Una  spinosa  questione

LE  RADICI  CRISTIANE  DELL'EUROPA


Quale Europa?

Prima ancora di intraprendere qualsiasi riflessione sulla opportunità o necessità di “fissare formalmente” i richiami culturali che starebbero a fondamento dell’Europa, occorre chiarire qual è la natura dell’entità geografico-politica che oggi prende il nome di Europa.

La prima cosa che salta subito all’occhio è la difficoltà di cogliere questa natura o, quantomeno, di definire i connotati culturali di questa entità. Lo schematismo tipico di questa nostra società che vive e ragiona per “etichette”, induce a credere che un’area geografica, più o meno omogenea, corrisponda di per sé ad una uguale area culturale.
Nel caso dell’Europa la difficoltà è ancor più aggravata dal fatto che con questo termine si identifica una realtà che un tempo si presentava con una certa omogeneità. Il che porta a credere, in maniera equivoca, ad una sorta di continuità automatica di quella omogeneità. In verità, quella stessa omogeneità, peraltro non sempre facilmente riscontrabile nei secoli appena andati, non esiste più da almeno cinquecento anni. 

Per poter seriamente discutere di un àmbito supposto “omogeneo” è necessario che questa omogeneità si fondi su un buon numero di elementi comuni di rilevante importanza. Ora, nel caso dell’Europa non è facile affermare che negli ultimi sei sette secoli essa sia stata caratterizzata da un buon numero di elementi comuni di rilevante importanza, e cioè da una serie di elementi culturali omogenei; e se ci si volesse richiamare alla omogeneità culturale che via via è andata affermandosi nell’ottocento e nel novecento europei si deve riconoscere che essa è essenzialmente fondata su una drastica rottura con tutto quello che l’ha preceduta.

Il termine “cultura” ha una radice che lo collega per un verso al termine “culto” e per l’altro al termine “colto”. 
Al primo è legato il concetto di adorazione, al secondo il concetto di coltivazione. 
Si comprende facilmente come i due concetti rimandino ad un’unica azione: quella del dovere e della preoccupazione umane nei confronti del divino, che comportano l’adorazione di Dio e la coltivazione della pratica dell’adorazione. Una stessa “cultura” è necessariamente una medesima adorazione e un medesimo modo di adorare Dio. Ove questo non si verifichi o smette di verificarsi, non si potrà parlare di una stessa cultura.
Beninteso, non stiamo parlando del corretto rapporto col divino come se si trattasse dell’unico elemento da considerare, cosí che nel complesso àmbito culturale esaminato gli altri elementi possano liberamente diversificarsi. Abbiamo piuttosto in vista la considerazione, quasi scontata in una società ordinata, che, posto chiaramente l’elemento del corretto rapporto col divino, tutto il resto ne discenda inevitabilmente.

Pensare all’Europa come ad una entità che mantenga la medesima cultura, significa pensare all’Europa medievale. Forse, con le dovute riserve, si può ancora parlare di “cultura europea” nel quattrocento e nel cinquecento, ma di certo si deve constatare che tale cultura ha smesso di esistere proprio a partire dal cinquecento. Da allora si dovrà necessariamente parlare di “culture” diverse che vivono in Europa, spesso in palese contrasto tra loro. Il che certo non fa l’entità europea.
 

Di quale Europa si parla allora?

