OBIEZIONI CONTRO LEONE XIII

di Don Curzio Nitoglia




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Leone XIII si allontana dalla monarchia
quale migliore forma di governo in sé?


Secondo il pensatore brasiliano Plinio Correa De Oliveira (Il secolo della guerra, della morte e del pericolo, tr. it., in Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, Milano, Sugarco, 2009, pp. 209-217) Leone XIII, con l’Enciclica Au milieux del 1892 avrebbe voluto 1°) riconciliarsi con la modernità, della quale non aveva penetrato la natura rivoluzionaria, e 2°) allontanarsi dalla monarchia, quale migliore forma di governo in sé considerata, per accettare i princìpi della repubblica massonica francese.

Le tendenze di Leone XIII sono catto-liberali?

Inoltre, sempre secondo il dr. Plinio, il Pontificato leonino rappresenterebbe una svolta ideologica rivoluzionaria e un nuovo spirito, se non una nuova dottrina, non liberale de jure, ma cattolico-liberale nelle tendenze e nei fatti poiché a-monarchica se non addirittura anti-monarchica (v. Plinio Correa  De Oliveira, Nobiltà ed élites tradizionali, cit., pp. 151 ss.) (1) .

RISPOSTE

Leone XIII e Pio XI non sono catto/liberali

Il cattolicesimo-liberale è un liberalismo reale e un “cattolicesimo” soltanto verbale. Esso vorrebbe coniugare cattolicesimo con liberalismo, ossia sottomissione a Dio con liberazione da Dio. Esso è “la contraddizione stessa sussistente”.

La separazione tra Stato e Chiesa non è presentata dai catto-liberali come una verità di diritto, ma come una convenienza di fatto. Ora anche ciò è contraddittorio. Infatti i princìpi sono regole teoriche che guidano l’azione pratica e come tali vanno applicati in concreto; invece i catto-liberali li accettano, o dicono di accettarli, come puri princìpi speculativi, ma non vogliono metterli in pratica, poiché non utili o sconvenienti di fatto.

Questa contraddizione evidente porta i catto-liberali ad ammettere di diritto le Virtù e i Comandamenti, ma al rifiuto pratico di viverli, poiché non convenienti. Ecco come l’immoralità di diritto, e non per fragilità, è entrata in ambiente cattolico ed ecclesiale, e ne constatiamo i tristissimi esempi odierni che sono i frutti del liberalismo e del modernismo e non solamente del peccato originale.

Tale incoerenza co-essenziale al cattolicesimo liberale lo porta immancabilmente ad ogni sorta di compromesso per poter sopravvivere. La sua natura è quella di “negoziare, colloquiare”. Ma la sua sconfitta è sicura, poiché le contraddizioni generano le rivoluzioni e queste lo spargimento di sangue.

Il trinomio liberale “Libertà, fraternità e uguaglianza” della Rivoluzione francese è la sintesi di tale spirito contraddittorio. Infatti l’assoluta libertà individualistica del liberalismo uccide l’uguaglianza sostanziale (che non esclude le disuguaglianze accidentali) degli uomini creati da Dio e ordinati a Dio, in quanto il liberalismo vuole liberare l’uomo da Dio. Inoltre la libertà assoluta uccide la vera fraternità che è l’amore reciproco di benevolenza tra gli uomini, tutti sostanzialmente figli di Dio e fratelli tra loro, e la rimpiazza con la libera concorrenza poiché il liberalismo vuole eliminare ogni dipendenza da Dio e quindi la figliolanza da parte dell’uomo, la paternità da parte di Dio e la fratellanza degli uomini tra loro.

Pio IX (Quanta cura e Syllabus, 1864) ha capito molto bene la natura perniciosa del cattolicesimo/liberale ricondannato poi da Leone XIII (Enciclica Libertas, 1888), trasformatosi sotto S. Pio X nel ‘Partito Popolare’ e sotto Pio XII  nella ‘Democrazia cristiana’, condannata già da Leone XIII (Enciclica Graves de communi re, 18 gennaio 1901), poi da S. Pio X (Enciclica Notre charge apostolique, 25 agosto 1910) ed in fine da Pio XII (Radiomessaggio natalizio, 24 dicembre 1942).

Questo errore consiste nel professare con la bocca la dottrina cristiana e la Restaurazione dell’ordine, mentre coi fatti o col cuore (come già rimproverava Gesù ai farisei) si è lontani da esse. Papa Mastai ci ha insegnato che «la forza dei cattivi non viene solo da loro, ma anche dai “buoni” in apparenza, che tendono loro la mano e si sforzano di congiungere luce e tenebre, Cristo e Belial,  per mezzo di dottrine che chiamano “cattolico/liberali” […]. Costoro sono molto più pericolosi e più fatali dei nemici aperti, […] poiché presentano un’apparenza di bontà, di moderazione e di sana dottrina, che inganna gli imprudenti amatori della conciliazione, e trae in inganno gli onesti, i quali si opporrebbero all’errore aperto» (Lettera al Circolo S. Ambrogio di Milano, 6 marzo 1873).

