IL MESSAGGIO
DELLA FILOSOFIA ROMANA ANTICA
ALL’UOMO D’OGGI

LUCIO ANNEO SENECA

di Don Curzio Nitoglia

gli articoli dell'Autore sono reperibili sul suo sito





LUCIO ANNEO SENECA

Inizio una serie di articoli sul contenuto della filosofia morale stoica romana per vedere quale insegnamento possa dare ancor oggi all’uomo contemporaneo soprattutto europeo, che ha smarrito le sue radici intellettuali, morali ed etniche e ha fatto propria la contro-filosofia soggettivista moderna e nichilista post-moderna.

Seneca (1)  è il più grande dei  filosofi romani. In quest’articolo porgo al lettore un sunto della filosofia di Seneca rinviandolo alla lettura delle sue opere (2).

Il fine del sistema filosofico di Seneca non è la pura speculazione, ma il raggiungimento pratico degli effetti positivi che la conoscenza apporta all’uomo. Il limite di Seneca è la mancanza di una base metafisica al suo sistema etico, che nonostante ciò è assai buono e quasi perfetto (3).

Nella crisi attuale di valori speculativi e morali il messaggio di Seneca è non solo attuale, ma verace e ci fa toccar con mano come la modernità sia notevolmente inferiore al pensiero classico speculativo greco (Socrate, Platone, Aristotele) e giuridico/morale romano (Crisippo,  † 204 a. C; Cicerone, † 43 a. C.; Seneca, †65 d. C.,  Epitteto, † 138 d. C; Marco Aurelio, †180 d. C.) e come il cristianesimo debba abbeverarsi alle sue fonti se non vuol morire essiccato e asfissiato dai rivoli inquinati della modernità filosofica e del modernismo teologico.

Il nostro modo di vedere le cose le rende più brutte di quanto non siano

Secondo Seneca i mali non si trovano tanto nelle cose o negli avvenimenti che ci circondano, quanto piuttosto nella valutazione eccessivamente pessimista che noi ne diamo. Quindi non bisogna modificare le cose in sé, ma il nostro stato d’animo e il nostro modo di pensare.

La filosofia di Seneca ha lo scopo di aiutare l’uomo a modificare la valutazione che dà delle cose e degli avvenimenti che lo circondano per poter far tesoro di quelli avversi come di quelli prosperi finalizzandoli ad uno scopo superiore: il perfezionamento dell’anima e la vicinanza a Dio.

Il valore positivo o negativo delle cose dipende soprattutto dal modo in cui le conosciamo e le affrontiamo. Infatti: “è più felice chi sopporta a testa alta tutto il peso delle avversità. È meraviglioso che qualcuno si sollevi là ove tutti si lasciano abbattere. Cosa c’è di male nelle avversità? Il piegarsi, il venire meno e l’abbattimento dell’animo. L’uomo saggio e virtuoso sta dritto sotto qualsiasi peso” (Lettere a  Lucilio, 71, 26) (4).

La filosofia morale di Seneca cura i mali dell’anima

Come si  vede la filosofia senechiana tende a curare i mali dell’animo umano per addolcirli il più possibile. La “regula capitalissima” che Seneca ci porge è la seguente: “gli uomini che il mondo ritiene felici sono in realtà i più infelici” (Lettere a Lucilio, 64, 8). Infatti la felicità secondo il mondo, insegna Seneca, si basa sul potere e sulle ricchezze, i quali sono falsi beni, pure illusioni, mentre i beni reali sfuggono alla comune opinione degli uomini.

Perciò il bene reale è “un’anima libera che sottomette a sé le altre creature e non si lascia dominare da  nessuna di esse” (Lettere a Lucilio, 124, 11).

Ilemorfismo contro puro materialismo

Tuttavia Seneca resta schiavo di un certo corporeismo, il quale più che stretto materialismo è una sorta di ilemorfismo, che, però, non raggiunge la perfezione teoretica di quello aristotelico data la mancanza di basi metafisiche della filosofia morale senechiana. Secondo lui “tutto  ciò che esiste  è corpo, mentre l’incorporeo non esiste” (Lettere a Lucilio, 106, 4). L’anima, il bene, Dio sono corporei (ivi, 106, 10), una specie di fuoco spiritualizzato.