Dicevamo prima che forse è possibile guardare all’Europa come ad una entità caratterizzata da una certa omogeneità culturale, se ci si ferma agli ultimi due secoli.
Ma qui nasce allora un altro problema.
Con quale diritto si continua ad abusare del termine “cultura” quando è sotto gli occhi di tutti che gli ultimi due secoli caratterizzano l’Europa, come entità omogenea, proprio per la sua “incultura”?
È vero, l’Europa dell’ottocento e del novecento si presenta con molti elementi di omogeneità, ma tutti questi elementi sono fondati sulla dichiarata volontà di rompere definitivamente con la “cultura” del passato, anzi di rompere definitivamente con la “cultura” di per sé.
Sono i secoli in cui si afferma il rifiuto totale di ogni adorazione del divino, partendo proprio dal titanico e irreale convincimento della inesistenza di Dio, o, nella migliore delle ipotesi, della sua insignificanza.
Quando si parla, del tutto impropriamente, di moderna cultura europea, si commette una vera e propria frode, una violenza all’intelligenza, si opera un diabolico capovolgimento della realtà col quale si tende a dare senso ad una concezione della vita e del mondo che  è del tutto insensata.
A ben riflettere, tale operazione è ancora più subdola ove si pensi che, nel suo complesso, la “cultura” moderna si presenta con le stesse modalità con cui un tempo si praticava il culto, pretendendo per sé quella stessa adorazione che ha preteso di negare a Dio.
Chi oggi sarebbe in grado di rifiutare come insensata e inumana la concezione della negazione di Dio o della sua relativizzazione, rigettando come aberrante il convincimento moderno che tale concezione sia una “conquista” dell’intelligenza?
Al contrario, affermare oggi che la cultura è primariamente la cura per Dio e per le sue leggi, significa porsi automaticamente al di fuori del mondo moderno.
Persino coloro che, almeno formalmente, dovrebbero avere il compito istituzionale di mantenere viva la percezione di questa elementare verità, persino i religiosi hanno abdicato, finendo con lo sposare la concezione moderna della relatività di Dio. Non s’era mai visto, a memoria storica, un fenomeno così incredibile: uomini di religione che per mantenere la religione assumono le categorie mentali dell’anti-religione. Una sorta di masochismo spirituale vissuto all’insegna dell’aggiornamento “culturale”.
 

Detto questo, ecco che si ripropone la domanda. Quale Europa?

Se stiamo parlando di quella entità geografico-culturale che ha in comune l’odio per la vera cultura, il rinnegamento di Dio e l’esaltazione titanica dei limiti umani assunta a norma di civiltà: ebbene, se è così, non v’è alcun dubbio che quest’Europa non può e non deve richiamarsi in alcun modo a ciò che l’ha preceduta nei secoli andati.
Non vi è alcun serio elemento in comune fra l’Europa cristiana e l’Europa moderna. Anzi, se è possibile riscontrare una qualche contiguità tra le due, si tratta solo del rifiuto della seconda di tutto ciò che caratterizzava la prima.

Le radici dell’Europa moderna affondano i loro tentacoli nelle macerie dell’Europa cristiana, e solo un semplice rapporto di sopravvivenza meramente umana può giustificare una qualche supposta continuità.

Accadde lo stesso con la sostituzione della cultura romana con la cultura cristiana. Ma a nessuno verrebbe in mente di parlare del cristianesimo che affonda le sue radici culturali nella romanità.

Oggi invece si pensa di poter parlare di radici culturali cristiane per l’Europa moderna, il che, non solo è errato, ma è soprattutto fuorviante e estremamente pericoloso, per la religione.
Insistendo su questo punto del tutto arbitrario, si mira, anche senza volerlo, a giustificare tutto l’impianto “culturale” moderno come fosse il figlio legittimo della religione e della civiltà cattoliche.
Niente di più aberrante, niente di più diabolico, niente di più incredibile.
Certo, ai moderni soloni dell’“etica laica” fa molto comodo usare in maniera strumentale il richiamo “cristiano”, visto che, in fondo, i loro convincimenti continuano a basarsi sul nulla. Ma i credenti non possono accettare una tale confusione. 
Non è possibile permettere che si avallino tutte le aberrazioni moderne con un infondato richiamo alle “radici cristiane” della civiltà moderna. Questa civiltà e questa Europa moderne affondano le loro radici nell’anticristianesimo.

Non è inutile, a questo punto, fare qualche precisazione, al fine di fugare alcune confusioni che oggi vanno per la maggiore.
 

La dignità dell’uomo. 

Si dice che questa espressione avrebbe il suo fondamento nell’insegnamento cristiano. Ma non si dice che cosa si debba intendere, a priori, per “dignità dell’uomo”.

I prefazi della Santa Messa, ancora oggi, incominciano tutti con l’espressione “vere dignum et iustum est” (è veramente degno e giusto). E questo “degno e giusto” è la reiterazione del “dignum et iustum est” sottolineato dai fedeli in risposta al celebrante che dichiara “gratias agamus Domino Deo nostro” (rendiamo grazie al Signore Dio nostro), dopo aver esortato i fedeli al “sursum corda” (in alto i cuori) e dopo che questi hanno risposto “habemus ad Dominum” (li abbiamo rivolti al Signore).