I conciliazionisti per principio o i catto-liberali sono una categoria a parte che, pur professando de jure o con la sola bocca la dottrina cattolica, de facto vive in maniera sovversiva o è dominata dallo spirito della Sovversione. Ma questa attitudine non può assolutamente applicarsi né a Leone XIII, né a Pio XI, né a Pio XII.

L’origine del potere

Il potere, secondo la dottrina cattolica, viene mediatamente da Dio al capo, passando attraverso il popolo come canale. Dio sceglie un individuo cui conferisce il potere (2); infatti l’autorità viene da Dio come da causa remota, ma Dio non manifesta (per sé o normalmente) direttamente quale sia la persona che debba esercitare il potere (può farlo eccezionalmente o per accidens, ma in filosofia si considera il per sé).

Francisco Suarez insegna che “Nessun monarca ottiene il suo potere immediatamente da Dio; ma mediante la volontà degli uomini” (3).

Monarchia di diritto divino

La Monarchia di diritto divino, in cui il re ottiene il potere direttamente da Dio, si presta ad una duplice interpretazione: a) il potere deriva, come da fonte remota, da Dio, e questo è di Fede: “ogni potere viene da Dio” (Rom., XIII, 1); b) l’autorità regale deriva direttamente al Principe da Dio, quindi è sciolta (assoluta) da ogni legame o dipendenza (dal Papa, dalla Chiesa e dal popolo, anche quando il monarca diventa un tiranno).

Coloro che criticano Leone XIII cadono nell’equivoco di attribuire alla monarchia temporale del Nuovo Testamento l’attributo “di diritto divino” come se essa giungesse al re direttamente da Dio e non tramite il Papa.

Infatti solo il Papa riceve direttamente il potere da Dio, dopo esser stato eletto dai cardinali, che non gli trasmettono alcun potere, neppure come canale; ma che designano solo una persona, alla quale Dio direttamente dà il potere, mentre il re (o qualsiasi autorità temporale) riceve il potere da Dio mediatamente. Quindi se si vuole utilizzare il termine ‘monarchia di diritto divino’, occorre specificare: mediatamente divino.

Potere delegato dal “popolo canale”

È la tesi insegnata comunemente dai Padri della Chiesa sino alla scolastica di  S. Tommaso e dalla teologia controriformistica di Bellarmino e Suarez sino al Diritto Pubblico Ecclesiastico del post-Vaticano I (Cavagnis, Cappello, Ottaviani).

La scelta del capo appartiene al corpo sociale, come sanior pars, di modo che l’autorità lavori per il bene comune. Occorre specificare che il popolo (che non è la massa amorfa) “ha” il potere solo per comunicarlo al capo, ossia il popolo è soggetto imperfetto o transitivo o “viale” del potere, mentre il capo è soggetto perfetto e permanente di esso; il capo detiene stabilmente il potere come suo; una volta datogli, esso non può essere ripreso dal popolo a suo capriccio (tranne il caso di tirannia). Il capo non è il deputato o rappresentante del popolo. Egli ha stabilmente l’autorità, che gli viene, mediante il popolo-canale, da Dio.

Questa è la dottrina scolastica e cattolica o teoria tradizionale del potere-delegato, come la si chiama in etica sociale. Dio è fonte remota di potere, il popolo ne è solo canale di traslazione; e, siccome la comunità, normalmente, non sa, perfettamente e stabilmente, esercitare il potere, ecco la necessità di scegliere una persona (o più, a seconda delle forme di governo) alla quale trasferire il potere e nella quale il potere resta stabilmente.

Le tre forme di governo

San Tommaso (4) insegna che le possibili forme di governo sono tre: monarchia, aristocrazia, politeìa (oggi ‘democrazia’ classica, essenzialmente diversa dal ‘democratismo’ moderno di Rousseau). Egli considera la monarchia come la prima forma di governo (il governo di uno solo) che, però, può degenerare in tirannia. La seconda forma di governo considerata dall’AQUINATE è l’aristocrazia (governo dei migliori) che può degenerare in oligarchia, ossia tirannia di pochi. La terza forma è la politeìa (governo dei magistrati o dei cittadini/militari) o timocrazia (governo in cui le cariche sono assegnate in base all’onore e alla forza della sanior pars populi), la quale può degenerare in democratismo o democrazia moderna (tirannia del popolo). Oggi, in luogo di politìa o di timocrazia, è prevalso l’uso della parola democrazia, che per i classici e gli scolastici aveva già di per sé una valenza negativa e che può degenerare in demagogia, come si dice comunemente oggi.

