmente e ordinatamente si riversa verso il basso: dal Cielo alla terra.
Con il nuovo Ordinario della S. Messa questa discesa della pace del Signore dall’alto verso il basso non viene piú espressa in alcun modo. Al contrario: dopo che il celebrante ha pronunciato l’invocazione, si rivolge agli astanti, a tutti indistintamente i presenti, e dice: scambiatevi un segno di pace. In tal modo si viene a determinare una cesura tra la pace invocata e il segno di pace che i presenti si scambiano. La pace invocata è la pace del Signore, il segno che i presenti si scambiano è il segno di una pace meramente umana, l’unica che legittimamente ognuno dei presenti può scambiare con un altro.
In questa diversità di gesti e di significati sta la chiave per comprendere la differenza di cui dicevamo prima.

Il Signore precisa che vi sono due tipi di pace: quella che dà Lui e quella che dà il mondo.
In cosa consiste questa differenza?
La pace del Signore è fondata sul Signore stesso, discende da Dio sugli uomini perché questi possano vivere la loro condizione d’esistenza in pace con Dio, indipendentemente dalla pace del mondo, dalla pace terrena e umana.
La pace che dà il mondo è una pace fittizia che, come si spiega nel secondo versetto citato, comporta sempre le tribolazioni, cioè la guerra, e in particolare la guerra che il mondo conduce nei confronti di Dio e di coloro che guardano primariamente a Dio.
La pace del Signore permette di vivere in armonia con Dio e, di conseguenza, in armonia col mondo, nonostante le tribolazioni che esso procura; la pace del mondo, essendo fine a sé stessa, coincide solo con le tribolazioni, con la guerra continua.
In definitiva il Signore ci insegna che l’unica vera pace è quella che viene da Lui, è quella che viene da Dio, è quella che permette all’uomo di ricondursi a Dio e di staccarsi dal mondo; e questa pace l’uomo non può darsela da sé, deve chiederla al Signore.

Ebbene, col nuovo Ordinario della S. Messa il segno che i fedeli si scambiano è quello della pace del mondo, non quello della pace del Signore, di quella pace che l’uomo non può darsi da sé.
Come è potuto accedere questo macroscopico errore?

Non è azzardato sostenere che si è trattato del risultato di una grossa confusione. 

Ci si è dimenticati che la condizione umana è segnata innanzi tutto dal peccato originale. Già San Paolo diceva: “La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità - non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa - e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio.” (Rm, 19-21). 
Si è trascurato il fatto che è proprio questo elemento originario che fa del mondo il luogo dei conflitti.
In particolare, i cattolici hanno dimenticato che se il Battesimo “cancella e condona ogni peccato, sia quello trasmesso dai nostri progenitori, come ogni altro da noi commesso” (Catechismo Tridentino, 181; cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, 1263), nondimeno “in noi rimangono anche dopo il Battesimo la debolezza del corpo … i moti della concupiscenza” (Catechismo Tridentino, 184; cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, 1264). 
Ora, sono proprio questi effetti del peccato originale che portano alla concezione mondana della pace, legata inevitabilmente alla natura peccatrice dell’uomo decaduto; ed è proprio questa concezione mondana della pace che - per diversi motivi che qui non abbiamo lo spazio per approfondire - è penetrata nella stessa liturgia cattolica, poiché, avendo trascurato “l’incentivo al peccato, il fomes peccati” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1264), si è ritenuto che la pace coincidesse comunque con una sorta di compiacimento psicologico. Da qui il semplicistico convincimento che la pace del Signore non potesse essere diversa dalla pace come la concepiscono gli uomini.
Il segno di pace che gli astanti scambiano tra di loro, essendo un mero gesto umano, induce i fedeli a ritenere che la pace che ha invocato prima il celebrante è identica a quella che possono procurarsi l’un l’altro; e la confusione è ancor più aggravata dal fatto che è lo stesso celebrante che dà inizio alla pantomima. Chi può negare che questo scambiarsi “un segno di pace” stimoli nei fedeli ­ preti compresi ­ uno stato psicologico di compiacimento? Chi può negare che tutti credono di fare una cosa simpatica e parecchio significativa e che questa cosa esprima quella pace del Signore che il celebrante ha invocato prima?
La confusione è talmente radicata che nessuno si accorge della palese contraddizione che esprime questa sequenza di parole e di gesti introdotta nel nuovo Ordinario della S. Messa.
Il celebrante, nell’invocazione, ripete le parole del Signore: Vi lascio la pace, vi dò la mia pace; e chiede al Signore di donarci l’unità e la pace secondo la sua volontà. Ed ecco invece che tutti si scambiano un segno di pace, tranquillamente, subito dimentichi che nessun fedele può dare all’altro la pace del Signore, la pace secondo la Sua volontà.
Si chiede la pace del Signore e subito ci si compiace reciprocamente di accontentarsi della pace del mondo. (1)