Facciamo un piccolo lavoro di ricostruzione logica.
Il celebrante, rivolto ai fedeli che assistono alla Santa Messa e che si presuppone siano tutti dei credenti, esorta ad innalzare i “cuori” verso Dio. 
Primo elemento che fonda il loro essere uomini degni di tale nome.
E i fedeli confermano questo assunto, assicurando che i loro cuori sono rivolti in alto, a Dio. Il loro essere è tutto “concentrato” nel centro della loro stessa esistenza: Dio. 
Secondo elemento che conferma il loro essere uomini che vivono in “ordine” con l’ordine divino.
Stabilito questo presupposto, il celebrante può proseguire e fare il passo successivo. 
Questi uomini degni e ordinati a Dio ora possono chiedere la grazia di Dio, e la chiedono tramite il Mediatore per eccellenza che è il Signore Gesù, nostro Dio e Salvatore nostro. Confermando che non stanno rivolgendosi ad “un dio” indifferenziato, ma al Dio Uno e Trino, il Dio dei Padri che è oggetto del culto degli uomini secondo gli insegnamenti del Salvatore. Sottolineando che la loro posizione di postulanti di Dio non è una posizione “individuale”, ma una posizione che poggia sul culto e sulla religione cristiane, cioè sugli insegnamenti di Cristo.
E all’esortazione del celebrante, i fedeli rispondo in modo inequivo-cabile: è degno e giusto, dicono.
È degno e giusto, perché ci si rivolge a Dio nel modo voluto da Dio con i cuori rivolti a Dio.
Questo è degno e giusto. È questo l’insieme di elementi che fanno l’azione e gli uomini che la compiono: degni e giusti. Senza questi elementi non v’è né degno né giusto.

In pratica: cos’è che fa la dignità dell’uomo? Cos’è che rende l’uomo degno?
Il suo cuore rivolto a Dio e il culto che egli rende a Dio, nel modo voluto da Dio.
Ogni altra variante esistenziale fa solo l’indegnità dell’uomo e la sua esistenza è indegna se non condotta lungo queste direttrici.
Questo è, in maldestra sintesi, l’insegnamento cristiano. Questa è la radice cristiana della dignità dell’uomo.
Se oggi volessimo affermare che l’Europa o la cultura moderna hanno le loro radici nel cristianesimo, dovremmo verificare il perdurare di questo insegnamento. 
È possibile?
 

L’uguaglianza degli uomini.

Che gli uomini siano tutti uguali, con uguali diritti e uguali doveri, è una verità indiscutibile, ma la cosa si complica quando si cerca di capire qual è il significato di questa espressione.
Tutti gli uomini sono figli di Dio, e, come tali, sono uguali tra di loro. Ma perché questa non sia solo una affermazione di principio, è necessario che essi stessi sentano profondamente e vivano quotidianamente questa verità.
Nell’essere tutti figli di Dio, essi hanno uguali diritti e uguali doveri: inevitabilmente: essendo figli di Dio hanno tutti lo stesso diritto di dirsi tali e hanno tutti lo stesso dovere di vivere come tali.
Uguali, perché tutti aventi la stessa origine soprannaturale, hanno l’uguale diritto di esercitare questa loro prerogativa nei confronti dell’intero creato, ed hanno l’uguale dovere di esercitare questa loro prerogativa in vista della loro origine e, quindi, del loro fine.

Tutti gli uomini che vivono secondo la loro dignità di figli di Dio, non possono che essere uguali; e tutti loro hanno gli stessi diritti nei confronti degli altri uomini e del creato e gli stessi doveri nei confronti di Dio, dai quali scaturiscono inevitabilmente i loro doveri nei confronti degli altri uomini e del creato.

Ma, se vi sono degli uomini che non vivono secondo la dignità di figli di Dio ­ e la cosa è palesemente possibile ­ diventa assurda la dichiarazione di uguaglianza di tutti. Poiché si finirebbe con l’affermare che i figli di Dio, che si riconoscono e vivono come tali, sono uguali ai figli di Dio che non si riconoscono e non vivono come tali.
In cosa consisterebbe la loro uguaglianza? Se non nel loro mero essere uomini?

