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Domenico Giuliotti, Il ponte sul mondo - Commento alla Messa, Ed.
Amicizia Cristiana, Chieti, 2014,
pp. 128, € 11,00. Edizioni Amicizia Cristiana Introduzione La Messa – e non già la Divina Commedia – è il «poema» veramente «sacro al quale hanno posto mano e cielo e terra». Opera dello Spirito Santo, di Cristo e della Chiesa, essa incomincia con un Salmo e finisce con due preghiere di Leone XIII. L’uomo e l’Uomo. Dio, la Trinità e tutti gli Angeli ne formano l’argomento. La Consacrazione, che rinnova l’Incarnazione, è il punto culminante di questo immenso mistero. E il Prete n’è, al tempo stesso, il taumaturgo e il poeta. A un tratto, inesplicabilmente, per mezzo della parola sacerdotale, che ripete la parola divina, il pane e il vino, cambiando natura, diventano Cristo: il Cristo vittima, il Cristo cibo. Allora, noi in Cristo, offriamo Dio a Dio, e noi con Lui. Se offrissimo solo noi non offriremmo nulla; ma offriamo noi con Lui; innestiamo la nostra morte alla Sua Vita e diventiamo viventi. «Prendete e mangiate, questo è il mio Corpo». E noi mangiamo quel pane che uccide la morte. L’Infinito penetra, così, nel finito; il finito si dilata, splendendo, nell’Infinito. Il Creatore, riabbassandosi, eucaristicamente, fino alla creatura, si dà a lei, entra in lei, celebra con essa le nozze. E il Paradiso è sulla terra, intorno a un piccolo disco bianco, offerto dalle mani di un uomo che, in quel momento, è più grande della Regina degli Angeli. Tale la sintesi della Messa. Il commento che segue si propone di lumeggiarne ogni parte. La Messa, per moltissimi, immersi nell’ignoranza religiosa, è come un affresco che altri afferma prezioso, ma che, agli occhi annebbiati di chi lo guarda, appare tutto coperto da un fitto strato di polvere. Ho tentato di dissipare quella nebbia e di far vedere il dipinto. Ma certamente vi son mal riuscito. Per far ciò ci sarebbe voluto un poeta santo. Ed io sono un povero balbuziente, a cui l’alito del peccato appanna il volto di Cristo. ***
Ma eccoci al Prefazio. È una grande preghiera di lode e di ringraziamento a Dio, per tutti i benefizi naturali e soprannaturali che ci ha fatti. Anche questa è una parte mirabile della Messa. Prelude al Sanctus, e con l’ultime parole, che non cambiano, vi s’intreccia. Scelgo e riproduco, fra tutti i Prefazi, quello più costante, e di natura prevalentemente teologica, che si dice nella Festa della Trinità e nelle Domeniche fra l’anno. «Veramente è cosa degna e giusta,
equa e salutare, che noi a Te sempre e dovunque rendiamo grazie, o
Signore santo, Padre onnipotente, eterno Iddio: Che con l’Unigenito
Figlio tuo e con lo Spirito Santo sei un solo Dio, sei un solo Signore;
non nella singolarità di una sola persona, ma nella
Trinità di una sola sostanza. Ciò che infatti della tua
gloria, per tua rivelazione, crediamo, il medesimo del Figlio tuo e
dello Spirito Santo senza differenza di divisione riteniamo,
Cosicché, nella confessione della vera e sempiterna
Deità, e nelle persone la proprietà e nell’essenza
l’unità e nella maestà l’uguaglianza si adora. La Quale
lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non
cessano mai di cantare concordemente, dicendo: (Ed ecco il sublime
inno: il Sanctus). Santo, Santo, Santo il Signore Iddio degli Eserciti.
Pieni sono Cielo e terra della [grande] gloria tua. Nel più alto
dei Cieli, Osanna! Benedetto Colui che viene nel nome del Signore. Nel
più alto dei Cieli, Osanna!».