Infatti la saggezza senechiana ridimensiona la portata materialistica del “corporeismo” degli stoici. Innanzitutto questa questione (puro corporeismo o ilemorfismo) non è di importanza capitale per Seneca poiché essa dipende più dalla erudizione che dalla virtù e per Seneca il primato spetta alla virtù (Lettere a Lucilio, 106, 11). Secondo poi tutto ciò che esiste ha due principi: materia e forma e dunque non si può parlare di puro materialismo senechiano, ma piuttosto di ilemorfismo.

Però Seneca rimane fermamente convinto che questi problemi sono “sottigliezze inutili, simili al gioco degli scacchi” (Lettere a Lucilio, 106, 11). Invece la vera saggezza “non è qualcosa di così complicato, ma è assai semplice” (ivi, 106, 12).

Trascendenza contro immanentismo

Seneca rivoluziona non solo il concetto stoico di corporeismo, come abbiamo già visto, ma anche quello di immanentismo. Infatti la filosofia, secondo Seneca, si può dividere in due parti: quella che riguarda gli uomini e quella che riguarda Dio. “Quest’ultima è più elevata e si innalza molto al di sopra dell’oscurità umana in cui ci dibattiamo e, dopo averci strappato alle tenebre, ci conduce là donde proviene la luce” (Questioni naturali, I, prefazione, 1). Quindi è evidente che in Seneca la trascendenza corregge l’immanentismo dello stoicismo antico. Egli giunge a paragonare i regni degli uomini più eccelsi con tutti i loro eserciti e cavalieri, guardati dall’alto, ad un formicaio circoscritto in uno spazio angusto e poi conclude: “mi renderò conto della limitatezza di tutte le cose solo quando avrò contemplato la grandezza di Dio” (Questioni naturali, I, prefazione, 10). 

Dunque errano coloro (5) che si ostinano a vedere la filosofia di Seneca in maniera panteista e monisticamente immanentista. Altri Autori (6) confutano, e giustamente, questa lettura panteistica della filosofia senechiana e mostrano, con citazioni alla mano, la dottrina della trascendenza di Dio, completamente immateriale e puramente intellettuale, di Seneca. Tuttavia Seneca non è riuscito a sviluppare questi concetti in maniera sistematica. Ciò nonostante egli ha scandagliato l’animo umano nei suoi rapporti con Dio ed ha messo in luce la necessità del rapporto religioso e di preghiera dell’uomo con Dio (Questioni naturali, II, 37, 2). Addirittura Seneca arriva quasi a concepire, anche se in maniera non perfetta, il concetto di grazia santificante e la sua necessità: “Dio è vicino a te, Dio è con te, Dio è dentro di te” (Lettere a Lucilio, 41, 1); “non esiste un’anima virtuosa senza l’aiuto di Dio” (ivi, 73, 15); “se vedrai un uomo puro tra le passioni, sereno tra le avversità, calmo in mezzo alle tempeste, non dirai: «C’è un qualcosa di troppo grande e di troppo elevato, perché lo si possa ritenere simile al corpicciolo in cui si trova?». Una forza divina è discesa in lui. Non può un uomo restare così saldo senza l’aiuto di Dio” (ivi, 41, 3).

Tuttavia egli resta debitore ad un certo naturalismo pagano dello stoicismo, pur se qualche volta corretto e mitigato dalla sua morale assai vicina al neoplatonismo (7).

Il Fato e la Provvidenza

Inoltre Seneca resta debitore allo stoicismo per quel che concerne il problema del Fato o della Provvidenza. Gli stoici parlavano di Fato o Destino in senso stretto, come di una serie irreversibile di cause, la quale costituisce l’ordine necessario di tutte le cose e alla quale non ci si può sottrarre. Ma Seneca, pur restando  debitore di questo sistema, lo corregge alla luce del suo concetto di Dio, il quale non subisce il Fato, ma lo stabilisce. Quindi il Fato stoico, inizia a diventare - con Seneca – simile al concetto della Provvidenza cristiana (La provvidenza, 5, 8; Questioni naturali, I, prefazione, 1, 3).