Ma anche da questo punto di vista, la dichiarazione di uguaglianza non ha fondamento.
Poiché non esiste al mondo nulla di “uguale”, uomini compresi. Dal mero punto di vista dell’esistenza non v’è nulla che sia uguale a qualcosa d’altro. Proprio perché si tratta dell’altro.
Uno e due non sono uguali… e così in maniera indefinita.
Tolta l’unicità della radice dell’esistenza e misconosciuta l’unicità della finalità dell’esistenza, non v’è più nulla che possa dirsi uguale: rimane una indefinita varietà di individualità, sia umane sia di altro genere. E nessuna individualità potrà mai pretendere, di per sé, l’uguaglianza con un’altra individualità: vuoi per definizione, vuoi per constatazione.
Siamo tutti uguali da Dio, per Dio e in Dio, e solo lungo questa retta direzione, che non perde di vista il soprannaturale, è possibile risolvere le innumerevoli disuguaglianze di ordine naturale. È questo che permette di dire che l’uomo religioso, il figlio di Dio, mentre prende atto delle irriducibili disuguaglianze nell’ordine naturale, riesce a viverle e a sentirle come finalizzate ad essere riassorbite nella uguaglianza dei figli di Dio.
Prescindendo da questa retta direzione, resta solo la anomala pretesa tutta moderna che si illude di poter considerare uguali un numero indefinito di esseri che sono naturalmente disuguali.
Oggi, si concepisce l’uguaglianza in questo modo o in modo similare?
 

La libertà dell’uomo.

Secondo l’accezione moderna, dire che l’uomo nasce libero, significherebbe che è libero di decidere in assoluto del proprio destino. In tal modo si fa coincidere la libertà dell’uomo con la sua individualità: come dire che l’uomo è libero di per sé, per il semplice fatto che esiste come individuo.
Negli ultimi secoli, il termine “libero” ha assunto la specifica connotazione di “sciolto da ogni legame”, “non vincolato da alcun limite”, “avente il potere di fare e di dire ogni cosa”. 
Ora, “libero” è uno di quei termini che ha subito molte variazioni nel corso dei secoli, così che il suo originario significato è andato perduto. Originariamente, il termine libero, derivato dalla radice leudho, esprimeva il concetto di “appartenente”, “facente parte”, “uno di…”. I nostri padri non conoscevano neanche la concezione di “libertà” alla moderna, come ci si vorrebbe far credere, la stessa mancanza di un termine che dovrebbe indicare l’idea di “libertà”, come la si intende ai giorni nostri, rivela la profonda consapevolezza di un tempo che questa libertà non esiste.
Se si riflette sul senso ultimo che suggeriscono le espressioni “facente parte”, “uno di…”, si nota l’assenza dell’idea che l’uomo possa essere libero in quanto individuo a sé stante, e tale concetto è legato alla consapevolezza che l’esistenza individuale non ha giustificazione in sé stessa, ma trova la sua ragion d’essere in qualcosa fuori di sé: nella causa e nel fine dell’esistenza.
Una individualità che prescinda dalla sua ragion d’essere non è compiuta e, quindi, non è libera, ma è vincolata dalla sua stessa limitazione; se essa, come tale, non sente e non vive il legame con la sua ragione d’essere, con Dio, non sente e non vive la stessa verità dell’esistenza. Questo significa che il primo bisogno dell’individuo è quello di sentirsi facente parte del disegno divino.
È possibile che l’uomo abbia la sensazione di poter vivere in piena e totale autonomia, prescindendo da ogni appartenenza, ma in questo caso finisce col considerarsi a sé stante, autosufficiente, come se avesse in sé stesso la sua ragion d’essere. Un uomo che segua una tale sensazione finisce col disconoscere la verità della sua stessa esistenza, e rimane avvolto nelle tenebre dell’ignoranza. Mentre, in apparenza avrebbe la sensazione di essere svincolato da ogni cosa, di essere “libero”, in realtà sarebbe schiavo della sua ignoranza.
Questi stessi concetti li ritroviamo nella pratica della religione cattolica, fin dal Battesimo.
L’incorporazione nel Corpo Mistico di Cristo libera l’uomo dall’ignoranza e dalla schiavitú del peccato, facendo del semplice individuo un membro della Chiesa, consapevole della causa della sua esistenza, che è Dio, e del fine di questa stessa esistenza, che è Dio.
Senza questa incorporazione, l’individualità umana rimarrebbe abbandonata a sé stessa, asservita all’ignoranza e schiava del peccato.
Lo stesso concetto di peccato, per quanto oggi se ne sia perduta la vera nozione, coincide con l’irreale convincimento che l’individuo possa essere “autosufficiente”. Il peccato consiste infatti in una manifestazione di orgoglio, di presunzione, in base alla quale l’uomo pretenderebbe di poter vivere prescindendo da Dio.

