LIBERTÀ VA CERCANDO . . .
  
di L. P.





Con queste parole Virgilio, uscito dall’Inferno ed approdato sull’isoletta del Purgatorio con Dante, chiede a Catone, custode del luogo, il permesso di visitare le balze della sacra montagna onde il suo assistito possa, nella rassegna delle pene purificatrici, ottenere la libertà dei figli di Dio (Purg. I, 71).
E questa bellissima invocazione ci è, per contrasto di cui diremo in appresso, volteggiata nella mente quando abbiamo letto di un’intervista, concessa da Papa Bergoglio alla tv messicana Televisa e riportata da liberoquotidiano.it in data 13 marzo 2015, oltre che da altre testate, e che proponiamo ai lettori nella forma abbreviata:

«Papa Francesco ha la sensazione che il suo sarà un pontificato breve. In una intervista alla tv messicana Televisa, Bergoglio – che festeggia il secondo anno da Pontefice  - ha ammesso, secondo quanto riportato da Radio Vaticana, che sente la mancanza di poter girare liberamente, magari per poter andare in pizzeria senza essere riconosciuto. E su quella misteriosa profezìa che non durerà molto, ha aggiunto: “Però potrei sbagliarmi”. All’intervistatrice che ha accennato all’eventualità di un ritiro per limiti di età, il Papa ha risposto di non condividere un’evenienza del genere per la figura del Pontefice (ha definito il papato una “grazia speciale”) ma ha anche detto di apprezzare la strada aperta da Benedetto XVI sulla figura del Papa emerito. “Una scelta coraggiosa” come “coraggiosa” fu la decisione di avere reso pubblica la gravità degli abusi commessi da esponenti della Chiesa ai danni dei bambini. Dal Papa, come riferisce sempre Radio Vaticana, critiche all’incapacità del clero di coinvolgere i laici a causa di un eccessivo clericalismo. Nella conversazione, Bergoglio ha affrontato anche il tema della riforma della Curia, non tanto la forma di quella che definisce “l’ultima corte” d’Europa, ma la sostanza».
  
Un brevissimo condensato in cui brillano sciatte amenità, gravi cadute di stile, eversione di dottrina e, massime, una misera considerazione del proprio alto ufficio ma, soprattutto, l’idea che la sede di San Pietro, Apostolo di Gesù, primo Pontefice il cui sangue irrorò la terra su cui sorge la grandiosa basilica, altro non sia che una prigione, un luogo di domicilio coatto e un aggregato di slombata nobiltà.
   
Cari amici lettori, prima di svolgere congruamente il nostro commento su questa nuova esternazione papale, pensiamo sia necessario riportarne una precedente, precisamente quella apparsa su un quotidiano di Roma in cui si leggeva:  «Le nostalgie del Papa: “Anche io ho le mie sofferenze, mi mancano gli amici”»,  con la doglianza per la più desiderata libertà a lui negata: quella di potersi muovere a suo agio, di poter uscire liberamente da quella gabbia dorata che è la Santa Sede, per mescolarsi tra la gente comune, andare in parrocchia, magari su un autobus o sulla metro, come faceva quando era a Buenos Aires (Il Messaggero, 20 gennaio 2014).

Quando leggemmo questa sua dolente ammissione pensammo e concedemmo che, al postutto, anche un papa ha diritto di provare sentimenti umani del tipo nostalgico, certamente, ma non sino al punto, però, di provarne sofferenza ché, se tale fosse, vorrebbe significare che i suoi amici siano soltanto quelli che lasciò in quel di Buenos Aires, oltre tutto più importanti che la sua missione. Lo concedemmo con questa espressa riserva. Ma ora, con la dichiarazione rilasciata alla tv messicana, abbiamo appreso la qualità e l’estrazione sociale degli amici di cui Papa Bergoglio lamentava allora, con nostalgìa, la mancanza.  Sono quelli da bar, da discoteca dove si tira, stando alla sua confessione (7/1/2014 ), qualche mozzicone di marijuana, amici da pizzeria appunto, amici con cui ritrovarsi davanti a una “margherita” calda e ad un boccale di birra per parlare a briglia sciolta di calcio, di donne, di vacanze, di argomenti di vacua consistenza. In pizzeria, cioè, luogo deputato per staccare, come si dice, la spina della quotidianità, del logorìo esistenziale, dell’acido lattico sull’umore.
   