Squilla il campanello e tutti s’inginocchiano. Inno glorioso, immenso. La Chiesa militante l’ha appreso dalla trionfante. Isaia, rapito in estasi lo udì cantare dai Serafini. E lo udì pure l’Evangelista Giovanni. In greco è chiamato Trisagio, che significa «tre volte Santo». Santo il Padre, Santo il Figlio, Santo lo Spirito che procede dal Padre e dal Figlio. Tre in Uno; e quest’Uno è «il Signore Iddio degli eserciti»: degli eserciti degli Angeli, degli eserciti delle stelle, degli eserciti innumerevoli di tutte le cose create. «Osanna!» (gloria): Gloria, dunque, all’Onnipotente, al Creatore, dal nulla, di tutto ciò che è. E benedetto Colui (Cristo) che viene (che sta per discendere sull’altare) nel Nome del Signore dell’Universo. ***
Quel tratto della Messa che sta fra il Sanctus e il Pater, si chiama Canone, ossia norma o regola. Esso contiene tutte quelle cerimonie e preghiere invariabili, che precedono, accompagnano e seguono la Consacrazione. La prima di queste preghiere è il Te igitur: «Te dunque (dice il Sacerdote),
clementissimo Padre, noi supplichevoli preghiamo, per Gesù
Cristo, tuo Figliolo, Signor nostro, e Ti domandiamo di gradire e
benedire questi doni (l’Ostia e il Calice), queste offerte, questi
santi e illibati sacrifizi, che noi Ti offriamo anzitutto per la Tua
santa Chiesa Cattolica, a ciò che Ti degni pacificarla,
custodirla, unificarla e governarla in tutto il mondo, insieme col
servo tuo…, nostro Papa, e col nostro Vescovo…, e con tutti quelli che
credono e professano la fede cattolica ed apostolica».
Finito il Sanctus e prima d’incominciare questa preghiera, il Sacerdote, in memoria della divina Vittima Crocifissa, stende le braccia e le innalza: poi congiunge le mani, guarda in alto, e subito riabbassa gli occhi. Allora, inclinato profondamente, e sempre a mani giunte dice: «Te dunque, clementissimo Padre, ecc.»: ma giunto alla parola: «Ti domandiamo… (di benedire ecc.)», bacia ancora una volta l’altare, e fa tre segni di croce sull’Ostia e sul Calice. Poi stende di nuovo le mani; ed ecco, prima di tutto (in primis), l’offerta del sacrifizio a vantaggio della Chiesa, che è il Corpo mistico di Cristo. Dio la pacifichi, la custodisca, la unifichi e la governi in tutto il mondo. Il pacifico regno di Cristo, sia, anche visibilmente, universale. Non questa o quella chiesa o confessione, non più membra staccate dalla Chiesa e perciò morte, ma la sola Chiesa, cattolica, apostolica, Romana; Essa sola viva, vera, illuminata, illuminante; e, in lei, tutti gli uomini vivi e santi; Essa sia Una col suo servo, il Papa, Maestro infallibile, perché istruito, guidato, illuminato da Te, Cristo; e col Pastore della nostra diocesi e con tutti i pastori di tutte le diocesi e con tutti coloro che professano la cattolica ed apostolica fede. Tutta la Chiesa, dunque, dal Papa all’ultimo fedele, il Signore si degni di custodire, di rafforzare, di dilatare per tutto il mondo. Il Papa, visibile, al centro della Chiesa visibile; Cristo nel Papa, invisibile; e da questo centro, la luce della verità nelle anime, come raggiera immensa. Ma ora, a un tratto, questo gran cerchio si restringe. Dall’ampiezza della Chiesa universale, rientriamo nel piccolo mondo dei nostri affetti, dei nostri bisogni individuali e familiari, delle nostre amicizie, dei presenti nel tempio. Ciò è piccolo, in confronto alla vastità della Chiesa militante e della «Comunione dei Santi»; ma è umano, e la liturgia si mostra indulgente alla nostra umana limitatezza e ai bisogni non sopprimibili del nostro povero umano cuore. E perciò il Sacerdote, per sé e per noi, così prega: «Ricòrdati, o Signore, dei tuoi
servi e delle tue serve…. (e si nominano), e di tutti i circostanti dei
quali Tu conosci la fede e la devozione, per i quali Ti offriamo, e
anch’essi Ti offrono, questo sacrifizio di lode per sé e per
tutti i loro, a redenzione delle proprie anime, per la speranza della
loro salute e conservazione: ed a Te presentano i loro voti, o eterno
Dio, vivo e vero».
