La Messa distrutta dalla verbosità mondana

di Alessandro Gnocchi


Pubblicato sul sito Riscossa Cristiana
nella rubrica del martedì “Fuori moda” - La posta di Alessandro Gnocchi
 
  28 aprile 2015

Titolo, impaginazione e neretti sono nostri




Ogni martedì Alessandro Gnocchi risponde alle lettere degli amici lettori. Tutti potranno partecipare indirizzando le loro lettere a info@riscossacristiana.it, con oggetto: “la posta di Alessandro Gnocchi”. Chiediamo ai nostri amici lettere brevi, su argomenti che naturalmente siano di comune interesse. Ogni martedì sarà scelta una lettera per una risposta per esteso ed eventualmente si daranno ad altre lettere risposte brevi. Si cercherà, nei limiti del possibile, di dare risposte a tutti.


martedì 28 aprile 2015

È' pervenute in Redazione:

Caro Gnocchi,
sono appena tornato a casa dalla Messa domenicale e le scrivo perché, per la prima volta, mi sono trovato a uscire dalla chiesa e a rientrare dopo qualche minuto. L’ho fatto per non dare “scandalo” e per calmarmi un po’. Mi spiego subito: all’omelia il prete ha detto che sarebbero state distribuite le schede per votare i membri del consiglio pastorale parrocchiale, ha spiegato come si votava e ha parlato del “dovere” di partecipare a questo importante atto. Poi ha letto l’immancabile riferimento al Vaticano II sulla “partecipazione” della comunità parrocchiale eccetera. Ho preferito uscire, perché se avessi rifiutato di ricevere la scheda magari qualcuno si sarebbe scandalizzato. Ma anche perché mi chiedevo perché mai questi inutili giochini non si possano fare dopo la Messa, che dovrebbe essere il momento più sacro e importante della vita cristiana. Per inciso: circa vent’anni fa feci parte per poco tempo del consiglio parrocchiale: dopo due o tre serate a parlare di aria fritta, salutai tutti. Dulcis in fundo, negli avvisi prima della benedizione, il prete ha anche raccomandato di ritirare uscendo di chiesa il rendiconto economico della parrocchia. Credo che coi tempi che corrono sarebbe importante sentir parlare d’altro in chiesa. Sono veramente, mi scusi l’aggettivo, disgustato.
Un cordiale saluto
Demetrio Colozzi - Milano


Caro Colozzi,
cosa posso dirle? Se l’è andata a cercare. Per sapere che al giorno d’oggi, in una qualsiasi parrocchia dell’Orbe cattolico, la Messa finisca sempre più spesso in questo modo non serve una grande scienza teologica e nemmeno un’approfondita analisi di sociologia ecclesiale: basta il calcolo delle probabilità. Considerata la mole della pretaglia modernista o modernizzante sfornata dai seminari dopo la primavera conciliare e considerato il conseguente rammollimento cerebrale e spirituale dei fedeli più cattolici, è altamente probabile imbattersi in episodi come quello in cui si è imbattuto lei. Una di quelle “laiche sinassi” in cui tutti, dal sacerdote ridotto a presidente della riunione ai fedeli elevati al rango di membri consiglieri, sono felici, ma così felici, di fare finalmente qualcosa di utile per la comunità: che naturalmente è in dialogo e in festa.
Del resto, se con il “Novus Ordo” la Messa viene derubricata al rango di assemblea, quale sarà mai il momento più alto dell’evento? La votazione.

Stante in questo modo la situazione, caro Colozzi, le posso dare il consiglio che da questa rubrica ho già dato ad altri cattolici smarriti come lei: cerchi in un ragionevole raggio di chilometri una Messa celebrata come si usava in tempi cattolici e lasci perdere le assemblee, che presto, vedrà, non saranno più presiedute da un sacerdote ma, complice l’inevitabile calo di vocazioni alla presidenza assembleare, vedranno alla loro guida una suora o, ancor meglio, un laico, una laica e poi magari una coppia di chissà quale conformazione. Se il suo parroco o chi ne fa le veci avrà da eccepire, risponda che non si preoccupi, visto che si tratta di assemblee, gli farà avere con comodo una delega.