La miglior forma di governo

Secondo la tradizione scolastica e l’insegnamento del Magistero, compreso quello di Leone XIII, la migliore forma di governo è quella mista, data la malizia dell’uomo, ferito dal peccato originale, che facilmente è portato a degenerare. È quello che non vogliono ammettere i detrattori di Leone XIII, i quali lo criticano per il presunto difetto della sua scarsa simpatia verso la monarchia, mentre sono proprio loro ad errare per eccesso non riconoscendo i limiti della forma di governo monarchica, migliore in sé, ma incarnata in uomini feriti dal peccato originale.

Nella Somma Teologica (I-II, q. 95, a. 4) San Tommaso scrive: “vi è un certo regime, che è un misto di queste tre forme, il quale è il migliore”. Ed ancora: “la migliore forma di potere è bene temperata dall’unione della monarchia, in cui comanda uno solo, e dall’aristocrazia, in cui comandano i migliori o i virtuosi, e dalla democrazia, che è il potere del popolo, in quanto i Principi possono essere scelti nella classe popolare e possono essere eletti dal popolo stesso” (S. Th., I-II, q. 105, a. 1, in corpore).
Ogni buon regime deve, dunque, essere misto e radicato nel principio del popolo-canale, che trasmette compiti e funzioni di governo ad uomini atti, preparati ed onesti (i migliori); mentre al vertice, la suprema unità di governo appartiene ad un uomo prudente e maturo (il monarca).

San Tommaso, riprendendo l’insegnamento di Aristotele (5), sottolinea che la monarchia è più nobile dell’aristocrazia e che questa lo è più della democrazia. Tuttavia San Tommaso mette in guardia dai pericoli della monarchia, non in quanto pericolosa in sé bensì a causa della malizia dell’uomo. Si può dunque concludere che la più nobile forma di governo, la monarchia, è bene che sia temperata dall’aristocrazia e della timocrazia o democrazia (ovviamente non la democrazia moderna, secondo la quale il potere non deriva da Dio ma dall’uomo).

Questo è l’insegnamento della filosofia perenne aristotelico/tomistica e del Magistero ecclesiastico, specialmente di Leone XIII, mentre coloro che fanno della monarchia in astratto o in sé considerata l’unica vera e buona forma di governo semper et ubique senza alcun limite e difetto e non la considerano anche in concreto ossia incarnata in una persona, il tal re (per esempio, Saul, Filippo il Bello, Luigi XIV, Enrico VII, Enrico VIII, Vittorio Emanuele II e III), che la esercita con tutti i limiti e i difetti di un essere umano, peccano di eccessivo attaccamento alla monarchia e possono essere giustamente condannati per “peccato di monarchia”. Non è quindi Leone XIII ad errare almeno in pratica, ma sono i suoi critici che errano in teoria e in pratica.

Nella sua opera De regimine principum San Tommaso spiega essere necessario che gli uomini, vivendo in società, siano governati da qualcuno: “se è naturale per l’uomo vivere in Società, è necessario che fra gli uomini ci sia qualcuno che governi il popolo. Infatti, quando gli uomini sono in molti, se ognuno provvedesse soltanto a ciò che gli serve, il popolo si frantumerebbe nei suoi componenti, qualora non ci fosse chi si occupasse anche del bene comune; così come l’uomo si dissolverebbe se nel corpo non ci fosse una facoltà coordinatrice generale (il cervello) rivolta al bene comune di tutte le membra […]. Se una moltitudine di uomini è ordinata dal capo per il bene comune di tutti, il governo sarà retto e giusto. Se invece il governo è ordinato non al bene comune, ma al bene privato del capo, sarà ingiusto e perverso” (6).

L’Aquinate spiega, inoltre, che è più utile che una moltitudine di uomini sia governata da uno solo piuttosto che da molti. Ciò in quanto l’uno per essenza può garantire l’unità meglio di molti individui. Dunque è più utile il governo di uno solo che di molti.
Ma SAN TOMMASO, a differenza dei detrattori di Leone XIII, mette in guardia dal pericolo che anche la migliore forma di governo, a causa delle conseguenze del peccato originale, possa degenerare e diventare tirannia di uno solo che è peggiore della tirannia di pochi (oligarchia) così come questa è peggiore della tirannia di molti (demagogia). Alla cosa migliore si contrappone quella peggiore ed un governo è tanto più ingiusto quanto più si allontana dal bene comune, come quello di un solo tiranno.

Quindi l’obiezione rivolta a Leone XIII di a-monarchicismo, filo-liberalismo e  repubblicanesimo cade ed anzi si ritorce contro i suoi critici, che mancano del senso delle distinzioni (7).