«Ma improvvisamente (scrive l’Abate Pasque in “La Messe de l’Apotre”) il cerchio troppo stretto si spezza. Noi non possiamo lasciarci avvincere né assorbire da affetti, senza dubbio, legittimi, ma troppo angusti. Noi non siamo isolati, siamo esseri sempre affaticati alla ricerca dell’unità. Siamo i comunicanti. Ma con chi? I «nostri», coloro che per Lui e in Lui sono veramente l’osso delle nostre ossa, e la carne della nostra carne, non sono soltanto quelli che fanno parte della nostra famiglia o della nostra parrocchia o del nostro paese. Noi siamo concittadini di tutti i tempi e di tutti i paesi. E alla parola Comunione, di là da quei pochi che stanno inginocchiati con noi, accorre la moltitudine infinita dei Santi e di tutte quelle nobili anime, che conduce la Regina, l’Unica: Maria. Sottolineiamo qui ancora, questa espressione: in primis. Essa non ha con l’altra (quella che si trova nella preghiera dedicata alla Chiesa) una inutile simmetria. Desiderosi, come siamo di unirci quanto più strettamente è possibile a tutto il Corpo Mistico e di penetrare nelle più lontane profondità, potremmo noi non pensare in primis a Quella per cui tutto ci fu dato, dalla quale nacque Gesù, e che ci generò con Lui? E dopo di Lei ecco i Martiri. Da secoli e secoli noi ripetiamo la litania dei nomi benedetti di coloro che arrossarono, col proprio sangue, le fondamenta della Chiesa». Noi ci uniamo dunque col nostro cuore prima di tutto a Maria; e subito dopo a coloro che dettero la vita pel suo Divino Figliolo e che seguono, cantando, la Regina dei Martiri. E perciò diciamo: «In comunione e nel ricordo anzitutto della
gloriosa sempre Vergine Maria, Madre del nostro Dio e Signore,
Gesù Cristo, e anche dei tuoi Santi Apostoli e Martiri, Pietro e
Paolo, Andrea, Giacomo, Giovanni, Tommaso, Giacomo, Filippo,
Bartolomeo, Matteo; Simone e Taddeo, Lino, Cleto, Clemente, Sisto,
Cornelio, Cipriano, Lorenzo, Crisogono, Giovanni e Paolo, Cosma e
Damiano, e di tutti i tuoi Santi, per i meriti e per le preghiere dei
quali Tu concedi che siamo in tutte le cose muniti dell’aiuto della tua
protezione. Per il medesimo Cristo, nostro Signore. Così sia».