Non voglio tornare sulle ragioni della devastazione liturgica che ormai dilaga senza argini. Su Riscossa Cristiana, caro Colozzi, trova materiale sufficiente per farsi un’idea. Nell’episodio che racconta, mi preme stigmatizzare quel tratto burocratico che ormai sta diventando distintivo di un clero mondanizzato che amministra e gestisce parrocchie e fedeli come condomìni e condòmini.
Nella Chiesa d’oggi, tramontati fede, preghiera e liturgia, viene affidato tutto alla redazione e alla diffusione di documenti che dovrebbero regolare qualsiasi aspetto della vita ecclesiale, dal regolamento per l’elezione del consiglio pastorale alle norme di sicurezza per gli addetti della Caritas. Insomma, è il frutto della prevalenza della pastorale sulla dottrina che fa il suo corso.
In un libro di qualche anno fa, con Mario Palmaro facemmo due conti che riporto giusto per intenderci.

Dunque, la Conferenza Episcopale Italiana, tra Commissioni, Uffici, Comitati, Fondazioni, conta una settantina organismi. Diciamo settanta per fare cifra tonda e facilitare i calcoli. Mettiamo che ognuno di questi organismi produca dieci documenti l’anno: totale settecento documenti. Se ogni documento è in media di dieci pagine, si arriva a settemila pagine l’anno. In Italia, ci sono più di duecento diocesi, ma facciamo cifra tonda e diciamo duecento. Mettiamo che ognuna abbia almeno venti uffici: totale quattromila. Se ognuno di questi uffici produce una media di dieci documenti l’anno, si arriva a un totale di quarantamila. Se ogni documento è di dieci pagine, si arriva a complessive quattrocentomila pagine l’anno.
Settemila pagine della Cei più quattrocentomila pagine delle diocesi italiane fanno quattrocentosettemila pagine. Ogni anno, si badi bene. Se calcoliamo che la Chiesa nel mondo, arrotondando per eccesso, ha cento Conferenze Episcopali, il totale annuo delle pagine è di quaranta milioni e settecentomila.
Agli atti, come vuole il proliferare cancrenoso della pastorale ormai, ci sono documenti sugli argomenti più disparati: la deforestazione, il buco nell’ozono, la salvaguardia delle biodiversità, i piani regolatori, la dislocazione delle basi militari, la destinazione d’uso di aree dismesse, il dialogo con i lontani, il mutismo con i vicini, le procedure degli incontri multilaterali, la nuova concezione della funzione presbiteriale, la nuovissima visione della diaconia, la supernuovissima interpretazione della dimensione laicale.

Sono cinquant’anni che continua così e i poveri fedeli non capiscono più niente: siamo arrivati alla Babele, non solo metaforica. Se prendiamo i quaranta milioni e settecentomila fogli stimati poco sopra e li mettiamo uno sopra l’altro otteniamo una torre alta circa quattromila metri.
Una torre ogni anno, ben inteso: cinquant’anni, cinquanta torri di Babele.



