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UNA RIFORMA “CONTRADDITTORIA E INCOERENTE” L'intervistato, il giurista Danilo Castellano, già allievo dell'insigne filosofo cattolico Augusto Del Noce, è ordinario di filosofia politica all’Università di Udine, nonché direttore della rivista “Instaurare omnia in Christo”. Ed è anche l'unico italiano dei nove rinomati giuristi e magistrati di otto nazioni che hanno pubblicato il mese scorso, in vista del sinodo, il libro dal titolo “De matrimonio” edito a Madrid da Marcial Pons e curato dal professor Miguel Ayuso Torres, per iniziativa dell'Union Internationale des Juristes Catholiques: Autore dell'intervista col professor Castellano è Silvio Brachetta, diplomato all’Istituto di Scienze Religiose di Trieste e studioso della teologia di san Bonaventura da Bagnoregio. D. – Professor Castellano, snellire, in generale, l’iter dei processi è una cosa positiva o negativa? R.
– La brevità del processo è un’esigenza della giustizia.
La brevità del processo non deve, però, andare a scapito
della seria ricerca della verità, non deve mettere in dubbio la
certezza del diritto, non deve essere di pregiudizio per i diritti
delle parti processuali.
Il processo, soprattutto quello
canonico, più che giudiziario deve essere giusdicente.
“Giusdicente” significa che il processo deve dire ciò che
è diritto in sé e per sé, vale a dire ciò
che è giusto, non ciò che viene ritenuto diritto secondo
la norma positiva, ossia ciò che è semplicemente
legale. Esso, perciò, non può accontentarsi della
cosiddetta verità processuale; deve accertare e dichiarare la
verità dei fatti e concludere con sentenza conforme a questa
verità.
Per quel che attiene alle cause
matrimoniali la brevità del processo è richiesta anche da
esigenze morali. Se il matrimonio è nullo, la convivenza dei
“coniugi” è propriamente una convivenza concubina che va
abbandonata il più rapidamente possibile.
D. – Quindi come giudica la brevità del processo nel caso della presente riforma? R.
– Certamente quando si introducono riforme vanno considerati i loro
effetti e anche come esse vengono percepite. Le innovazioni richiedono
attente valutazioni prudenziali per non creare ingiustizie e per non
trasmettere messaggi sbagliati, come è possibile in presenza del
motu proprio “Mitis Iudex Dominus
Iesus” di Papa Francesco, promulgato in un contesto culturale
dottrinalmente incerto e socialmente difficile.
D. – Nella riforma si introduce il processo “più breve” accanto a quello ordinario. Perché? E che pensare degli “argomenti particolarmente evidenti” che consentirebbero il ricorso al processo abbreviato? R. – Una lettura benevola della
riforma fatta da Papa Francesco dovrebbe portare a ritenere che la
brevità del processo sia dettata dall’esigenza della
verità: un matrimonio palesemente nullo va dichiarato tale al
più presto. La brevità, in questi casi, consentirebbe – o
dovrebbe consentire – di raggiungere le finalità del processo
ordinario senza inutili appesantimenti formalistici. La lettura
benevola, però, non è, purtroppo, l’unica lettura
possibile di questa riforma.
D. – Può spiegare che cos’è la potestà giurisdizionale del vescovo? In che occasioni, a parte la nuova riforma del processo canonico, il vescovo la esercita, se la esercita? R. – L’Ordinario di una diocesi
ha doveri di magistero, di governo e di giurisdizione, che deve
esercitare con competenza e diligenza per il bene delle anime, vale a
dire per la loro santificazione. In certi momenti storici i vescovi
hanno esercitato solo parzialmente i loro “munera”. In qualche caso hanno
esercitato più funzioni burocratiche che i doveri/poteri di
successori degli Apostoli. Si sono sentiti semplici “funzionari” della
Santa Sede, non affidatari di una potestà ordinaria, ma piena e
immediata, da esercitare in conformità alla potestà
universale propria del Romano Pontefice.
Dopo l’istituzione delle Conferenze Episcopali, poi, gli Ordinari si sono trincerati spesso dietro una “collegialità” che può essere utile ed opportuna ma che, se diventa unico criterio di azione del vescovo, snatura la sua funzione, riduce la sua potestà, può portarlo a compromessi di coscienza non approvabili. Il motu proprio “Mitis Iudex Dominus Iesus” di Papa
Francesco “restituisce”, per quel che attiene all’aspetto
giurisdizionale, pienezza alla funzione del vescovo. Ma ovviamente in
questa “restituzione” sono nascosti anche dei pericoli, tanto
più gravi quando il vescovo non è adeguatamente
preparato, o è disorientato o, peggio, usa dei suoi “munera” ideologicamente, quindi con
nessun rispetto della verità. Anzi, talvolta, contro la
verità. In questi casi – attualmente non sono pochi – il vescovo
esercita arbitrariamente la propria potestà.