La Madre di Dio e degli uomini, la Regina di tutti i Santi, «umile ed alta più che creatura», apre il purpureo corteggio. Vengono primi le due colonne della Chiesa: Pietro e Paolo. Pietro crocifisso con la testa in basso. «Il voit Dieu (canta Claudel) et le sang de ses pieds lui tombe, goutte à goutte, sur la face». Paolo gli sta a fianco con la testa tronca: con quella sua Testa giudaica, ostinata nella Sinagoga prima, ostinata nella Chiesa dopo, che prima difese la lettera contro lo spirito, e poi lo spirito contro la lettera e convertì le genti. Poi viene Andrea, l’Apostolo della Scizia, innamorato della Croce e finalmente inchiodato su quella stessa Croce che tanto amava. Poi Giacomo, il Maggiore, chiamato da Gesù, per la violenza dell’amore, il Figlio del Tuono. Primo martire tra gli Apostoli, fu decapitato dai Giudei. Poi Giovanni, il quarto evangelista, l’Aquila, il sublime teologo del Verbo, che fu gettato, restando miracolosamente incolume, in una caldaia d’olio bollente. Poi Tommaso, quello che volle mettere il dito nella piaga di Gesù, e fu ucciso a bastonate e a pietrate nell’India remota, dove era andato, in espiazione di quell’attimo d’incredulità, a predicare il Vangelo. Poi Giacomo, il Minore, Vescovo di Gerusalemme, detto il Giusto, che fu precipitato dal Tempio, e finito a martellate sul cranio. Poi Filippo, messo in croce dagli idolatri della Frigia; e, poiché tardava a morire, furiosamente lapidato dalla folla. Poi Bartolomeo, detto prima Natanaele. Lo scorticarono vivo gli Armeni, ai quali aveva apportato la Buona Novella. Poi Matteo, già pubblicano, quindi Apostolo, infine evangelista, ammazzato mentre evangelizzava l’Arabia. Poi Simone, lo Zelatore, e Taddeo, suo compagno, l’uno e l’altro segati vivi a mezza vita, durante il loro apostolato in Mesopotamia. E dopo i Martiri apostoli, ecco i Martiri non apostoli: cinque papi, un vescovo, un diacono, cinque laici. Ecco Lino, convertito da San Pietro e suo primo successore sulla Sedia Apostolica. Ebbe mozzo il capo, senza processo, dai sacerdoti dei falsi dèi. Ecco Cleto, terzo Papa, prima schiavo, poi libero, poi convertito anch’esso da San Pietro. Dopo dodici anni di Pontificato gli tagliarono la testa. Ecco Clemente, Vescovo. Deportato da Roma in Crimea, condannato al lavoro delle miniere, convertiva i suoi compagni. Gli attaccarono un’àncora al collo e lo buttarono in mare. Ecco Sisto, Pontefice sotto Valeriano. Proibita la celebrazione della Messa, la celebrava nelle Catacombe. Scoperto, volevano che rinnegasse; rifiutò. Allora, a piè dell’altare, lo decapitarono. Ecco Cornelio, suo successore. Prima esiliato, poi invitato a sacrificar agli idoli. Non volle. E gli tagliarono il capo. Ecco Cipriano, cartaginese. Era ricco, si convertì in età matura. Abbracciò la povertà. Fu Vescovo. Rampognava i pagani. Lo presero e lo accoltellarono. Morente, ringraziò i carnefici di procurargli «la felicità del martirio». Ecco Lorenzo, diacono, ucciso tre giorni dopo l’uccisione di Sisto. Lo bruciarono, sopra una graticola, lentamente. Moribondo, disse: «Ti ringrazio, Signore, di aprirmi la porta del Paradiso». Ecco Crisogono, maestro dei neo-convertiti. Li esortava alla pazienza nelle persecuzioni e li preparava al martirio; dopo due anni di prigionia lo decapitarono. Ecco i fratelli Giovanni e Paolo, ciambellani di Corte. L’imperatore Giuliano voleva che sacrificassero al dio Sole. Inorriditi rifiutarono. Allora l’Apostata, di nascosto, li fece ammazzare nella loro casa. Ecco Cosma e Damiano. Nati cristiani, esercitavano la medicina. Curavano i corpi con l’arte loro, le anime col Vangelo. Sopraggiunta la persecuzione di Diocleziano, «dopo essere stati tormentati con la prigionia, con le catene, con l’acqua, col fuoco, con le pietre, con le frecce», caddero sotto la spada. Quanta cristiana luce da tanto sangue! «Questo radioso corteggio degli amici di Gesù, io lo vedo (dice Adolphe Retté nel saggio “Léon Bloy”) inginocchiarsi ai due lati del Tabernacolo; e ciascuno rende testimonianza, col suo martirio, e della Fondazione della Chiesa». La Chiesa militante, in procinto d’offrire all’Altissimo il Suo Sacrifizio sublime, ha chiesto aiuto alla Chiesa trionfante: alla Vergine Madre, a quei Santi che furono i primi seguaci di Gesù, ai Santi Martiri. Perciò, coadiuvata da tali intercessori, essa ha ferma speranza che la propria offerta non sia rifiutata da Dio. Tale la ragione per la quale la preghiera che segue dice così: «Dunque, questa offerta (Hanc igitur
oblationem) di noi tuoi servi, e di tutta la tua famiglia (cioè
di tutta la Chiesa), noi Ti preghiamo di accettare placato, e di
disporre i nostri giorni nella tua pace, e di preservarci dall’eterna
dannazione, e di comandare che noi siamo annoverati nel gregge dei tuoi
eletti. Per Cristo Signor nostro. Così sia».