Il bene, il male e l’indifferente

Il bene, secondo Seneca, è ciò che conserva ed incrementa il nostro essere e la nostra vita; mentre il male è ciò che li danneggia e li diminuisce. Ora l’uomo è diverso da tutti gli altri enti per la sua natura razionale. Quindi bisogna distinguere  nell’uomo ciò che conserva il suo essere animale e ciò che conserva il suo essere razionale. Di conseguenza i veri beni per l’uomo non sono quelli che incrementano il suo essere animale, bensì quelli che conservano ed incrementano il suo essere razionale. Perciò veri beni sono quelli morali, che riguardano l’uomo nella sua natura  razionale e libera e gli permettono di realizzare il suo fine morale e virtuoso nel senso classico del termine poiché  virtù significa attuazione perfetta dell’essenza di una cosa. Al contrario il vero male è ciò che impedisce all’uomo di diventare in atto e perfettamente ciò che è in potenza ed imperfettamente e questo è il vizio (cfr. Lettere a Lucilio, 121, 14-15). Il principio e fondamento dell’etica senechiana è il seguente: per l’uomo il bene è solo la virtù, il male è solo il vizio (ivi, 76, 6).

Quindi se un uomo ha la nobiltà di natali, la salute, la ricchezza, la potenza e la furbizia, ma gli manca la bontà o virtù d’animo e la saggezza, è biasimevole; invece se un uomo è privo di nobiltà di nascita, di salute, di forza, di ricchezza… , ma risulta virtuoso e saggio lo dobbiamo apprezzare: “la virtù e l’onestà consistono nell’avere una ragione retta e libera. Solo la retta ed onesta ragione può rendere felice l’uomo” (Lettere a Lucilio, 76, 16).

I beni materiali sono falsi beni, beni apparenti e per loro natura instabili. Le vesti di porpora non rendono l’uomo felice, è solo la sua anima retta, ragionevolmente onesta, che rende felice e perfetto l’uomo. Seneca fa un esempio: se un attore entra in scena vestito di porpora come un imperatore non per questo è più felice che se vi entra vestito normalmente come un qualsiasi cittadino. Inoltre quando questi attori escono di scena tornano tutti alle loro normali condizioni. Purtroppo ci inganniamo spesso e giudichiamo noi e gli altri in base alla scena che recitiamo sul palcoscenico di questa vita e dimentichiamo che passa svelta la scena di questa vita. Non dobbiamo quindi giudicare gli uomini in base agli ornamenti e ai piedistalli di cui si servono, ma per quello che sono realmente quanto alla loro natura di esseri ragionevoli, liberi e virtuosi: “Un nano non è grande se sale su una montagna, un gigante non è piccolo se sta in fondo ad un pozzo” (Lettere a Lucilio, 76, 31).

I veri beni e i veri mali dipendono sempre e soprattutto dall’interno dell’animo e mai solo dall’esterno.

In mezzo alle virtù e ai vizi vi sono molte cose, connesse col mondo fisico (per esempio, la salute, la ricchezza, la forza, nonché i loro contrari). Ora tutte queste cose non sono né buone né cattive in sé poiché riguardano direttamente il corpo e la vita fisica e quindi non nocciono né giovano alla natura dell’uomo cioè alla sua ragione e alla sua libera volontà virtuosa. Quindi sono indifferenti e diventano buone o cattive se ordinate alla virtù o al vizio. Tuttavia l’anima si può servire di alcuni beni esterni per meglio conseguire la virtù ed allora questi sono, sì, indifferenti in sé, ma possono essere preferiti rispetto ad altri che, non potendo aiutarci a conseguire la virtù, sono da respingere (cfr. tutta la 74a Lettera a Lucilio). Occorre dunque “servirsi di questi beni esterni senza vantarci e attaccarci l’animo, con moderazione e come se ci fossero lasciati in deposito” (Lettere a Lucilio, 74, 18).
In breve le virtù appartengono all’essere o alla natura dell’uomo (la ragione retta e la volontà virtuosa); le cose indifferenti appartengono all’avere o a ciò che l’uomo può possedere senza infangare la sua natura. Infine i vizi riguardano l’avere o i beni esterni che rovinano la saggezza e la virtù dell’animo umano. Si può notare ancora una volta come Seneca abbia mitigato e corretto le tendenze troppo rigide dello stoicismo, il quale considerava le passioni come cattive in sé.

La felicità dell’uomo

Secondo Seneca per conseguire la felicità bisogna vivere secondo ragione e secondo virtù, che coincidono con la natura umana. La felicità è l’armonia dell’uomo con la sua natura di animale razionale, fatto per conoscere il vero, e libero, fatto per amare il bene.

Il sommo Bene consiste nel giudizio e nel comportamento di una mente ottima” (La vita felice, 9, 3).

L’elemento  stoico e naturalistico spesso si affaccia, anche se moderatamente, nel pensiero di Seneca che vede nell’uomo l’artefice della propria vita. Egli scrive: “L’uomo non deve lasciarsi sopraffare dalle cose esterne, ma deve puntare esclusivamente su se stesso, fiducioso nelle sue capacità, artefice della sua vita” (La vita felice, 8, 3).