Ora, potrebbe sembrare che questa nostra riflessione voglia forzare a tutti i costi il senso delle cose, ma in effetti essa si fonda sugli insegnamenti contenuti nei Vangeli, nei quali si spiega in che modo va intesa la pace del Signore
 

Matteo 10, 12-13: 
Entrando nella casa, rivolgetele il saluto. Se quella casa ne sarà degna, la vostra pace scenda sopra di essa; ma se non ne sarà degna, la vostra pace ritorni a voi.
Luca 10, 5-6: 
In qualunque casa entriate, prima dite: Pace a questa casa. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi.

Matteo 10, 34-36: 
Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa.
Luca 12, 51-53: 
Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione. D’ora innanzi in una casa di cinque persone si divideranno tre contro due e due contro tre; padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera.

Da questi passi si comprende facilmente che la pace di cui parla il Signore, la Sua pace, è qualcosa di molto complesso e articolato, sicuramente qualcosa che non ha niente a che vedere con un qualche compiacimento psicologico, né con una semplice concezione buonista seconda la quale tutti gli uomini debbono volersi bene indipendentemente da tutto.
La pace di cui parla il Signore, la Sua pace, è quella stessa annunciata dagli Angeli al momento dell’Incarnazione: pace in terra agli uomini di buona volontà. La pace come esatto speculare della Gloria di Dio nell’alto dei Cieli.
Gloria in excelsis Deo et in terra pax hominibus bonae voluntatis.

La pace in terra che dona il Signore è il riflesso della Gloria di Dio, e, inevitabilmente, questa pace non può essere donata a tutti, ma solo agli uomini di buona volontà. E gli uomini di buona volontà sono gli uomini che vivono secondo la volontà di Dio (la volontà buona, la volontà retta) e non secondo la loro mera volontà umana.
È esattamente quello che si dice nei versetti 12 e 13 del capitolo 10 di San Matteo e nei versetti 5 e 6 del capitolo 10 di San Luca.
La pace scende solo sui figli di Dio, su coloro che, come dice San Giovanni (Vangelo, Prologo), “lo accolsero”, “hanno creduto nel suo nome”, e a cui il Verbo “diede la potestà di diventare figli di Dio”, perché solo questi “non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono nati”.
Per gli altri non v’è la pace del Signore: La vostra pace ritorni a voi, dice il Signore.

E nei versetti 34-36 del capitolo 10 di San Matteo e 51-53 del capitolo 12 di San Luca, il Signore spiega ampiamente in che cosa consista la mancanza di pace per coloro che non sono figli di Dio, precisando anche il rapporto che questi finiranno con lo stabilire necessariamente con i figli di Dio. E non si ferma neanche di fronte alla crudezza delle parole: non sono venuto a portare la pace, ma la guerra, dice il Signore. Non perché è lui la causa della guerra, ma perché seguendo lui, i figli di Dio si troveranno inevitabilmente in guerra con gli altri uomini che non “lo accolsero”, che non “hanno creduto nel suo nome”, e a cui il Verbo non “diede la potestà di diventare figli di Dio”, perché essi sono quelli nati solo “da sangue, … da volere di carne, … da volere di uomo …”.

A questo punto è opportuno introdurre un’altra accezione della pace, quella che vede corrispondere lo stato di pace allo stato di giustizia.
In effetti, la pace del Signore, quella a cui l’uomo può aspirare veramente, è il risultato dell’applicazione della stessa giustizia di Dio. 
Vi è un passo del Genesi in cui si spiega in maniera eminente questo stretto rapporto tra pace e giustizia, insieme ai vincoli che queste comportano nei confronti dell’uomo timorato di Dio.
Dopo la guerra vittoriosa condotta da Abramo contro i re che avevano turbato l’ordine catturando suo fratello Lot e la sua gente, “Melchisedech, re di Salem, offrí pane e vino; era sacerdote del Dio Altissimo e benedisse Abramo con queste parole: ‘Sia benedetto Abramo dal Dio Altissimo, creatore del cielo e della terra, e benedetto sia il Dio Altissimo, che ti ha messo in mano i tuoi nemici’. Abramo gli diede la decima di tutto.” (Gn, 14, 17-20).