D. – I nuovi canoni 1675 e 1361, di cui ai Codici orientale e occidentale, dicono che “il giudice, prima di accettare la causa, deve avere la certezza che il matrimonio sia irreparabilmente fallito, in modo che sia impossibile ristabilire la convivenza coniugale”. Non c’è il pericolo di mettere indebitamente in relazione il fallimento del matrimonio con la nullità? R.
– Leggendo i nuovi canoni citati si resta sconcertati: il matrimonio
nullo non è il matrimonio fallito. La nullità è
dichiarazione della non esistenza del matrimonio. Il matrimonio fallito
non è di per sé nullo. I canoni citati sono
contraddittori anche rispetto al preambolo del motu proprio “Mitis Iudex Dominus Iesus”.
D. – E inoltre: se il fallimento deriva dal libero arbitrio dei coniugi, può una potestà umana esterna decidere che cosa nella coscienza interna delle persone sia fallito? R. – Anche se il fallimento del
matrimonio è dovuto alle scelte dei coniugi, esso non può
essere dichiarato nullo da alcuno, poiché nullo non è.
Nemmeno il Papa ha questo potere. Anzi, se la responsabilità del
fallimento grava sui coniugi, esso dovrebbe rappresentare un ulteriore
elemento per non facilitare scorciatoie liberatrici da obbligazioni
liberamente assunte. Il fallimento è un fatto di coscienza solo
sotto il profilo della responsabilità morale. Non ha rilievo
sotto altri aspetti e non può essere invocato per dichiarazioni
di nullità o per l’annullamento del matrimonio.
D. – La riforma sembra voler andare incontro al dolore di quei coniugi che si trovano in una crisi lacerante. Ma non era opportuno che essa tenesse in maggior considerazione anche il dolore dei figli? R.
– Non c’è dubbio che esistano matrimoni che versano in
situazioni dolorose. Ciò è dovuto spesso alla miseria e
alla debolezza umane; alla impreparazione dei coniugi (preparazione e
maturazione che non derivano dalla sola informazione offerta nei corsi
prematrimoniali); allo scarso o nullo spirito di sopportazione che,
nella cosiddetta “civiltà dei diritti”, è difficile
esercitare; allo stile di vita proposto dall’attuale società
occidentale che non facilita la vita in comune; alle pretese e alle
aspirazioni individuali che portano a sacrificare la famiglia e spesso
a disattendere ai doveri verso la stessa.
Molti matrimoni sono in crisi
anche per effetto della predicazione della cultura “cattolica” che nei
decenni passati ha esaltato l’individualismo, spesso tradotto nei
cosiddetti nuovi diritti di famiglia introdotti da alcuni Stati. Tale
cultura “cattolica” ha predicato l’eguaglianza illuministica interna
alla famiglia, una “emancipazione” che annulla le differenze di ruoli e
di funzioni fra i coniugi, e via dicendo.
A tutto ciò va aggiunto il consumismo come esercizio del piacere per il piacere e spesso del vizio, che ha comportato il rifiuto dell’idea stessa di sacrificio e soprattutto dell’amore oblativo, i cui destinatari nel matrimonio sono in particolare i figli. I figli sono diventati balocchi; in caso di separazione o divorzio merce di scambio. I loro diritti sono stati e vengono calpestati anche quando si proclamano e apparentemente vengono rispettati. In questo clima culturale e sociale è veramente difficile pensare ai figli, alle obbligazioni verso di loro, al dolore e ai danni che separazioni e divorzi provocano in esseri umani non ancora capaci di vera autonomia e, pertanto, particolarmente traumatizzati da decisioni irresponsabili dei loro genitori. D. – Sandro Magister ha fatto notare due punti critici, nella riforma. Quanto al processo ordinario, vi è la novità circa le dichiarazioni delle parti, che possono avere valore di “prova piena”. Quanto al processo breve, viene fornita una confusa lista di “circostanze che possono consentire la trattazione della causa di nullità del matrimonio”. Che ne pensa? R.
