I destini del mondo dipendono prima di tutto dalla
fedeltà alla vocazione di ogni singolo cristiano
di Alessandro Gnocchi


Pubblicato sul sito Riscossa Cristiana
nella rubrica del martedì “Fuori moda” - La posta di Alessandro Gnocchi
 
  10 febbraio 2016

Titolo, impaginazione e neretti sono nostri



Ogni martedì Alessandro Gnocchi risponde alle lettere degli amici lettori. Tutti potranno partecipare indirizzando le loro lettere a info@riscossacristiana.it, con oggetto: “la posta di Alessandro Gnocchi”. Chiediamo ai nostri amici lettere brevi, su argomenti che naturalmente siano di comune interesse. Ogni martedì sarà scelta una lettera per una risposta per esteso ed eventualmente si daranno ad altre lettere risposte brevi. Si cercherà, nei limiti del possibile, di dare risposte a tutti.


mercoledì 10 febbraio 2016

È pervenuta in redazione:

Gentilissimo dottor Gnocchi,
seguo fin dall’inizio la sua rubrica di posta, che apprezzo per la chiarezza e la capacità di andare controcorrente. Non le nascondo però che a volte la sua intransigenza mi pare che possa risultare controproducente. E mi chiedo anche se sia sempre opportuno far risalire alle proprie prese di posizione su questioni sociali e politiche alla fede cattolica. Le faccio un esempio attuale: come possiamo contrastare in ambito laico la Cirinnà se mettiamo avanti la nostra fede? D’altra parte, mi rendo conto che a forza di metterla da parte si finisce per dimenticarla. Ma allora che cosa bisogna fare?
Grazie per l’attenzione e per quanto sta facendo.

Lorenza Chiarini


Cara Lorenza,

la nostra guida deve essere il timore che lei esprime così chiaramente nella sua considerazione finale. A forza di mettere la parte la fede, per dialogare e anche per litigare con il mondo scendendo sul suo terreno, si finisce per perderla: è il frutto velenoso dell’abile strategia del Nemico che, in definitiva, si accontenta di questo, di brave persone senza fede.
Assodato questo, dovrebbe essere evidente che l’appartenenza a Cristo non possa venire messa tra parentesi, pena la salvezza eterna, ma anche la possibilità di far del bene agli uomini e al proprio tempo.

Giusto per rimanere all’esempio che fa lei, la senatrice Cirinnà può anche essere colpita da due milioni di persone che manifestano in piazza contro la sua legge. Ma stia sicura che sa bene come rapportarsi con un evento che si pone sul suo terreno e appartiene al suo orizzonte. In poche parole, la senatrice Cirinnà ha materia per trattare, perché la piazza è sempre un fenomeno politico e la politica è l’arte del compromesso. Non è la piazza che difende i princìpi, ma una fede forte e radicata che bisogna conservare e rendere pubblica e operante nella società.

Ma questo comporta la necessità di andare contro il pensiero comune in tutte le sue forme. Purtroppo, dentro gran parte del mondo cattolico, razionalismo, materialismo, immanentismo, laicismo e loro derivati non sono più considerati avversari dai quali guardarsi e contro i quali reagire. Sono visti come sistemi di pensiero un po’ scapestrati che comunque hanno un fondo buono e vanno recuperati badando bene che non mutino natura.
Pensiero cattolico e pensiero anticattolico hanno finito di guerreggiare. Questa pace inquietante è riassunta da quelle anime candide che, con un semplicissimo artificio dialettico, dicono: “Come cattolico sostengo la tal cosa, ma come cittadino accetto il suo contrario”.
Come cattolico sono contro l’aborto, ma come cittadino approvo la legge che lo permette”, “Come cattolico sono contro il divorzio, ma come cittadino accetto che sia ormai una prassi consolidata”,
Come cattolico ritengo che il comportamento omosessuale sia una grave deviazione, ma come cittadino approvo la legalizzazione delle convivenze gay”,
Come cattolico credo che il Vangelo sia la mia norma di vita, ma come cittadino la mia guida è solo la costituzione”.

Un vero e proprio sdoppiamento della personalità, che in termini clinici si chiama schizofrenia, trasferito dalla sfera privata a quella pubblica. Una malattia della ragione a cui alcuni pensano di opporre come rimedio apparentemente furbo l’argomento di cittadinanza fondato su ragioni solo naturali: “Come cittadino, pur mettendo tra parentesi, non accetto la tal cosa perché è contro il dettato naturale e quindi mi oppongo”.
Ma, in questo caso, cara Lorenza, si scivola sul terreno dell’avversario che viene automaticamente titolato a trattare princìpi irreformabili come convenzioni puramente umane. Perché il concetto di natura, se non è ancorato al Creatore della natura può essere bistrattato come si vuole: basta avere i numeri per farlo.