Come tutti sanno, questo misterioso passo del Genesi, è di una importanza considerevole per le enormi implicazioni che esso comporta sotto diversi aspetti. Melchisedech offre pane e vino prima di benedire Abramo, compiendo cosí un’azione rituale che lega Abramo al Dio Altissimo di cui Melchisedech è sacerdote. Questa oblazione del pane e del vino di Melchisedech è una prefigurazione dell’oblazione che farà Gesú stesso nell’Ultima Cena, prefigurazione particolarissima perché non se ne trovano uguali nel Vecchio Testamento, se non un richiamo brevissimo nel Salmo 110 (109), 4, dove Iddio dice: “Tu sei sacerdote per sempre al modo di Melchisedech”. 
Richiamando questa corrispondenza, San Paolo, nella lettera agli Ebrei, sviluppa il significato del sacerdozio di Gesú Cristo e precisa che: “Quando Melchisedech infatti, re di Salem, sacerdote del Dio Altissimo, andò incontro ad Abramo mentre ritornava dalla sconfitta dei re e lo benedisse, a lui Abramo diede la decima di ogni cosa; anzitutto il suo nome tradotto significa re di giustizia; è inoltre anche re di Salem, cioè re di pace. Egli è senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita, fatto simile al Figlio di Dio e rimane sacerdote in eterno.” (Eb 7, 1-3).

Questo passo di San Paolo contiene una precisazione essenziale: questo Melchisedech è fatto simile al Figlio di Dio. Cosí che la corrispondenza tra l’oblazione di Melchisedech e quella di Gesú va ben al di là della semplice prefigurazione, e si può dire che in certo modo è la stessa oblazione; questo Melchisedech, Re di Giustizia e di Pace, non solo è prefigurazione, ma corrisponde allo stesso Signore Gesú, Re dell’Universo, Signore della Giustizia e della Pace.

Abbiamo voluto sottolineare questi aspetti perché risultasse evidente l’importanza del richiamo a Melchisedech, richiamo che la S. Chiesa ha sempre ritenuto di una importanza capitale, tanto da comprenderlo nel Canone della S. Messa (subito dopo la Consacrazione).
Questi due attributi concentrati nella stessa figura formano un tutt’uno, tale che non si possa parlare di pace senza parlare di giustizia. 
Ora, la giustizia del Dio Altissimo (e quindi di Cristo stesso) è la giustizia divina che mette nelle mani di Abramo i suoi nemici. Non solo, ma il Salmo 110 (109) che abbiamo citato prima è ancora piú esplicito a riguardo, poiché contiene la promessa di Dio circa la sconfitta dei nemici e la loro sottomissione al Suo Figlio Unigenito; mentre San Paolo, negli stessi capitoli di questa lettera agli Ebrei, parla esplicitamente della connessione che vi è tra la giustizia di Dio e la pace di Dio, usando una precisa terminologia che rivela il senso profondo di questa pace: l’entrata nel riposo di Dio (col richiamo al Salmo 95 (94), 11). “Affrettiamoci dunque ad entrare in quel riposo, perché nessuno cada nello stesso tipo di disobbedienza.” (Eb 4, 11).

Per di piú, i simboli tipici della giustizia sono la bilancia e la spada, e di tale giustizia la manifestazione piú eminente è quella che lo stesso Signore Gesú Cristo attuerà al momento del Giudizio, cosí che parlare di giustizia significa parlare dell’esercizio del discrimine, in base al quale a tutti noi verrà dato secondo i nostri meriti: unicuique suum (che è ancora la divisa del Vaticano). 
Come si vede, cercare di fissare il senso vero della pace comporta il richiamo al discrimine che Dio stesso opera nei confronti di tutte le creature, e l’esercizio di tale discrimine, attuato per mezzo dell’uso della bilancia e della spada, fa meglio comprendere il senso dei passi del Vangelo in cui il Signore afferma che è venuto a portare la spada e a separare (Mt 10, 34-36; Lc 12, 51-53).

Come non notare l’enorme distanza che separa la concezione della pace che scaturisce dall’esame di questi passi che abbiamo citato, dalla concezione moderna, purtroppo fatta propria anche da tanti chierici, secondo cui la pace non sarebbe altro che una sorta di quieto vivere?
Nel considerare questa enorme distanza che separa la vera pace dalla pace falsa, la pace del Signore dalla pace come la dà il mondo, vengono in mente le parole di San Paolo: “…siete diventati bisognosi di latte e non di cibo solido. Ora, chi si nutre ancora di latte è ignaro della dottrina della giustizia, perché è ancora un bambino. Il nutrimento solido invece è per gli uomini fatti, quelli che hanno le facoltà esercitate a distinguere il buono dal cattivo.” (Eb 5, 12-14).