Ciò nonostante Seneca sente la necessità dell’aiuto di Dio e scrive: “l’animo del saggio deve essere tale da esser degno di Dio” (Lettere a Lucilio, 92, 3).

Lotta tra anima e corpo

La ragione, secondo Seneca, è la parte superiore dell’anima che partecipa parzialmente all’Intelligenza perfetta di Dio, che la cala nel corpo assieme all’anima. L’anima è la parte che domina il corpo. Seneca riprende la concezione dualistica platonica dei rapporti tra anima e corpo e sostiene che il corpo è una triste dimora per l’anima, un fardello, una prigione, un peso, una pena, una catena (Lettere a Lucilio, 65, 16-22).

Tuttavia a Seneca mancava la base metafisica platonica dell’esistenza di un mondo ultrasensibile. Quindi il dualismo anima/corpo rischia di diventare ancora  più forte che in Platone, ma viene attenuato dalla morale medio-platonica alla quale Seneca si ispira. 

L’immortalità dell’anima

Seneca ha avuto diverse e sofferte posizioni sul problema dell’anima e della sua immortalità. Innanzi tutto ha affermato la sua esistenza, ma anche la scarsa capacità umana di conoscere la sua natura (Questioni naturali, VII, 25, 1). La filosofia morale di Seneca arriva alle soglie della conoscenza di alcuni problemi, ma la mancanza di una solida base metafisica gli impedisce di affrontarli e risolverli in maniera sicura. Seneca sostiene che l’esistenza di un aldilà o dell’immortalità dell’anima è una sorta di mito o sogno, ma sorretto da una certa speranza. Egli scrive: “Come riesce fastidioso  a chi fa un bel sogno colui che lo sveglia, così io per crederci mi affidavo all’opinione di grandi uomini, i quali più che dimostrare promettono l’eternità. Dunque mi stavo abbandonando ad una grande speranza dell’aldilà, che oramai provavo disgusto di me, quando sono stato risvegliato dall’arrivo della tua lettera, o Lucilio, e ho perduto un sogno così bello” (Lettera  a Lucilio, 102, 2).

Tuttavia certe volte la “virtù” di Seneca e non la metafisica lo convince dell’esistenza dell’eternità. Infatti scrive, subito dopo la citazione precedente, “questo giorno della morte, che temi come l’ultimo, è quello della nascita all’eternità” (ivi, 102, 22).

Dunque la mancanza della teoresi metafisica in Seneca ha non solo degli svantaggi, ma presenta anche i vantaggi di non giungere alla conclusioni radicali di certe sue posizioni stoiche iniziali (dualismo, corporeismo…), che sono corrette praticamente e col buon senso della morale medio-platonica. 

Il concetto di coscienza

Seneca si rifà alla pratica, già insegnata prima di lui da Sestio e dall’etica popolare romana (8), dell’esame di coscienza quotidiano, il quale obbligandolo a presentarsi ogni dì davanti a sì severo giudice fa in modo che i vizi, se non cesseranno del tutto, almeno si modereranno (L’ira, III, 36, 3). Per Seneca la coscienza è una voce che approva il bene fatto e rimprovera il male commesso. Essa non ha nulla a che spartire con la coscienza soggettiva della modernità, la quale rimpiazza la morale oggettiva e naturale per rendere bene ciò che, pur essendo male in sé, piace a noi (per esempio, se l’aborto in sé  è un male, per me in certe circostanze è un bene e quindi mi è lecito praticarlo). Secondo Seneca il bene è oggettivamente bene, il male è oggettivamente male e la coscienza ci ammonisce o ci elogia se  abbiamo fatto l’uno o l’altro senza cambiare il bene in male e viceversa. Nessuno può nascondersi alla voce della coscienza, anche il malvagio più incallito non può sfuggire a quel giudice incorruttibile che è la voce della coscienza (Lettere a Lucilio, 97, 16). 

Il concetto di volontà

La filosofia greca e specialmente socratica faceva coincidere la virtù con la conoscenza e il peccato con l’ignoranza. Solo con Seneca si arriva a introdurre il concetto di volontà come necessario per rendere un’azione buona o cattiva. La bona voluntas va di pari passo con la virtus. Seneca scrive: “Tutto ciò che può renderti buono è in te. Di cosa hai bisogno per diventarlo? Di volerlo (velle!)” (Lettere a Lucilio, 80, 4). Tale conquista senechiana sarà portata alla perfezione da S. Tommaso d’Aquino.