Alla fine, è sempre il “cittadino” ad avere la meglio sul “cattolico”. Il “cittadino” se ne va a spasso per il mondo e il “cattolico” rimane chiuso in sacrestia a contemplare l’immacolatezza della propria coscienza individuale.
Il cattolicesimo implode grazie ai troppi “cattolici” che danno via libera al “cittadino” che è in loro, a quei “cattolici” affetti dalla sindrome di don Abbondio riuniti nel Grande Partito della Mediazione e disposti a mercanteggiare con qualunque cosa abbiano davanti, dal ciuffo dei bravi di don Rodrigo al caschetto riccioluto della senatrice Cirinnà.

Questo terremoto è cominciato quando il mondo cattolico, proprio per non essere accusato di intransigenza, pur essendo parte in causa di una contesa, ha deciso di assumere anche il ruolo di mediatore. Una scelta suicida poiché il mediatore trova il suo guadagno unicamente nel raggiungimento di un accordo, qualunque sia. Il mediatore è neutro e, nel momento in cui una delle due parti assume tale ruolo, diviene indifferente tanto alle ragioni della controparte quanto alle proprie. Il suo obiettivo non è più il successo della sua posizione, ma l’accordo in se stesso, poiché da lì trae il guadagno. Cosicché, i cattolici si sono ridotti a mediare sui princìpi e sulla loro applicazione come dei sensali. È chiaro, qualche cosa devono portare a casa pure loro, però si tratterà sempre in una piccola percentuale. Ieri la possibilità di assistere le donne che non vogliono abortire a fronte di una legislazione che legittima l’omicidio di un bambino non ancora nato, oggi le unioni omosessuali depurate dal consenso all’adozione.
Come scrivevano Domenico Giuliotti e Giovanni Papini nel lontano 1923, questi sono cattolici che si contentano di caparre e hanno bisogno di sentirsi in buona relazione con i feticci del giorno.



Jacques Maritain (1882-1973)

Sul piano dottrinale, questa deviazione è stata formulata con tremenda efficacia da Jacques Maritain nelle opere che segnano la sua svolta a sinistra, a partire da Religione e cultura per arrivare al celeberrimo Umanesimo integrale. Il filosofo che nel 1922, in Antimoderno, scriveva “Bisogna odiare il mondo moderno in considerazione di ciò a cui esso mira come gloria che gli è propria ed esclusiva: l’indipendenza nei confronti di Dio”, solo otto anni più tardi, in Religione e cultura, ribaltava la prospettiva con queste parole: “La modernità, pur con tutti i crolli e le perdite connotati da questo termine, ha però comportato un arricchimento incontestabile, che deve essere considerato una conquista acquisita nella conoscenza della creatura e delle cose umane, anche quando questa conoscenza ha finito con lo sfociare nell’inferno interiore dell’uomo in preda a se stesso”.

In mezzo, c’era stata in Maritain l’elaborazione dell’idea di una netta separazione tra l’azione terrena del cristiano e il suo fine eterno. Nel Primato dello spirituale prospettava la dottrina dei due assoluti: “L’assoluto di quaggiù, dove l’uomo è dio senza Dio, e l’assoluto di lassù, dove è Dio in Dio”. Ne sarebbe risultato il rifiuto di una cristianità di tipo medievale a vantaggio, in Umanesimo integrale, dell’idea di una “cristianità profana” costruita grazie alla valorizzazione del lievito cristiano rintracciato nelle dottrine più diverse, dal liberalismo al comunismo, con una preferenza per quest’ultimo.

La prima conseguenza di questa visione è stata la collaborazione con il marxismo, ritenuto un’eresia cristiana da riportare all’ovile, da cui è nato il cattocomunismo. Ma ne discende anche la tragica “scelta religiosa” operata in Italia che portò al disastro degli Anni Settanta e produsse la categoria dei cosiddetti cattolici adulti impegnati nella pubblica difesa della costituzione invece che nella diffusione del Vangelo. E ora si manifesta nel cattolico che per fede è contro l’errore ma per cittadinanza lo accetta, oppure in quello che si spoglia della sua fede per combattere come semplice cittadino.

In tal modo è giunto a compimento l’errore che il cardinale Giuseppe Siri aveva individuato nella tesi di Maritain: “In tutto il suo pensiero non solo non ha cercato di assimilare l’ordine naturale all’ordine soprannaturale, ma, al contrario, li ha separati in modo tale da riconoscere nella creazione e nella storia umana due vocazioni distinte, legate certamente da un principio di subordinazione, ma essenzialmente autonome, con fine e mezzi propri: la vocazione e la missione terrestre, e la vocazione soprannaturale”.