Ci chiediamo: dal tempo di San Paolo è davvero cambiato molto in questi uomini lenti a capire?
Noi abbiamo l’impressione che, per molti versi, le incomprensioni di allora siano diventate oggi montagne insormontabili, perfino tra i chierici.
In fondo San Paolo si rivolgeva ad uomini che erano ancora timorati di Dio, mentre invece oggi viviamo in un mondo dimentico di Dio, che considera Dio come inesistente o relativo, che è perfino orgoglioso di questa sua incredibile presunzione; un mondo che considera gli uomini obbedienti alle leggi del Signore come dei fanatici o, nella migliore delle ipotesi, come degli eccentrici; un mondo che fa ogni sforzo per convincersi della sua illusoria onnipo-tenza; un mondo siffatto può essere solo un mondo della divisione e della guerra; e questo spiega perché il mondo moderno è afflitto da una serie indefinita di conflitti, dai piú semplici ai piú distruttivi. 

Ci chiediamo: può effettivamente un credente sperare nella pace nel mondo?
Tutto sembra indurre a rispondere: no!
Ma, in realtà, il credente, il discepolo del Signore, per la sua stessa natura di figlio di Dio è portato a chiedere incessantemente la pace, e nel chiederla per sé la chiede anche per tutto il creato. Quindi, nessuna disperazione. Se la richiesta viene fatta avendo in vista la pace del Signore, la Misericordia di Dio permette che la pace si estenda anche al mondo, secondo quanto sta scritto: “Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (Mt,  6, 33). 

Piuttosto occorre notare che il credente non si fa alcuna illusione circa il destino di un mondo che ha rinnegato Dio, e non si stupisce affatto per l’andamento disastroso assunto dagli eventi di questo stesso mondo. Non solo, ma ha la piena consapevolezza che la volontà di questo mondo, gli espedienti che esso elabora, i mezzi che utilizza, non potranno mai condurre ad alcuna pace, poiché il suo stesso essere credente gli dà appieno la misura dell’impotenza della miscredenza.
Il Signore ha detto: Senza di me non potete far nulla (Gv 25, 5).

Oggi, purtroppo, vi sono dei cattolici che, abituati a scambiare la pace del mondo con la pace che dà il Signore, si agitano scompostamente in movimenti declamatori della volontà di pace, ormai suggestionati dalla presunzione del mondo. Alcuni addirittura se la prendono con Dio stesso, il quale, nei loro erronei convincimenti, dovrebbe fare di tutto per dare al mondo la pace che esso chiede con quella stessa voce con cui rifiuta ogni obbedienza alle leggi di Dio.
Nessuno di costoro si rende piú conto che se il Signore è il Re della Pace l’unica possibilità che gli uomini hanno di vivere in pace è data dal farsi sudditi del Re della Pace. Non si può pretendere di vivere come se il Signore non ci fosse e, al tempo stesso, pretendere la pace.
Piuttosto, se è vero, com’è vero, che la pace del Signore è tutt’uno con la giustizia del Signore, ai giorni nostri si può solo intravedere un destino di lotta e di guerra, piuttosto che un destino che veda gli uomini entrare nel riposo del Signore.

Giovanni Servodio


Nota 1 
Oggi è diffusa l’idea che lo “scambio di un segno di pace” corrisponda al “ripristino” di una pratica in uso nella Chiesa dei primi tempi, cosí che si tratterebbe di una sorta di “ritorno alle origini”.
Sarebbe lungo affrontare questo aspetto del problema, ci limiteremo quindi a riportare un passo di un testo in cui si trovano delle indicazioni relative al significato del “bacio della pace” in uso nei primi tempi della Chiesa (vedi riquadro sotto).
È chiaro che il “bacio della pace” di un tempo è cosa del tutto diversa dallo “scambio di un segno di pace”.
Accenniamo anche al fatto che esiste un problema relativo all’“andamento storico” dell’espressione liturgica, che pur essendo un elemento accessorio rispetto all’essenziale della liturgia, nondimeno è strettamente connesso ad un “modo d’essere” di questo o di quel gruppo umano, in questo o in quel tempo, in questo o in quel luogo: tale che non è possibile parlare di “ritorno alle origini”, perché sarebbe come parlare della decisione degli odierni abitanti di Roma di “recuperare” forme espressive e comporta-mentali dei Romani del terzo secolo d. C.; espressioni e comportamenti che non avrebbero senso, e tanto meno lo stesso senso di allora. Questo spiega perché certe innovazioni “sembrano” ricalcare qualcosa di “antico”, mentre in realtà esprimono qualcosa del tutto “nuovo” che dell’antico ha solo le parvenze. (torna al testo)