La pratica della Chiesa, poi, è fondata sulle stesse parole del Signore.

Vi è un noto passo del Vangelo di San Giovanni (8, 32), in cui Nostro Signore, rivolgendosi ai Giudei che avevano creduto in lui dice: “conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”. 
Questa frase di Gesú viene spesso utilizzata a sproposito, secondo l’invalso uso di strumentalizzare ogni cosa, eppure essa è di una estrema semplicità. La verità rende liberi per antonomasia, ma, evidentemente, questo significa che il suo contrario, l’ignoranza, è l’equivalente di schiavitù.
Non si è schiavi perché privi della libertà personale, questo è un aspetto molto limitato e particolare della schiavitú, ma si è schiavi innanzi tutto perché ciechi rispetto alla verità: ogni cecità corrisponde infatti alla dipendenza e alla limitazione. Il superamento della cecità, l’acquisizione della luce, l’adesione alla verità,  ci liberano dalla schiavitù dell’ignoranza.
La frase in questione infatti è preceduta da una necessaria chiarificazione: “Se rimarrete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi
La cosa è di una così incredibile semplicità che si resta stupiti nel considerare come si possa essere giunti alla semplicistica e irreale concezione che l’uomo possa essere libero per sé stesso.
Da questa frase si comprende anche che l’uomo, di per sé, l’uomo che non rimane fedele alla parola di Dio, l’uomo che non è davvero discepolo del Signore, non è in grado di conoscere la verità, e senza questa conoscenza non è libero, ma è schiavo.

Si è liberi nella verità: diversamente si è schiavi, schiavi della menzogna. E questo nostro mondo, che prescinde dalla Sua parola e quindi non conosce la Verità, è un mondo di schiavi, di schiavi che hanno “liberamente” scelto di essere schiavi dell’ignoranza. 

Sembra incredibile, ma è questa la realtà in cui viviamo, con l’aggravante che oggi va tanto di moda perfino gloriarsi di tanta ignoranza. 

Perché, poi? Perché, si dice, “l’uomo nasce libero!”.
Il che non corrisponde certo alla realtà, poiché, come abbiamo visto prima, non è la mera esistenza che fonda la libertà dell’uomo, ma la corretta conduzione di questa stessa esistenza. 
Peraltro, lo stesso concetto di corretta conduzione dell’esistenza, che per certi versi ancora serpeggia misconosciuto ai giorni nostri, implica necessariamente la sottomissione alle leggi che reggono la stessa vita dell’uomo (e del creato tutto), dalla nascita alla morte, fin nei suoi aspetti piú elementari, cosí che sarebbe contraddittorio supporre che l’uomo nasca libero, come si usa dire oggi, quando invece è palese che per vivere egli debba sottomettersi a ciò che esula dal suo controllo e dalla sua volontà.

Per essere veramente libero, l’uomo deve riconoscersi servitore delle leggi del Creatore, come ammonisce San Pietro: Comportatevi come uomini liberi, non servendovi della libertà come di un velo per coprire la malizia, ma come servitori di Dio (1 Pt, 2, 16).
Ci chiediamo, è in tal modo che oggi si vive il concetto di libertà?
 

La fratellanza.

Pensiamo che non ci sia molto da scervellarsi per comprendere che tale termine derivi direttamente dal sostantivo “fratello”.
Ora, i fratelli sono coloro che vantano la stessa origine diretta: sono i figli dello stesso padre e della stessa madre. Il che significa, del tutto semplicemente, che hanno un’intima affinità di sangue, di educazione, di costume: hanno in comune, insomma, tutti quegli elementi che li caratterizzano per quello che sono sia naturalmente sia moralmente, come singoli e come gruppo. Si potrebbe quasi dire che, dalla nascita alla morte, hanno lo stesso destino.

