IL PAPA A STRASBURGO

   

di U. T.

L’Unione Europea, il cui Parlamento ha ospitato una recente visita con allocuzione del Santo Padre, incentrata sul grave problema sociale della povertà e della fame nel mondo, ha sempre dimostrato un’evidente vocazione anticristiana.

Nelle imponenti assise europee non sono mai mancati deprecabili segnali d’indifferentismo religioso, quando non di riluttanza e ostilità dell’Unione verso i principi etici, culturali e storici fondanti della matrice cristiana di “nonna Europa”, come l’ha battezzata il Pontefice. Il quale, attento all’umore degli astanti, non ha ritenuto di cogliere l’occasione per rivendicare in quel poderoso consesso di notoria ispirazione massonica la specifica identità cattolica della sua accorata esortazione alla solidarietà e generosità a favore degli ultimi della Terra.

In quel gelido tempio di egoismo, forse, non sarebbe risuonata stonata anche una ferma diffida di condanna dell’ateistica negazione della regalità di Cristo, Signore del mondo e della storia, e un richiamo ai doveri statutari, autenticamente caritativi e salvifici del popolo di Dio, che non sono quelli irenici, melensi e infruttuosi di abbracciare e “sposare” il mondo, ma innanzi tutto di battezzarlo.

In quell’Europarlamento da cui, dopo le passate battaglie contro l’esposizione pubblica del crocifisso, è ormai scomparso il più piccolo simbolo delle nostre radici religiose, mentre il Papa proclamava il suo filantropico monito, signoreggiava il solito pragmatico e plaudente consenso politico degli “illuminati” in ascolto.
La grande assente sembrava però la fede religiosa messa all’angolo ancora una volta dalla ragione.

In quel consesso la teologia ha ceduto il posto ufficialmente all’antropologia, con l’estromissione di Cristo dalla sua posizione centrale dell’universo, per privilegiare l’esaltazione della prioritaria centralità, libertà e dignità dell’uomo. Come se l’uomo fosse una creatura voluta da Dio per sé stessa anziché per Sé stesso.

Ammesso e non concesso, come di recente abbiamo sentito autorevolmente puntualizzare dal pulpito di Santa Marta, che il proselitismo si rivelerebbe una “solenne sciocchezza” e che l’intento apologetico sarebbe incompatibile con la carità e mal si coniugherebbe col dialogo interreligioso, dovremmo ormai accettare che ogni passo della Chiesa e ogni suo membro non ha più la finalità primaria di evangelizzare i propri interlocutori?
Dobbiamo prendere per buona la pessima battuta di padre Nicolas, superiore dei gesuiti, secondo cui al giorno d’oggi “non si può più evangelizzare a colpi di Vangelo”?
Come se la tradizione magisteriale della Chiesa di Cristo, di cui il Papa è vicario in Terra, abbia cessato di ribadire, dopo venti secoli di coraggiosa perseveranza, qual è il senso e il cuore del Cristianesimo. Qual è la quintessenza della missione sacerdotale, ovvero il fine salvifico universale e unico a cui tendono ovunque e sempre, in ogni istante e quindi non a intermittenza per opportunismo e convenienza mondana, tutti gli atti ecclesiali particolari.
Tutti, senza deroghe esperite nel nome della democrazia e di una malintesa carità.
Ci chiediamo se sia lecito per amore di populismo sacrificare la nostra tradizionale coerenza cristiana sull’altare massonico della “standing ovation” di Strasburgo.






novembre 2014

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