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ATEISMO = DIO CON NOI Ovvero: sono ateo grazie a Dio di
L. P.
Domenica 15 febbraio 2015 Papa Bergoglio ha tenuto, nella Basilica di San Pietro, un solenne Concistoro durante il quale ha conferito la dignità cardinalizia a 20 prelati. Ricorreva la VI Domenica del Tempo ordinario/B e, così, prendendo ovvio spunto dalla liturgia della Parola, ha commentato il passo evangelico – Mc. 1, 40/45 – in cui si narra della guarigione del lebbroso. Nell’omelìa, il pontefice ha evidenziato come Gesù vada incontro a chi è emarginato e abbandonato, a chi, per ragioni culturali e, in questo caso, cliniche, vien tenuto a distanza dal corpo sociale, cioè al malato contagioso. Un’omelìa che, seppure letta in un testo trasmesso in termini sintetici, ci trova piuttosto allineati e in piano consenso con il Papa anche se, in taluni passaggi, per via di una generica ambiguità sintattica, par di comprendere che la segregazione del lebbroso, le procedure da rispettare per l’accertamento dell’avvenuta guarigione, siano per lui norme vessatorie emanate a scopo penitenziale ed espiatorio, dimenticando che esse provengono direttamente da Dio, trasmesse a Mosè e che Gesù impone di rispettare. Ma non è questo il nodo dottrinario sul quale potremmo intervenire in altro tempo. Ciò che, invece, ha destato la nostra attenzione è stato un passaggio, che la stampa definisce “a braccio e fuori del testo scritto” – uno dei tanti che al Papa accade di tenere in terra o in alta quota – in cui ha affermato che “il Signore è presente anche in coloro che hanno perso la fede o che si sono allontanati dal vivere la propria fede o che si dichiarano atei” (Corriere della Sera on line – 15 febbraio 2015 – h. 11:18), un periodo che altre testate hanno efficacemente riassunto con “Dio c’è anche negli atei”. Pare evidente che il Pontefice abbia voluto assimilare queste categorie – i malati nello spirito - alla figura dell’emarginato, del periferico o del lebbroso, sul che non abbiamo nulla da eccepire quanto allo stato di reale emarginazione di coloro che conducono un’esistenza priva della fede, lontani cioè da Dio, al di là dei “margini di salvezza”. Riteniamo, invece, del tutto gratuita e non corrispondente al vero l’espressione “il Signore è presente in” sì da dover essere corretta. Allo scopo, allora, di non essere fraintesi o tacciati di pedanteria sintattica, e soprattutto di scarsa preparazione, spieghiamo il perché. Non ci attarderemo, intanto, a riportare quanto sull’ateismo si è scritto e si è detto, sulle varie forme con cui esso di affaccia nella storia individuale e sociale sufficiente essendo sapere che siffatta cultura si sostanzia e si manifesta per diverse tipologìe ideologiche come : scetticismo, nichilismo, materialismo, immanentismo, antropocentrismo, naturalismo, agnosticismo, dottrine tutte che, pur nella singolarità fenomenologica di ciascuna, rampollano da una comune matrice culturale: la netta negazione di Dio in quanto Essere Infinito e Trascendente, Causa prima, Creatore, Padre e Giudice. Ateo, pertanto, è colui che, rimosso financo l’embrione di un’idea di Dio, fa di se stesso, o del nulla, o della materia l’elemento certo, unico e verificabile. Ateo, è colui che, secondo l’etimologìa del termine, è “senza Dio”. Naturalmente, con tale qualifica intendiamo esattamente colui o coloro che rifiutano l’esistenza di Dio pur avendone ricevuto e conosciuto l’annuncio. Soltanto in questa dimensione è lecito parlare di ateismo come stato di peccato grave. Ed, infatti, è San Paolo che si pone la ,domanda: “Quomodo credent ei quem non audierunt? Quomodo autem audient sine praedicatione?” (Rom. 10, 14) – come crederanno a Colui del quale non hanno sentito parlare? E come ne sentiranno parlare senza che alcuno ne predica? - Dante ne farà una mirabile parafrasi di connotazione tomista (S. Th. I,q. 23 a. 5 ad 3um) in Par. XIX, 70/90. Da ciò è facile dedurre, nella e alla luce del monito evangelico “Chi non crede sarà condannato” (Mc. 16, 16), che tale condizione esistenziale dice che Dio, per il fatto di essere consapevolmente negato dal soggetto, non risiede in quel soggetto poiché, laddove regna una condizione di peccato grave – e l’ateismo è tale specialmente quando è praticato, predicato e imposto in antitesi al messaggio rivelato - Dio, il “tre volte Santo”, non può abitare in condominio col suo avversario. Laddove permane l’assenza di Dio domina la presenza di Satana. E ciò determina che l’ateismo, specialmente quello di Stato – cfr. i regimi comunisti – si connota per un attivo programma di ribellione che deriva la sua forza proprio dalla invisibile mano di Satana, il