La stampa mondiale ha recepito e approvato siffatta proiezione del pensiero papale anche e soprattutto perché da anni va di moda parlare della solitudine del sacerdote, altra sigla che il modernismo ha estratto  dal suo repertorio freudiano per dirci che non soltanto un parroco ma addirittura il Papa è solo e, perciò, ogni sua eventuale debolezza va vista, inquadrata, giustificata e ammessa secondo una valutazione prettamente antropologica e psicoanalitica.
Anche il Papa – figuriamoci un parroco – ha il diritto di concedersi momenti di svago se non, addirittura, di vacanza mondana  – nuotare in piscina, sciare, oscillare come nelle ole da stadio  – perché è uomo come tutti, né più né meno.
Avete mai letto pareri contrarî, avete mai assistito, dai salotti tv, a interventi correttivi da parte di eminenze ed eccellenze che, debitamente, avrebbero dovuto ricordare che il prete, quello cattolico – se è credente – sa che non è mai solo perché Cristo è con lui “tutti i giorni, sino alla fine del mondo”? (Mt. 28, 20) e che il suo ritiro dal mondo è scelta volontaria in risposta alla chiamata del Signore?
No, e proprio per tale silenzio vile i massmedia hanno amplificato questa connotazione antropologica fino a farne dottrina corrente e ovvio dato di fatto. Ma torniamo a Sua Santità.
   
Questo suo particolare richiamo agli “amici” ci ha fatto riflettere sopra una grave e significativa corrispondenza, in termini di capovolgimento, con quanto avvenuto 1982 anni fa’ allorché, in un salone al piano superiore d’una casa, in Gerusalemme, il giorno avanti gli Azzimi nel periodo di Pasqua, un uomo di Nazareth, chiamato Gesù e detto “Il Cristo”, si ritrovò con Dodici suoi amici per la cena rituale, secondo il dettato della legge mosaica. Quel salone, cioè il “Cenacolo” non fu, quella sera, luogo di bisboccia, di allegra brigata spendereccia nel crepitìo di risate scroscianti, di tintinnanti bicchieri nel racconto di facete storielle, quelle che, appunto, si raccontano a grappoli in pizzerìa, nel climax ascendente di scurrilità e di volgarità.
  
NO! NO! in quel salone, l’uomo di Nazareth, in un’atmosfera di dolore e di sacralità, annunciava la sua morte  offerta per la redenzione dei suoi amici e di tutti coloro che gli avessero creduto, nel presente e nel futuro. E a sancire questo suo sacrificio, in quel salone operò il più grande dei miracoli che fino ad allora, per la Giudea, per la Samaria, per la Galilea, per i paesi limitrofi aveva compiuto: trasformò la sostanza del pane e del vino nel Suo Corpo, nel suo Sangue, nella sua Anima e nella sua Divinità perché fosse cibo di vita eterna, ristoro e viatico nel pellegrinaggio esistenziale. E ai Dodici – diciamo “undici” per la nota defezione di un traditore -  così si rivolse: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni e gli altri come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dar la vita per i proprî amici. Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma io vi ho chiamati amici. . .” (Gv. 15, 12/15).

E non cercò, l’uomo di Nazareth, l’anonimato - come invece anela il vescovo di Roma Bergoglio - ché in quel salone Egli si manifestò nella condizione di vittima per essere innalzato sulla Croce da cui, in piena visibilità, avrebbe attratto a sé tutti gli uomini (Gv. 12, 32). 

Tra gli amici dell’uomo di Nazareth, figurava Simone, figlio di Jona, denominato Cefa cioè Pietro, uno dei Dodici, che l’uomo di Nazareth, risorto dalla morte il terzo giorno dopo la crocifissione e prima di ascendere al cielo, avrebbe nominato suo Vicario in terra, capo della Chiesa visibile.