E lei, caro Colozzi, si scandalizza per lo spot elettorale durante la Messa? Ma dove vive? È già bello che il parroco non abbia concluso con un “Votate! Votate! Votate!” come faceva Raffaella Carrà ai tempi di Canzonissima.
Ma non voglio lasciarla con l’amaro in bocca, caro Colozzi. E allora concludo con un brano tratto da “La Messa al rallentatore” di don Ronald Arbuthnott Knox, un sacerdote inglese convertito dall’anglicanesimo al cattolicesimo, vissuto nella prima metà del Novecento. Lo abbiamo riportato nell’antologia “La Messa non è finita” che qualche anno fa Palmaro e io curammo per Fede&Cultura. Si deve accontentare della traduzione perché ci abbiamo messo mano noi. Ma credo che basti per capire che cosa un sacerdote, invece di un’assemblea, dovrebbe vedere nella Messa:
«Prima della consacrazione, compio alcuni gesti come per rendere gli elementi ancora più degni di Ciò che stanno per diventare. Mi spengo aderendo a una Realtà completamente diversa da quella in cui vivo abitualmente. Smetto di recitare le preghiere, non chiedo a Dio qualche cosa, non chiedo scusa per qualche cosa, non provo a indurre alcun atteggiamento in nessuno o a manifestare alcun pensiero. Semplicemente, contemplo un momento della storia sacra. È necessario per recitare le parole che Nostro Signore ha usato. Allora, distolto da tutto, quasi involontariamente, faccio ciò che sono venuto lì a fare. O, piuttosto, non lo faccio: mi ritraggo improvvisamente e mi rendo conto che le parole di Nostro Signore, persino pronunciate da labbra come le mie, lo hanno fatto.
Un momento prima, potevo muovere abbastanza liberamente le mie mani. Ora, una specie di paralisi sacra è caduta su di esse e mi è impossibile separare i pollici dagli indici. Cristo ha usato quelle mani per compiere un miracolo e tutto adesso è cambiato. Elevo l’ostia e il calice: o stanno provando a volare verso l’alto fuggendo dalle mie mani? Comunque, comincio a offrire questa Cosa preziosa che è fra le mie mani. La lego con i misteri della vita di Nostro Signore, i sacrifici del Vecchio Testamento, il ministero degli angeli nel cielo, l’attesa dei morti nella vera fede. (…) Poi, prendo insieme l’ostia e il calice e li tengo in alto, per un momento, ansante. Sono il tramite tra il cielo che sta in alto e la terra che sta sotto i miei piedi.
A quel punto, scopro di pronunciare le parole del Pater Noster. Suppongo che ciascuno di noi abbia una fase, un momento o anche soltanto una frase della Messa in cui, se non fosse per il trambusto che creerebbe, vorrebbe morire per assaporarlo per sempre. Per me, quel momento è quello del Pater Noster. E’ il momento della Messa in cui più coscientemente e impavidamente parlo con Dio. Quasi immediatamente, dopo il “Sed libera nos a malo”, cominciamo fare qualcosa che ancora non abbiamo fatto durante la Messa da quando abbiamo detto il Gloria, tranne forse momentaneamente in qualche momento di personale raccoglimento: parliamo con Gesù Cristo. Il sacrificio è lì, sopra l’altare e noi facciamo tutto ciò che è in nostro potere per corrispondere degnamente al fatto sconcertante della sua condiscendenza ai nostri bisogni. “Domine Iesu Christe, Fili Dei vivi, qui ex voluntate Patris, cooperante Spiritu Sancto,  per mortem tuam mundum vivificasti: libera me per hoc sacrosanctum Corpus et Sanguinem tuum ab omnibus iniquitatibus meis et universis malis: et fac me tuis semper inhaerere mandatis, et a te numquam separari permittas”: quando quello è detto, tutto è detto.
Poi il sacerdote si comunica e dà la comunione. Per quanto riguarda la comunione del fedele, almeno se ve ne sono molti, quanto difficile non è ritenere questo come interruzione “nella mia Messa!”. Ma, naturalmente, non c’è “la mia Messa” e la comunione può durare anche ore, se è necessario.
E così la Messa termina, con le purificazioni e i riti finali, che non lasciano impressioni profonde nella mia mente. Non ho una mente abbastanza capiente per ricevere altro, dopo ciò che è avvenuto.
Ognuno è pronto per tornare alla propria casa: “Ite, missa est”. Il sacerdote dà la benedizione e recita l’ultimo Vangelo. La venuta di Nostro Signore Gesù Cristo nelle nostre anime è qualche cosa di assolutamente intimo: ora dobbiamo rimanere soli».



Alessandro Gnocchi

Sia lodato Gesù Cristo




aprile 2015

AL SOMMARIO ARTICOLI DIVERSI