Infatti San Tommaso insegna: «Penso […] perché voglio pensare» (De malo, q. 6, a. 1; Summa contra Gent., lib. I, cap. 72). Se mi manca la buona volontà non metto a frutto l’intelligenza o la metto malamente a frutto per fare il male. Se non voglio pensare o conoscere, non penso e non conosco. Per cui bisogna coordinare e far collaborare intelletto e volontà senza contrapporli. «Mediante la volontà ci gioviamo di tutto ciò che si trova in noi. Per cui è chiamata buona non la persona intelligente, ma quella che ha la buona volontà» (S. Th., I, q. 5, a. 4, ad 3). Infatti la nostra anima mantiene la grazia infusa da Dio in forza della buona volontà (S. Th., I, q. 83, a. 2, sed contra). La libertà vera consiste nella scelta libera di voler amare Dio e «più amiamo Dio, più siamo liberi» (In III Sent., dist. 29, a. 8, quaestiunc. 3, n. 106, sed contra). Per cui «la vera libertà è libertà dal peccato; mentre la vera schiavitù è la schiavitù del peccato» (S. Th., II-II, q. 183, a. 4). Se l’intelligenza rende l’uomo dotto, la volontà lo fa virtuoso. Il peccato, perciò, è l’obitorio della vera libertà. “Il vero filosofo è colui che ama Dio” (S. Agostino, De Civitate Dei, l. VIII, c. 1); «L’uomo poco sapiente e di scarsa intelligenza, ma timorato di Dio, è migliore di chi è molto intelligente ma trasgredisce la legge divina» (Sir., XIX, 21).

Quindi mentre la filosofia antica divideva gli uomini in saggi e stolti, con Seneca li si distingue in buoni e malvagi a secondo della volontà buona o cattiva che li anima. Addirittura Seneca parla di peccati interni, commessi col solo pensiero e il consenso della volontà: “Tutti i delitti, anche prima dell’esecuzione materiale, sono già completi negli elementi costitutivi di colpa” (La costanza del saggio, 7, 4).

Il peccato e l’uomo peccatore

Seneca ha introdotto un’altra nozione nuova assieme a quella di voluntas bona vel mala: quella secondo cui “non esiste uomo senza peccato” (L’ira, II, 28, 4). Come si vede, anche qui, il principio teoretico del naturalismo stoico è  corretto  dalla sana  morale senechiana.

Sostanziale eguaglianza tra gli  uomini e gerarchia di valori

Seneca sostiene, primo tra i pagani, che la vera nobiltà è conferita non dai natali, ma dalla saggezza e dalla virtù (Lettere a Lucilio, 44, 1). Perciò è “l’animo che rende nobili; ad esso, in qualunque condizione sociale ci si trovi, è possibile innalzarsi al di sopra della sorte” (ivi, 44, 5). La virtù, che è il sommo bene per Seneca, la si può trovare sia in un cavaliere che in uno schiavo.

I beni umani non possono avvicinarsi o assimilarci a Dio perché Dio non ha ricchezze, non ha le armi o la toga, non ha gli schiavi e la lettiga. Solo un animo retto, saggio, grande e virtuoso ci può portare vicino a Dio (Lettere a Lucilio, 31, 11).

Quindi Seneca dà questi consigli ai suoi lettori: “Comportati con chi ti è inferiore come vorresti che si comportasse con te chi ti è superiore. Se imiti gli dèi devi fare del bene anche a coloro che ti sono ingrati: infatti il sole sorge anche per gli scellerati. Sii clemente con il tuo schiavo” (Lettere a Lucilio, 47, 11; ivi, 95, 51; I benefici, IV, 26, 1).

Seneca rappresenta il vertice della morale naturale, che è sorpassato solo dalla rivelazione cristiana. Quindi è importante leggere il cristianesimo romano alla luce della filosofia greca e romana e ritornare ad esse quali vere radici della sana teologia cristiana.