Conosciamo, cari amici lettori, il seguito della storia: l’opera di evangelizzazione che i Dodici avrebbero condotta in tutte le regioni del mondo, la diffusione della nuova Verità, e sappiamo che Pietro, il Vicario di Cristo, primo Papa e vescovo di Roma, avrebbe dato la sua vita per il più importante e vero “amico”, quel Gesù che per lui aveva offerto la propria e per tutti.

Ora, come dicemmo sopra, su quelle zolle imporporate dal sangue del primo Papa, sorge la Basilica omonima che ne custodisce i resti mortali, dove i suoi successori hanno esercitato il supremo magistero nell’esercizio vigilante dell’ovile dai lupi esterni ed interni, nella guida del cattolicesimo, nella custodia del Depositum Fidei. Assolsero questo ufficio, certamente pesante assai “a chi dal fango il guarda” (Purg. XIX, 104) ma nel forte ancoraggio della fede e nell’adesione a quella verità che “fa liberi” (Gv. 8, 32).
E ancorché  perseguitati, assediati, fatti prigionieri dai tiranni di questo mondo, tenuti in ceppi, essi non considerarono il soglio papale come ambiente che, alla lunga, stanca e da cui è salutare uscire per andare a fare quattro chiacchiere con gli amici in taverna allora o in pizzeria oggi.

Ma poi, detto sinceramente: di che costrizione parla Papa Bergoglio? Di quali limiti, pali, inferriate, saracinesche, gabbie parla? Che abbia agito, e continui a girare e ad agire liberamente, ed anche troppo, lo si vede chiaramente dallo scasso e dallo sconquasso che ha operato, indisturbato, nei territorî della dogmatica, della liturgìa, della morale, della dottrina sociale, della comunicazione.
Un pontificato, il suo, all’insegna della rivoluzione – come se non bastasse quella messa in atto da Paolo VI -  perseguìta e sancita, tanto per dire, con quell’udienza concessa a un milanese “centro sociale” a cui ha conferito la medaglia d’oro per la “lotta di popolo” (24 ottobre 2014).

Chi si è opposto al commissariamento dei Frati Francescani dell’Immacolata, messi liberamente da lui sotto un’inquisizione che nemmeno nei torbidi nefasti staliniani? Ha trovato opposizione?
No, soltanto vili e codardi consensi puntellati da una stampa fiancheggiatrice.
Senza veli e con brutale sincerità Leonardo Boff, il tristo frate della “teologìa della liberazione”, ha affermato che Bergoglio, fin quando era arcivescovo di Buenos Aires obbediva ai comandi del Vaticano ma “ora che è Papa può fare quello vuole”.
E si vede!

Fatti esperti, in questi due anni, sulla strategìa che questo pontificato applica per aprire varchi al mondo, una strategìa, infatti, che predilige annunci, riflessioni, esternazioni a braccio, i tanti “qui lo dico e qui lo nego”, dati quasi distrattamente da chi intende farsi passare per imprudente, fatti esperti di ciò noi siamo convinti che non passerà tempo che verrà quanto prima annunciato e poi approvato un documento disciplinare contenente: l’opzione del matrimonio dei preti, la comunione ai divorziati e ai conviventi, la sanatoria per i sodomiti, il sacerdozio “ad interim” da conferirsi ai cosiddetti “viri probati”, l’Ordine sacro alle donne, l’annacquamento del decalogo.
E, così, analogamente, sarà redatto un “Motu proprio” con cui sarà concesso ai sacerdoti e alle persone consacrate – religiosi/religiose – un pacchetto/vacanze, ore di tempo libero, turni per la celebrazione della santa Messa, guarentigie sindacali, diversificazione dell’attività commutando quella, ad esempio, conventuale, in corsi di portamento o di cosmesi.

C’è dell’ironìa in quanto diciamo ma, intanto, l’uscita del Papa che non si sente libero di incontrare gli amici – quali? – di voler passare inosservato – ma proprio lui che fa trapelare notizie personali come le telefonate a privati, che cerca l’applauso dei suoi 18 milioni “followers”, che ha conquistato Time, Vanity Fair, che per lui esce nelle edicole un settimanale “il mio Papa” ecc. . . ? -  fa capire che anche la sua funzione sarà da considerare alla stregua di un alto dirigente, di un presidente e non più quella di un consacrato che deve anche offrire la sua vita per il Signore, se necessario.