primo ribelle, padre di menzogna ed omicida. Le infami gesta dei repubblicani spagnoli – guerra civile 1936/37 – con cui furono rase al suolo chiese, fucilati preti, suore, seminaristi, laici, bombardate le statue di Cristo Re son l’esempio, tra i tanti che il repertorio storico ci fornisce, della firma di Satana. Ma l’ateo, considerato nella sua indifferenza, quella di cui si vantava Bertrand Russell, proprio per la totale ricusazione d’ogni principio trascendente e normativo non si dovrebbe porre il problema dell’inesistenza di Dio e disprezzare o perseguitare chi invece ne riconosce l’esistenza. Tuttavia, la maggior quota degli atei vive un quotidiano impegno “apologetico” nel dimostrare, per lo più in forme irruente, aspre e spesso irriguardose, la Sua inesistenza come ben dimostra l’apostolato laico che, in tal senso ha caratterizzato la vita e l’opera di Voltaire. Una condizione culturale e comportamentale che rivela quanto difficile sia, per l’uomo, scalzare Dio o la sua idea, dalla coscienza. Prova di questo ossimoro è offerta da Maurizio Blondet che, nel suo “Gli Adelphi della dissoluzione – strategie culturali del potere iniziatico – Ed. Ares 1994 pag. 106”, ci racconta che «nel 1932, Daumal compose un Poème à Dieu et à l’Homme. Un poema “blasfemo”, nei termini di un marxismo neppure violento, quanto piuttosto delirante, rivolto contro religioni e chiese. Ma quando Daumal cercó di farlo pubblicare dalla rivista comunista Cahiers du Sud, ricevette un rifiuto. E nel restituire il manoscritto, il direttore dei Cahiers, Jean Ballard (uno stalinista monolitico) replicava a Daumal: “La ragione non è propriamente lo scandalo, è una ragione di principio. Da noi non si parla di Dio, lo si ignora. Rispetto a lui siamo di un’indifferenza totale. E siamo un poco sorpresi di vederlo attaccare così fortemente, di vederlo creare e materializzare dalla sua voce. Parola mia, lei gli conferisce l’esistenza, ed è grave… tutto ciò mi sembra qualcosa come una contro-religione, ma ancora un omaggio alla religione” ». Il comunista Ballard precisa in modo netto quale debba essere la figura del vero ateo, colui che non si pone il problema ma che, tuttavia – come la storia del comunismo dimostra – ne soffoca e ne perseguita ogni minima insorgenza nelle altrui coscienze. “Sono ateo, grazie Dio”, sarebbe la logica conclusione a cui dovrebbero pervenire, con Luis Buñuel, il giovane satanista René Daumal e quanti si adoperano attivamente a diffondere il verbo ateistico. E ringraziare Dio, e la sua “inesistenza” dovrebbero i varî Onfray e Odifreddi se hanno avuto modo – disgraziatamente per loro! – di assurgere a maestri di ateologìa lucrando beneficî e riconoscimenti da questa società scristianizzata nonché qualche strizzatina d’occhi da parte di talune frange di “cristiani adulti” – variante astuta ma ipocrita di “adulteri” - che in essi hanno visto la compagnìa ideale con cui camminare in fraterno dialogo, ma senza intenzione alcuna di conversione. Quattro passi ed altrettanto chiacchiere, niente di più niente di meno. Come testimonia il propagandato scambio epistolare intercorso tra l’emerito Papa, cardinal J. Ratzinger e il citato, matematico ex seminarista, P. Odifreddi. Su questa supposizione, infatti, cioè sul presumere che l’ateo sia qualcuno che, col negare Dio, ne afferma l’esistenza dimostrando la di Lui presenza – e la questione è in verità piuttosto complessa - sono stati condotti, in questi ultimi decenni, ad opera della Chiesa cattolica, due esperimenti bombastici ed ottimistici nelle intenzioni ma sterili, insignificanti e soprattutto controproducenti per gli esiti sortiti. Parliamo di due iniziative partorite col forcipe conciliare di quella che passa come “nuova evangelizzazione” destinata, secondo i fondatori, a tirar fuori la Chiesa dall’arretratezza culturale in cui giace da oltre “duecento anni”. La prima di esse fu la “Cattedra dei non credenti”, nata per moto ecumenistico del cardinale Carlo Maria Martini nell’anno 1987, con il compiacente e beneaugurante avallo di GP II, e spirata nel 2002 allo scoccare del pensionamento del suo ostetrico. Per tutti questi anni, nell’aula magna dell’Università di Milano, si sono avvicendati, su temi di alto profilo intellettuale, cosa tipica delle personalità elette e cenacoliere, credenti ed atei: Massimo Cacciari, Giulio Giorello, Edoardo Boncinelli, Enzo Bianchi, Paolo de Benedetti, Angelo Casati, Marco Vigevani, Sergio Sabbadini e tanti ancora. Roba, insomma, per palati fini ove ciò che interessava – stando ai risultati, nulli in termini di conversione – era per ciascuno il proporsi in stile autoreferenziale con appendici editoriali abbinate a