Roma antica e il cristianesimo

Plinio il vecchio († 79) scriveva sulla missione affidata da Dio a Roma antica di condurre tutti gli uomini in un unico consorzio civile e diventare, così, la Patria di ogni popolo (Naturalis historia, III, 3°, 39). Tuttavia tale missione naturale di Roma antica doveva essere perfezionata soprannaturalmente dalla Roma cristiana. Infatti la sola natura sarebbe stata impari a svolgere pienamente tale compito. “La Grazia presuppone la natura, non la distrugge, ma la perfeziona” (S. Th., I, q. 1, a. 8, ad 2); così la Roma cristiana si è formata sulla Roma antica, non l’ha distrutta, ma l’ha perfezionata. Il Cristianesimo in realtà è stato il perfezionatore della Roma antica e non il suo nemico o distruttore, come vorrebbero alcuni pensatori anticristiani. Seneca è la prova provata di tale coincidenza tra filosofia classica e cristianesimo romano. Inoltre tra Seneca e i 10 Comandamenti o le massime morali evangeliche si notano molte somiglianze che ci lasciano sorpresi.

Non si può affrontare il futuro senza conoscere il proprio passato. “Diventa ciò che sei” è un assioma senechiano più attuale che mai. Dobbiamo tornare alla ‘fonte pura’, come “nani sulle spalle di giganti”. Altrimenti ci attende la catastrofe. L’oggi discende dallo ieri e il domani è il frutto del passato. L’avvenire deve poggiare sulle fondamenta presenti ed anteriori e non può reggersi sul nulla.  La Roma antica e la Roma perfezionata soprannaturalmente dal cristianesimo hanno ancora molto da dirci e sono il serbatoio al quale abbeverarci per non morire disidratati o avvelenati dai gas venefici della modernità soggettivista.

Il messaggio della Roma antica, sopraelevata all’ordine soprannaturale dalla grazia della Roma cristiana, non solo è attuale per noi oggi, ma è assolutamente necessario per non essere dispersi e distrutti intellettualmente, moralmente, spiritualmente sia come individui che come Società.

Giustamente Leone XIII ha scritto: “Vi fu già un tempo in cui la filosofia del Vangelo governava gli Stati, quando la forza dello spirito cristiano era entrata bene addentro nelle leggi, nelle istituzioni, nei costumi dei popoli, in tutti gli ambiti dello Stato. […]. Quando procedevano concordi il Sacerdozio e l’Impero”. (Enciclica Immortale Dei, 1° novembre 1885) e San Pio X ha aggiunto: “La Società cristiana è già esistita, non bisogna inventarne una nuova, basta restaurarla ed instaurarla incessantemente contro gli attacchi dell’empietà e della Sovversione” (Lettera apostolica Notre charge apostolique, 25 agosto 1910).  Seneca è  la prova del nove della sintonia (individuale e sociale) e non della opposizione tra il pensiero antico e quello cristiano, entrambi radicalmente contraddetti da quello moderno e contemporaneo.

Che Iddio aiuti la “vecchia Europa” a ritrovare la sua identità sotto l’egida della Roma classica e della Cristianità. Che la morale naturale di Seneca, sopraelevata dal cristianesimo, possa tornare ad informare di sé le famiglie, gli individui e gli Stati distrutti intellettualmente e moralmente dalla contro filosofia moderna (idealismo soggettivista) e contemporanea (nichilismo).

NOTE

1 - Nato a Cordoba in Spagna nel 4 a. C. morto a Roma il 65 d. C. partecipò attivamente alla vita politica di Roma. Fu consigliere di Nerone, ma caduto in disgrazia, fu da lui costretto al suicidio.
2 - Seneca, Tutte le Opere, Milano, Bompiani, 2000.
3 - Cfr. Marino Gentile, I fondamenti metafisici della morale di Seneca, Milano, 1932.
4 - Seneca, Tutte le Opere, Milano, Bompiani, 2000. Le Lettere a Lucilio sono 124 divise in 20 libri.
5 - Cfr. G. Scarpat, Il pensiero religioso di Seneca, Brescia, Paideia, 1977.
6 - Cfr. P. Donini, Le Scuole, l’anima e l’impero, Torino, Rosenberg e Sellier, 1992; G. Reale, La filosofia di Seneca come terapia dei mali dell’anima, Milano, Bompiani, 2003; Id., Storia della filosofia greca e romana, Milano, Bompiani, 2004, 6° vol., pp. 247-321.
7 - Cfr. G. Reale, Storia della filosofia greca e romana, Milano, Bompiani, 2004, vol. 6°, p. 311-313.
8 - G. Reale, Storia della filosofia greca e romana, Milano, Bompiani, 2004, 6° vol., p. 301.



gennaio 2015
































































































































































































































































































































































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