Il bacio della pace che si trasmette gerarchicamente è quello di Cristo, rappresentato dall’Altare. Colui che dà il bacio deve dire: La pace sia con te; colui che la riceve dice: E con il tuo spirito. 
Il bacio è un segno d’amicizia e Nostro Signore rimprovera Simone il Fariseo di non avergli dato il bacio di benvenuto (“Tu non mi hai dato un bacio, lei invece da quando sono entrato non ha cessato di baciarmi i piedi”, Lc, 7, 45).
In San Paolo, il bacio non è solo un segno d’amicizia, ma il segno della comunione nella fede: “Salutatevi gli uni gli altri con il bacio santo” (Rm, 16, 16). “Vi salutano i fratelli tutti. Salutatevi a vicenda con il bacio santo.” (I Cor, 16, 20). Altrove, San Paolo, precisa anche il significato di “bacio santo”: “Vi esorto dunque io, prigioniero del Signore, a comportarvi in maniera degna della vocazione che avete ricevuto, con ogni umiltà, mansuetudine e pazienza, sopportandovi a vicenda con amore, cercando di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace.” (Ef, 4, 1-3).
San Giovanni Crisostomo ci spiega il senso profondo del bacio della pace: “Che significa un bacio santo? Significa che non dev’essere corrotto dalla simulazione e dall’ipocrisia, come quello di Giuda a Gesú Cristo. Il bacio ci è stato dato come stimolo alla carità, affinché infiammi in noi l’affezione, in modo che ci amiamo reciprocamente, come i fratelli si amano gli uni gli altri, come i figli amano i loro padri, come i padri amano i figli, e di un amore ancora piú rispettoso, poiché lí vi è la natura, qui vi è la grazia.” (Omelia sulla seconda Epistola ai Corinti).

Una delle prime volte che il bacio della pace viene segnalato nella Messa è ad opera di San Giustino, dopo le preghiere litaniche e prima dell’oblazione. 
Le liturgie orientali e gallicane conservano il bacio della pace in questo momento della Messa, in modo da obbedire al precetto della carità fraterna che chiede di perdonare le offese prima di portare la propria offerta all’altare (Mt, 5, 23-24). 
In Africa, al tempo di Sant’Agostino, il bacio della pace era dato  dopo il Pater, a partire dalla Pax Domini. Il papa Innocenzo I (+ 417) scrive al Vescovo di Gubbio che il bacio deve darsi dopo il compimento dei Santi Misteri (la Consacrazione), e cioè appena prima la Comunione: “Al fine di testimoniare cosí che il popolo ha dato la sua adesione a tutto ciò che si fa nei Misteri e si celebra nella chiesa, e per proclamare, col segno conclusivo del bacio della pace, la conclusione della festa dell’espiazione”.
Nei primi tempi il bacio della pace si dava senza distinzione di sesso (“Tutto è puro per i puri”, Tito, 1, 15). In seguito, per maggiore decoro, gli uomini si disponevano da un lato della navata e le donne dall’altra. 
Nel XII secolo non si dava piú il bacio della pace ai laici; esso, in un primo tempo, venne sostituito dalla presentazione della patena, in seguito, per rispetto delle cose consacrate, quest’ultima venne sostituita da uno “strumento della pace”, osculatorium, una piccola piastra sulla quale era incisa l’immagine del Salvatore o di un Santo. 
Nel XIII secolo, tra i chierici, il bacio venne rimpiazzato dall’abbraccio.
Il bacio sembra essere la condizione preliminare per la ricezione della Comunione o, quantomeno, la sua normale preparazione. Un vestigio di questa pratica sembra sussistere nell’uso del bacio dell’anello o della mano del Vescovo che distribuisce la Comunione, anche se la pratica del bacio prima della ricezione dell’Eucaristia si ritrova nella Chiesa dei primi tempi.
Nella cerimonia dell’ordinazione sacerdotale, quando il Vescovo ha consumato il prezioso Sangue, i preti vanno ad inginocchiarsi ai suoi piedi per ricevere la Comunione; il Vescovo, comunicandoli, porge loro il suo anello da baciare, senza pronunciare una parola.

(ABBÉ DANIEL JOLY, La Messe expliquée aux fidèles, Clovis, Étampes, 1998, pp. 522-524)


(aprile 2004)


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