– Magister ha messo il dito in alcune piaghe della riforma. Quello
delle prove è problema delicato, particolarmente nel nostro
tempo in cui si scambiano facilmente le prove con dichiarazioni,
indizi, teoremi. Ciò vale non solo nel processo canonico, ma
anche in questo. Un aneddoto può dare l’idea della confusione e
dell’utilizzazione impropria delle pseudo prove che, talvolta, vengono
scambiate con le prove. Qualche anno fa, per una causa di
nullità di matrimonio, alcuni uomini di Chiesa suggerirono ai
“coniugi” di fare alcune dichiarazioni che sarebbero risultate idonee
per “sbloccare” il processo che li riguardava. Uno dei due “coniugi” si
rifiutò, poiché ritenne – giustamente – che la questione
non fosse formale, ma sostanziale: la nullità, infatti, era
stata chiesta innanzitutto per ragioni morali.
Il motu proprio “Mitis Iudex Dominus Iesus” di Papa Francesco impone di riconoscere come “prova piena” la confessione giudiziale e le dichiarazioni delle parti. Esso prescrive che queste solo eventualmente siano sostenute da testimonianze. Come dire –assurdamente – che sono “prove piene” in sé e per sé. Non solo. Il giudice deve attribuire valore di prova agli “indizi”, che non sono “prove piene”. C’è il pericolo di incoraggiare, così, il lassismo che il Papa dichiara di temere, ma al quale spalanca le porte con il nuovo canone 1678. Il problema dell’“eccetera” che il motu proprio aggiunge in coda all’elenco di “circostanze che possono consentire la trattazione della causa di nullità”, nell’art. 14 delle regole procedurali, è, invece, una questione interessante. L’“eccetera” può favorire – e di fatto, purtroppo, favorirà – il riconoscimento di circostanze e di fatti per la dichiarazione della nullità del matrimonio, che porterà a un lassismo etico-giuridico favorito dall’inserimento nel processo breve di fattispecie di nullità, talune delle quali possono moltiplicare le dichiarazioni di nullità di matrimoni validi. L’assoluta tassatività delle prove, tuttavia, risponde alle esigenze del processo giudiziario, non del processo giusdicente. È necessario considerare, infatti, che non è la fattispecie, cioè la previsione normativa, creatrice del fatto, ma è il fatto in sé che assume rilievo giuridico. Quella del motu proprio, pertanto, è un’apertura significativa (antipositivistica) e ha rilievo non solo per il processo ma per la stessa concezione del diritto. D. – Reputa corretto avere incluso la “mancanza di fede” come “circostanza”, in ambito canonico, che consenta la trattazione della causa di nullità matrimoniale? Vi sono altre situazioni in cui questo accade? R.
– No. Questa inclusione è inaccettabile, come dimostra anche un
recente saggio di Luís María de Ruschi, prestigioso
avvocato matrimonialista di Buenos Aires e giudice di tribunali
ecclesiastici, raccolto nel volume fresco di stampa “De matrimonio”, edito a Madrid da
Marcial Pons. È inaccettabile innanzitutto perché fa
dipendere il matrimonio, istituto naturale, dalla fede.
D. – Come giudica insomma questa riforma? Quali i lati positivi e quelli negativi? R.
– La riforma è stata affrettata. È stata introdotta
nell’ordinamento canonico in un momento inopportuno, sia perché
la stessa Chiesa sta discutendo di tale questione, presentata come
pastorale ma in realtà dottrinale, sia perché la
società civile ha una cultura egemone di impronta
liberal-radicale che la porta a recepire la riforma come un cedimento
della Chiesa al mondo, avvenuto per altro in ritardo.
Inoltre la riforma è stata affrettata perché elaborata sulla base di pareri discutibili (come quello, per esempio, espresso dalla commissione circa la rilevanza della mancanza di fede per la nullità del matrimonio) e di scelte opinabili, che avrebbero richiesto approfondimenti e valutazioni ponderate. La formulazione dei nuovi canoni è teoreticamente contraddittoria e incoerente rispetto allo stesso preambolo del motu proprio. Si ha l’impressione che sia stata dettata da un metodo “clericale”, vale a dire dalla metodologia che propone la ricerca del continuo accordo con il mondo, che la Chiesa è chiamata, invece, a illuminare e, se necessario, a contestare. La riforma, tuttavia, presenta anche alcuni aspetti positivi (per esempio, come si è detto: la brevità del processo, la gratuità o quasi gratuità dello stesso, il riconoscimento/restituzione della potestà ai vescovi); aspetti positivi che però – come capita spesso e come capiterà probabilmente nel contesto attuale – potranno essere utilizzati contro le finalità del diritto canonico e della dottrina della Chiesa e a danno delle anime. Ad esempio: la brevità del processo, condotto sulla base del nuovo sistema di prove, finirà nella stragrande maggioranza dei casi per favorire “scioglimenti” di matrimoni validi; la nullità per mancanza di fede sarà una specie di “amnistia matrimoniale”; e così via. (torna
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ottobre 2015 AL PONTIFICATO DI PAPA FRANCESCO |