La fede cristiana, cara Lorenza, pretende invece che le due vocazioni stiano insieme. La storia della Chiesa è costellata di esempi luminosi in proposito.
Quando l’eunuco Calligone, ciambellano di Valentiniano II disse senza mezzi termini a Sant’Ambrogio: “Come, me vivente, tu osi disprezzare Valentiniano? Io ti spaccherò il capo”, il vescovo di Milano, che era di ben altra pasta rispetto a quella dei suoi attuali successori, rispose: “Che Dio te lo permetta! Io soffrirò allora ciò che soffrono i Vescovi e tu avrai fatto ciò che sanno fare gli eunuchi”. 
Sempre Sant’Ambrogio, nella lettera scritta all’imperatore Teodosio per invitarlo alla penitenza dopo la carneficina ordinata a Tessalonica, diceva così: “Ti ho scritto questo, non per turbare il tuo animo, ma perché gli esempi di questi re ti inducano a togliere questo peccato dal tuo regno; e lo toglierai umiliando davanti a Dio la tua anima. Sei un uomo e hai subito la tentazione: víncila. Il peccato non si cancella se non con le lacrime e la penitenza… Consiglio, prego, esorto, ammonisco perché mi addolora che tu – che eri un esempio di pietà senza pari, che avevi raggiunto il vertice della clemenza, che non tolleravi che i singoli colpevoli fossero esposti al pericolo – non sia addolorato per la morte di tanti innocenti. Anche se hai combattuto con grande successo, anche se hai meritato lode in altre imprese, tuttavia il culmine delle tue opere fu sempre il sentimento religioso. Il diavolo t’invidiava questa che era la tua dote più eccellente. Víncilo, finché hai ancora i mezzi per vincerlo… Io non ho verso di te alcun motivo per esserti ostile, ma ne ho per temere; non oso offrire il sacrificio, se tu vorrai assistervi”.



Domenico Giuliotti (1977-1956)

In tempi recenti, mi piace ricordare come Giuliotti, forse in maniera un po’ brutale ma sincera e apprezzata dal destinatario, rifiutò di aderire al Manifesto della Rivoluzione Liberale di Piero Gobetti: “Caro Gobetti, nessuna osservazione da fare. Nego tutto. Sono antiliberale, antidemocratico, antisocialista, anticomunista. In una parola, antimoderno. In questa Italia di briganti-pazzi vivo con la tristezza d’uno straniero che non ha più patria. Sono comunque da voi dissimilissimo. Voi (professori) cercate di catalogare, mentre io (poeta) disperatamente spero nell’autodistruzione dell’anarchia e nella ricostruzione di una piramide con al vertice il Papa e alla base il popolo. Ecco il mio programma. Confrontatelo con il vostro, una lirica accanto a un bilancio. Da ciò l’impossibilità di intenderci”. Colpito dalla veemente appartenenza a Cristo proclamata da Giuliotti, Gobetti rispose “noi stimiano la sua intransigenza, che non ci stancheremo mai di combattere, mentre consideriamo con disdegno tutti i catechismi predicanti transazioni e conciliazioni”.

Quanto al “che fare?” che chiude la sua lettera, come quella di tanti altri lettori, esiste una risposta molto semplice. Applichi un’intransigenza integrale e direi persino dolorosa contro l’avversario più coriaceo che potrà mai incontrare: se stessa. Sia cristiana integrale nonostante le resistenze della natura ferita del peccato. È quello che dobbiamo fare ogni giorno, ricominciando sempre da capo, tutti noi che abbiamo scelto di appartenere a Cristo e a nessun altro. I destini del mondo dipendono prima di tutto dalla fedeltà alla vocazione di ogni singolo cristiano, molto di più che da qualsiasi evento di massa o da qualsiasi strategia politica.



Non sono un grande appassionato dei Promessi sposi, ma se mi permette un consiglio, la invito a leggere la pagina in cui il cardinale Borromeo ammonisce don Abbondio per il tradimento del suo mandato sacerdotale. In quella scena, Manzoni espone in modo sublime una regola spirituale che illumina perfettamente il nostro tema. Spiega come il sottrarsi alla propria vocazione conduca, quasi per necessità meccanica, là dove si finirà fatalmente per cadere. L’unico azzardo sicuro, dice il cardinale, è la fedeltà alla chiamata divina. Assecondandola, don Abbondio avrebbe avuto fortuna, ricusandola è stato ghermito dai rigori del mondo. Di rimando, il povero curato, nella sua tiepidezza, riesce solo a partorire un pensiero piccolo piccolo: “È un gran dire che i santi come i birboni gli abbiano ad aver l’argento vivo addosso, e non si contentino di essere sempre in moto loro, ma voglian tirare in ballo, se potessero, tutto il genere umano”.

Come Don Rodrigo, il curato manzoniano è dominato dalla passione: paura in lui e lussuria nell’altro, decidono per loro conto e oscurano il loro destino. E loro, pur illudendosi di farlo, non lasceranno traccia nel mondo. Non così per il cardinale Borromeo, l’Innominato, fra Cristoforo. Soprattutto, la vereconda Lucia, che parla e si muove su registri nutriti di meditazioni semplici sulle vie storte e le vie dritte, su ciò che conviene e non conviene a uno stato, come dire sul destino. Il pudore fremente e incommovibile di questa donna è il ponte fra la percezione del santo e l’istinto fine del popolo. L’intransigente Lucia, e non Renzo, inebriato dal calore della piazza, ha lasciato il segno nei suoi giorni e in quelli venturi.

Alessandro Gnocchi

Sia lodato Gesù Cristo




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