Ammettiamo volentieri che in una società come la nostra siano presenti tante varianti a questa considerazione, cosí che essa non trovi quasi piú riscontro nella realtà. Ma nessuno può ragionevolmente affermare che una constatazione del genere debba necessariamente avere una sua intima corretta giustificazione, né che essa possa corrispondere alla verità per la sua semplice esistenza.
In realtà, constatare oggi che l’idea di “fratello” non corrisponda piú a quanto dicevamo prima, significa solo che viviamo in una società anomala, dove sono andati perduti i fondamentali riferimenti dell’esistenza.

Distrutta la famiglia, non vi sono piú fratelli, e non vi sono piú neanche padri e madri. 
Quelli che un tempo, in un contesto ordinato e rispondente al senso piú profondo dell’esistenza, costituivano un “corpus” che era il nucleo di base di un qualsiasi gruppo umano, oggi sono solo delle individualità slegate e quasi impazzite, che si muovono in maniera del tutto disarticolata, senza radici, senza condotta coerente, senza scopo comune. 
La famiglia è solo un mero accidente, un fattore casuale: i fratelli sono solo dei conoscenti piú assidui, spesso meno intimi dei conoscenti occasionali; il padre e la madre sono solo dei ricordi, spesso difficilmente coltivabili e abbandonati a loro stessi.
Se il concetto di “fratello” è cosí andato perduto, nella concezione teorica e nella condotta pratica, c’è da chiedersi in che cosa possa consistere oggi la “fratellanza”.

Un gruppo umano che vive le medesime esperienze, riconoscendosi nelle medesime ascendenze e diretto verso i medesimi destini, stabilisce al suo interno dei rapporti di “fratellanza” che sono l’estensione al gruppo di quegli stessi rapporti che i “fratelli” vivono nella famiglia. Il gruppo umano diviene quindi una “famiglia allargata”, dove tutti si sentono “fratelli”, vivono da fratelli.
Ora, non v’è dubbio che, in questa ottica, il concetto di fratellanza rivela una sua intima condizione, che potremmo dire essenziale: esso è principalmente un fattore trascendente, che supera le individualità che ad esso si richiamano e conduce queste stesse individualità ben oltre il loro essere tali. Ma questo fattore trascendente non si radica nello stesso àmbito naturale e vitale occupato dagli individui, ma affonda le sue radici nel sovrannaturale, nel sovra-umano: è, insomma, della stessa natura della causa della vita dell’uomo e dello scopo della sua esistenza. È di natura divina.
Non v’è fratellanza che possa dirsi seriamente tale prescindendo da questo imperativo.
 

Tutti i figli di Dio sono fratelli: e solo i figli di Dio possono dirsi fratelli. E la dottrina cattolica ha sempre insegnato (Vangelo di S. Giovanni, Prologo) che i figli di Dio non sono coloro che, semplicemente, vengono al mondo, bensí coloro che, nel mondo, “receperunt eum” (lo accolsero), coloro che “credunt in nomine eius (che credono nel suo nome): solo a costoro il Verbo “dedit eis potestatem filios Dei fieri(diede la potestà di diventare figli di Dio): questi infatti “non ex sanguinibus, neque ex voluntate carnis, neque ex voluntate viri, sed ex Deo nati sunt (non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono nati). 
Questi sono i figli di Dio: questi sono i fratelli, sono essi che, a stretto rigore, possono praticare veramente la fratellanza.
Se si prescinde da questo fattore essenziale, di che fratellanza si tratterà? 
Solo di una fratellanza nominale che, nella migliore delle ipotesi, si rivela essere un semplice modo di dire.