E allora, noi, candidamente, pensiamo che se Papa Bergoglio si sente oppresso dal protocollo, dai rituali, dalle incombenze, dai gravosi impegni che gli derivano dall’ufficio, ha soltanto da lasciare, così come ha lasciato il cardinal Ratzinger emerito Papa,  e far posto ad altro che, stante la speranza quale ultima risorsa, ci si augura possa essere il vero Vicario di Cristo e non un semplice vescovo di Roma, che voglia salutare i cattolici con il canonico “sia lodato Gesù Cristo” e che si inginocchi durante il momento solenne e divino della Consacrazione davanti a Cristo Eucaristìa, ma soprattutto riporti la dimensione della trascendenza e della sacralità nella pastorale rimettendo “Roma nel buon filo” (Par. XXIV, 63).

Quanto al seguito dell’intervista, resta sospesa, nella dimensione di ambiguità, la questione delle dimissioni papali che, seppur da lui non condivise in linea generale, sono apprezzate quelle di Benedetto XVI, il Papa che al momento dell’elezione chiese alla Cattolicità di “pregare perché non indietreggiasse davanti ai lupi” risultando pavido al primo guaìto del mondo e, con ciò, pronto a saltare dalla barca di Pietro “schetiniano modo”.
E qui, ci permettano i lettori, non possiamo fare a meno di pensare a come il cardinal Ratzinger convinse il malato GP II a rimaner sulla cattedra di San Pietro “usque ad mortem”, fino alla morte, per testimoniare l’incrollabilità del papato, cosa che, a sua volta, egli scansò ritenendo opportuno, per “ingravescente aetate”, ritirarsi, alla faccia del proposito di non fuggire.
Papa Bergoglio definisce il gesto dell’emerito come “scelta coraggiosa”. Da come la vicenda si è svolta, e da quanto è trapelato dal silenzio delle sacre stanze, c’è da credere il contrario.

E, per concludere, vogliamo dire che non ci piace per niente la definizione che Papa Bergoglio dà della Sacra Curia - non tanto per la forma, ma per la sostanza, come egli distingue – assimilata a “l’ultima corte d’Europa” perché essa è, diversamente proprio nella sostanza, la prima del mondo, una corte il cui Re è Cristo stesso ed egli il suo Vicario.
Non ci piace questa definizione perché è nello spirito di uno pseudo-pauperismo spettacolare e massmediatico di Papa Bergoglio che: rifiutò i solenni paramenti papali nella sua prima Messa alla Cappella Sistina, ignorando quanto il Signore intima e comanda a tal proposito (Es. 28, 1/43); disertò il concerto di musica classica organizzato in suo onore nella Sala Paolo VI per non sentirsi “un principe rinascimentale” ma partecipando, però, al raduno carismatico nello stadio Olimpico di Roma ove ballò e cantò e assistendo, il 14 dicembre 2014, a un concerto – se così si può dire – di musica rockettara proprio in quella sala Paolo VI, a cui parteciparono i nomi più gettonati di questa musica tra cui la Patti Smith di marca gnostico/atea; si mise in fila presso il ristorante interno del Vaticano perché gli astanti lo considerassero davvero uno di loro; indossa un pettorale di vil metallo che, tra l’altro, si premurò di non esporlo durante l’incontro che ebbe con il rabbinato di Israele, il luglio scorso del 2014, occultandolo, con  astuta sbadataggine, nella fascia.

Ecco, questa intervista tv, che replica appunto quella riportata da Il Messaggero, è un altro passo che condurrà la Chiesa verso quella configurazione disegnata dai centri massonici che la vogliono come una chiesa inglobata nell’unità universale delle chiese, una delle tante in cui sarà possibile ai rispettivi ministri uscire la sera per andarsene in discoteca ad ascoltare, mettiamo, la suor Cristina canterina, o correre per i viali dei parchi in tuta e ipod, o passare un pomeriggio allo stadio per dar forza alla… fede calcistica.

Manca soltanto questo perché in sinagoga, in moschea e in pagoda ha già pregato.





marzo 2015

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