taluni quotidiani. Gli atei rimasero atei e i credenti un po’ meno credenti dal momento che, secondo il cardinale citato che amava citare Norberto Bobbio, “non è questione di credere o non credere, ma di pensare o non pensare”. Non più il “credo ut intelligam” e men che meno l’“intelligo ut credam”, ma solo il cartesiano “cogito ergo sum”, o peggio, il kantiano “Ich denke” – io penso. Ma poiché con la sola ragione, priva cioè dell’illuminazione della grazia divina, non è possibile raggiungere il livello di una fede ferma ed inconcussa, gli atei di quella cattedra rimasero atei e razionalisti. La seconda tappa del movimento ecumenistico/culturale si intitola “Cortile dei Gentili”, promotore Benedetto XVI e braccio suo destro il cardinale Gianfranco Ravasi, titolare del Pontificio Consiglio della Cultura. Le cronache ci hanno descritto le mirabilia, in termini di erudizione e di sapienzialità, sprillate nel convegno di Assisi – 5/6 ottobre 2012 – sul tema “Dio, questo sconosciuto” e, di subito, edite a gloria degli autori. Merce di finissima qualità per gli specialisti della cittadella, proibita al popolo del contado periferico. In quella sede – Assisi, come già nel 1986 – paganesimo, protestantesimo, darwinismo, comunismo, agnosticismo, le varie forme, cioè, dell’ateismo,hanno stipulato e sancito con il cattolicesimo un reciproco patto di non aggressione e ne è scaturita una nuova e più moderna forma di evangelizzazione: l’ateo resta ateo e il credente resta credente fatto salvo il mutuo rispetto delle proprie posizioni. Ed infatti, che cosa aveva confidato, già prima dell’evento, il deus ex machina dell’impresa, il cardinal Ravasi alla rivista F. C. (Famiglia Cristiana – 07/02/2011)? D – Volete, eminenza, convertire gli atei?
R – No! Il Papa (B. XVI) viene da una cultura, quella tedesca ove la teologìa è considerata scienza a tutti gli effetti, e in Germania un Cortile è stato sempre aperto. Ma ho visto che purtroppo in Europa soprattutto tra laici e cattolici il linguaggio è sempre più autoreferenziale (!). Se manca il dialogo, non si va da nessuna parte”. Non suscita, pertanto, meraviglia se, nella scia di tale pista, Papa Bergoglio abbia confidato a Eugenio Scalfari che “il proselitismo è una vera sciocchezza” (La Repubblica, 11 settembre 2013), che il suo compito, quello di Vescovo di Roma, non è di convertire gli atei dacché è preferibile, meno coercitivo ma più intonato alle categorie dell’aggiornamento e del rispetto, “fare un tratto di cammino insieme”, quasi che la sostanza della conversione sia fare due passi nel parco e, poi, tutti a casa. Vorremmo far notare al lettore che, contrariamente a quanto asserisce il cardinal Ravasi, la teologìa come l’intendeva, e l’intende ancora l’emerito papa, il tedesco cardinal Ratzinger, non è qualcosa di unico ed esclusivo della scuola germanica perché è la stessa del Papa argentino. L’emerito collima con il successore all’ombra del Concilio. Sicché, questa mentalità che s’è venuta a diffondere, per la quale l’ateismo è paradossalmente uno stato virtuoso di cui non si sente l’urgenza di un’inversione col condurre, cioè, il soggetto alla fede, ha determinato la convinzione che ateo o non ateo non importa, ciò che vale è l’asse della propria coscienza eretta, sempre secondo il parere autorevole di papa Bergoglio, a giudice esclusivo che valuta il rapporto bene/male nel modo che maggiormente le consuona. Questione di buona fede e conseguente rottamazione del Decalogo. Dovendo esprimerci sinteticamente, diciamo che l’ateismo di cui parliamo, e di cui parla il Papa, è quella condizione di spirito in cui la persona vive, priva della presenza di Dio, avendo, per cosciente scelta, deciso di non credere all’annuncio della Verità rivelata e, quindi, rifiutare Dio. Ne deriva un sillogismo secondo cui, posto Iddio sommo Bene e la felicità dell’uomo essendo nella Sua presenza, ne consegue che la Sua assenza altro non è che il male, cioè lo stato di peccato mortale, l’infelicità. E in simile condizione Dio “non è nell’ateo”. E, allora, concludendo, noi vorremmo, con umiltà e secondo lo spirito del canone 212 § 3 del CDC, suggerire al Papa opportuna correzione, facendogli presente che non è ortodosso affermare che “Dio è presente anche negli atei” ma diversamente, che “Dio è presente anche per gli atei”, vale a dire che Dio, non negandosi ad alcuno, è pronto a darsi per coloro che lo cercano e lo vogliono in termini di umiltà, di sincerità e di buona volontà. E non si tratta di grammatica o di mere preposizioni articolate, ma di logica e di Verità. (torna
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febbraio 2015 AL PONTIFICATO DI PAPA FRANCESCO |