In effetti, se si guarda alla reale situazione in cui oggi viviamo, salta subito all’occhio che la cosiddetta fratellanza oggi predicata si fonda proprio sul presupposto che si debba prescindere dal fondamento religioso. 
Non v’è organismo che sbandieri l’idea di fratellanza senza sottolineare l’importanza di questa supposta necessità: dalla massoneria all’ONU, dal laicismo agli ONG, dal “politicamente corretto” alla globalizzazione, tutti concordano che la fede religiosa non ha niente a che vedere con l’ideale della fratellanza universale.
Si può essere tutto oggi, tranne che uomini religiosi, e ancor meno cattolici fedeli all’insegnamento integrale del Signore, perché, si sostiene, per perseguire la fratellanza occorre mettere da parte i convincimenti personali o di gruppo: come se gli insegnamenti di Dio fossero delle semplici opinioni.
Chi può dire, oggi, che in questa nuova Europa si viva il concetto cattolico di fratellanza dei figli di Dio?
 

Opportunità del richiamo alla radici cristiane dell’Europa

Detto questo, resta da capire se un tale richiamo possa comunque avere una qualche utilità pratica, magari entro i limiti del memento, rivolto soprattutto alle nuove generazioni.
In effetti, in vista della costituzione di una entità continentale, magari politica piuttosto che solamente economica e utilitaristica, sembrerebbe che un tale richiamo possa svolgere una funzione di orientamento, quantomeno perché non si dimentichi che un tempo l’Europa è stata un insieme di popoli cristiani. I cristiani ancora  rimasti potrebbero utilizzare questo richiamo per meglio trasmettere ai propri figli una eredità che non deve andare perduta.
Sembrerebbe. Ma  le cose sono piú complicate di come sembra.

La costituzione di questa nuova entità continentale parte dall’esistenza dei diversi Stati che attualmente sono presenti nel continente. Ebbene, non v’è uno solo di questi Stati che nella sua Costituzione abbia un richiamo alle sue radici cristiane.
È possibile supporre che dopo alcuni secoli di disconoscimento di tali radici si possa adesso giungere ad un loro riconoscimento che non sia solo un riconoscimento di facciata? (1)
A noi sembra piú che improbabile, impossibile.

Tanto piú che in questi quarant’anni, di fronte all’avanzare delle pretese degli Stati cosiddetti “laici”, la Gerarchia cattolica, a partire dal Concilio Vaticano II, ha attuata una politica di “conciliazione” che, nei fatti, si è rivelata essere una politica di resa e di abbandono degli stessi principii cattolici.
Per tutti valga l’esempio della stipula del nuovo accordo tra lo Stato italiano e la Chiesa, sottoscritto nel 1984, col quale veniva modificato il concordato del 1929. 
Il punto primo del protocollo addizionale di questo nuovo accordo stabilisce che “ Si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato dai Patti Lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano.” 
Questa rinuncia da parte della Gerarchia cattolica sancisce, di fatto, l’accettazione del principio secondo cui la religione cattolica non sarebbe altro che un mero convincimento personale o di gruppo, e quindi di nessuna seria rilevanza per la vita della comunità italiana. (2) In questo modo è stato praticamente recepito il dettato dell’articolo 8 della Costituzione Italiana, il quale stabilisce che “Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge.”
Alla luce di questo comportamento, è certo contraddittorio che oggi si chieda un particolare riconoscimento delle radici cristiane dell’Europa, dopo aver accettato che queste radici sono ormai morte e il loro frutto, la pratica della Religione Cattolica, non è altro che una delle tante equivalenti espressioni della umana religiosità dei popoli.
In cosa consisterebbe quindi un riconoscimento del genere, se non in una una sorta di atteggiamento “estetizzante”, che in pratica non ha alcun significato, né dal punto di vista laico, né, soprattutto, dal punto di vista religioso?