Conclusione

«Leone XIII fu un Papa colto, ottimo conoscitore di S. Tommaso, sensibile alle sfide non solo sociali e politiche, ma anche religiose, filosofiche e ideologiche che la modernità aveva lanciato alla Chiesa. Leone XIII nel suo lungo Pontificato non si accontentò soltanto di arginare i pericoli che minacciavano la Chiesa, ma si propose anche di elevare il livello culturale del clero e dei fedeli, di promuovere gli studi filosofici, teologici e biblici di trasformare e ricristianizzare dall’interno le strutture della Società civile, infondendo in esse un’anima cristiana che era venuta meno. Il programma di Leone XIII è essenzialmente quello della ricristianizzazione del mondo moderno» (B. Mondin, Storia ella Teologia, Bologna, ESD, 1997, 4° vol., p. 249).

Leone XIII sa benissimo che la modernità è nemica della Chiesa (“la malizia del tempo in cui viviamo”, Enciclica Aeterni Patris, 1879) e non vuole cedere ad essa, ma la vuol combattere non solo condannandola, bensì anche confutandola alla luce dei princìpi della filosofia perenne. Nella sua prima Enciclica (Inscrutabili Dei consilio, 1878) egli stabilisce il suo programma che è quello di ricostruire e restaurare una nuova Civiltà dandole come tessuto principale e come anima i valori e la filosofia del Vangelo poiché la Società moderna “è caratterizzata da un universale sovvertimento dei princìpi dai quali, come da fondamento, è sorretto l’ordine sociale”.
Come si vede, papa Leone non aveva assolutamente in mente la riconciliazione con la modernità, ma la sua sconfitta tramite la confutazione dei falsi princìpi sui quali essa si fondava per potere restaurare la Cristianità avversata dalla modernità e dalle sette dirette dal giudaismo talmudico (cfr. R. Taradel - B. Raggi, La segregazione amichevole. «La Civiltà Cattolica» e la questione ebraica, 1850-1945, Editori Riuniti, Roma, 2000, pagg. 124-155) (8).

I princìpi sui quali restaurare la Cristianità sono quelli della filosofia tomistica (Enciclica Inscrutabili Dei consilio, 1878 e Aeterni Patris, 1879), sulla quale papa Pecci fonda anche tutto il suo corpo magisteriale: sociale, ascetico, biblico, antirivoluzionario, antimassonico, politico…

Il rilancio del tomismo, in Leone XIII, non è qualcosa di meramente intellettuale, rosmianianamente inteso quale “fede come cultura”. No! Il suo non è un tomismo da professori, ma è finalizzato alla restaurazione della Società cristiana e di tutta la scienza sacra (dall’esegesi alla teologia, dal diritto pubblico ecclesiastico all’ascetica antiamericanista, dalla questione sociale a quella politica dei rapporti tra sudditi e governanti, dal matrimonio alla lotta antimassonica, dalla vera libertà al liberalismo come deficienza e abuso di libertà).

Leone XIII aveva capito che la restaurazione della Società passa per la restaurazione dell’intelligenza e della volontà dell’individuo poiché le famiglie son formate da individui e gli Stati dalle famiglie.

Quindi l’obiezione mossa contro papa Pecci cade.



NOTE

1 - Cfr. anche J. Madiran, Les deux démocraties, Parigi, NEL, 1977, pp. 79-100.
2S. Th., I-II, q. 90, a.3.
3Defensio fidei, III, cap. 2, Conimbricae, 1613.
4S. Th., I-II, q. 95, a. 4; ivi, q. 105, a. 1, in corpore; Suppl., q. 37, a. 1, ad 3; I-II, q. 50, a. 1, ad 3.
5 VIII Etica, cap. 10, lect. 10.
6 -  Lib. I, cap. 14.
7 -  Addirittura un sacerdote francese (Charles Maignen) è arrivato a teorizzare la sede vacante durante il Pontificato di Leone XIII da lui sospettato di eresia a causa del Ralliément in due suoi scritti inediti (Du pouvoir indirect du Pape dans l’ordre politique; Un Pape légitime, peut-il cesser d’etre Pape?) che si trovano negli Archivi della Congregazione dei Fratelli di San Vincenzo de’ Paoli. “Parvus error in principio fit magnus in fine”. Come si vede per qualcuno la forma monarchica di governo non è solo una delle tre possibili e la migliore in sé, pur se temperata quanto alla malizia umana dalle altre due, ma è un dogma di Fede e il solo minimo scarto da una sua applicazione stretta, senza ‘se’ e senza ‘ma’ costituisce una eresia. Cfr. E. Poulat, Catholicisme, démocratie et socialisme, Parigi, Casterman, 1977,  pp. 107, 363, 377, 384, 513.
8 - Cfr. R. Aubert, Aspetti della cultura cattolica nell’età di Leone XIII, Roma, 1961.

 






febbraio 2015

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