«Quell’igitur, quel «dunque» (osserva acutamente Georges Coyau) si direbbe che sottolinei la calma e certa serenità di un procedimento dialettico. Quel «dunque» è la sanzione del Communicantes. Quei membri della Chiesa, coi loro patimenti e col loro martirio, acquistarono ingenti meriti. La Chiesa militante se li applica. Il bilancio dell’una profitta all’altra, i tesori di quella profittano a questa. D’indigente che era, la Chiesa si sente arricchita. Prima timida, è diventata fiduciosa; e la sua preghiera, assume arditamente l’aspetto d’una conclusione logica». «La quale offerta (dice la
preghiera seguente) Tu, o Dio,
dègnati, te ne preghiamo, di renderla, in tutto, benedetta,
accolta, ratificata, ragionevole ed accettabile; affinché per
noi, divenga il Corpo e il Sangue del dilettissimo Figlio tuo Signor
nostro, Gesù Cristo».
Tra qualche istante sarà pronunziato da tutta la Trinità, per le labbra del Sacerdote, un «fiat» anche più grande di tutti quelli che risuonarono, senza suono, durante la Creazione del mondo: e per quel «fiat» questo pane e questo vino, che stanno sull’altare, diventeranno, a un tratto, il Corpo, il Sangue, l’Anima e la Divinità di Cristo. Le parole del Sacerdote, di per sé puramente umane, e perciò impotenti o quasi, acquisteranno, nella Consacrazione, una sovrumana potenza: perché Dio, per esse, chiamerà se stesso; e la seconda Persona della Trinità non potrà non incarnarsi di nuovo, sotto le apparenze delle due specie e di nuovo non offrirsi ed essere offerta, come già sul Calvario. Formidabile grandezza del Sacerdote, quando è strumento di Dio! Louis Mercier, in “Le Rubis di Calice”, a questo proposito, così canta: Les mots qui consacrent l’hostie, Les mots qui consacrent le vin Passent votre immense harmonie, O millions de Séraphins! Car il sont interdits aux Anges, Les mots saints et mystérieux, Qui, prononcés par l’homme, changent Le corps des blés au Corps de Dieu! Di qui la preghiera del celebrante, sempre più umile e, al tempo stesso, sempre più calda e incalzante e tremante di commozione. Fa’
dunque, Signore, che questa oblazione sia benedetta (e vi fa sopra tre
segni di croce), che sia approvata, che sia conveniente, che sia
ragionevole e accettevole.
«Essa sarà benedetta
(dice Adolphe Retté, in “Louange
de l’Hostie”) se non ho
abusato delle grazie che mi furono elargite sì largamente,
nonostante l’insufficienza del mio zelo. Essa sarà approvata se
ho la convinzione assoluta che il fatto della sua perpetuità
nella Chiesa corrisponde all’ordine stabilito da Gesù, quando
istituì la Cena. Essa sarà infine conveniente e
ragionevole, perché l’oggetto dell’imminente immolazione
è il vivente Agnello di Dio, ossia Dio stesso, ossia la Ragione
e la Sapienza increata». E questa nostra offerta, oramai perfetta, perché non mancante, mercé tua, Signore, di alcun requisito necessario, divenga per noi il nostro vitale nutrimento, non appena si sia trasformata, nel Corpo e nel Sangue di Gesù. (torna su)
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marzo 2015 |