Con tutto ciò, se in termini di estremo tentativo si volesse sostenere che è meglio che un tale richiamo ci sia piuttosto che non ci sia, in questi termini si può essere d’accordo con l’insistenza per la menzione di un tale richiamo, ma a condizione che si operino, anche a posteriore, tutti i distinguo necessari per far capire che si ha in vista non questa Europa, ma una Europa diversa che adesso non esiste, che è esistita e che forse potrebbe tornare ad esistere.
In questa ottica, però, ci sembra assolutamente indispensabile che si prescinda subito da ogni confusione, per esempio rifiutando che si giunga a formulazioni improprie e fuorvianti come quelle suggerite da qualcuno circa la supposta esistenza di radici “giudaico-cristiane”. Espressione che, indipendentemente dalla sua insussistenza storica, è del tutto priva di significato.
Non v’è un solo abitante dell’Europa che sappia in cosa consista il Giudaismo: tutto quello che si sa del Giudaismo ci viene dal Cristianesimo che ha trasceso il Giudaismo stesso secondo gli insegnamenti del Signore Gesú, cosí che l’unico Giudaismo che sia mai esistito in Europa è il Cristianesimo.
Qualunque studente di storia sa benissimo che lo sviluppo storico del Cristianesimo in Europa non è fondato sul Giudaismo, ma su alcuni elementi dell’Impero Romano: valga per tutti l’adozione del diritto romano da parte della stessa Chiesa, che non ha mai usato l’antica legislazione giudaica pur ancora contenuta nell’Antico Testamento. 
Già questa sola confusione dovrebbe fare intendere come oggi, in Europa, della concezione cristiana sia rimasto quasi niente, tranne che i pochi cattolici esistenti.

Piuttosto, come conseguenza indispensabile del richiamo alle radici cristiane, dovrebbe rilanciarsi, da parte dei cristiani, e a questo punto è più corretto dire “da parte dei cattolici”, la necessità della predicazione e dell’attuazione del Regno sociale di Cristo, solo fondamento serio per la possibile ricostruzione di una Europa che voglia riappropriarsi della sua vera e unica civiltà. 
Se i cattolici europei ci tengono a richiamarsi alle loro radici, a maggior ragione devono sentire il bisogno delle riscoperta di queste stesse radici, e tale riscoperta trova giustificazione e fondamento solo nella riaffermazione di una concezione del mondo e dell’esistenza che abbia il suo “centro” in Dio e in Gesù Cristo Suo unico Figlio.
Compromessi, cedimenti, adattamenti, servono solo a creare confusione. 
Confusione tra sedicenti cristiani e rimanenti cattolici, 
confusione tra concezioni umane e leggi divine, 
confusione tra errore e verità, 
confusione nelle menti e nei cuori, 
confusione financo nella conduzione ordinaria della vita.
E questa confusione con i suoi frutti l’abbiamo ogni giorno sotto gli occhi.

Questa Europa e questo mondo della confusione e della sovversione non ci interessano, al massimo possiamo solo subirli, ma non ci appartengono e non possiamo minimamente condividerli.

Belvecchio

NOTE

1 - È utile ricordare che alcuni anni fa, in Italia, i firmatari delle leggi che hanno introdotto il divorzio e l’aborto non erano degli anticattolici dichiarati, ma dei cattolici praticanti. In nome della “sacrosanta separazione” tra Stato e Chiesa. 
Nel dicembre del 2003, i praticanti cattolici che reggono le sorti della Francia, di fronte alla controversia: segni religiosi sí, segni religiosi no, hanno pensato bene che la migliore soluzione fosse quella di vietare ogni simbolo religioso, compreso il Crocifisso. In nome della “intangibile laicità” dello Stato.
Questi due esempii aiutano a ricordare che, mentre oggi si chiede a gran voce il richiamo alle radici cristiane dell’Europa, nella pratica gli stessi cattolici prescindono da queste stesse radici, forti del fatto che la stessa Gerarchia segue da anni una politica di rinuncia e di accomodamento ad ogni costo. (torna al testo)
2 - A questo proposito si veda quanto rilevato da Romano Amerio: “Questo dispositivo del nuovo patto implica l’abbandono del principio cattolico secondo il quale l’obbligazione religiosa dell’uomo oltrepassa l’àmbito individuale e investe la comunità civile: questa deve, come tale, avere un riguardo positivo verso la destinazione ultima dell’umana convivenza a uno stato di vita trascendente. Il riconoscimento del Nume è un dovere non pure individuale, ma sociale.”. “La religione cattolica non fa più parte dell’assiologia della società italiana e non la obbliga più (i valori legano). Non è più la religione cattolica inquanto cattolica che lo Stato riconosce, bensì la religione cattolica in quanto essa è una forma storicamente rilevante della religiosità. È la tesi della religione naturale come nucleo di tutte le religioni da cui tutte le religioni hanno valore. È il fondo, come tante volte dicemmo, dello spirito del secolo presente.” 
(Iota Unum, Ricciardi Ed., Milano, 1989, pp. 150 e 151).
 


(aprile 2004)


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