La tecnica della demolizione 
 


di Patrizia Fermani




Pubblicato su Riscossa Cristiana

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Mario Bergoglio, in arte Francesco, non è un compagno che sbaglia, cioè uno che,  galvanizzato dal proprio credo, per  eccesso di zelo ne esibisce interpretazioni imbarazzanti e prende iniziative avventate capaci di  nuocere alla credibilità  e al buon nome dei compagni di fede. Anzitutto perché sarebbe difficile individuare di quale fede egli possa essere un cattivo interprete o un cattivo rappresentante. Se non si inginocchia mai davanti al S.S. e dice che Dio (almeno il suo) non è cattolico, per tutto quanto fa e dice è ragionevole pensare che non professi la religione cattolica, anzi nutra per essa una sorta di intolleranza, o di vera e propria vergogna, tanto da arrivare persino a nascondere la croce pettorale o a far velare la statua della Vergine per “rispetto” verso ospiti di altre religioni di passaggio nei giardini vaticani: gesti che fanno apparire il rinnegamento di Pietro prima del canto del gallo come una birichinata, e oscurano di gran lunga la trovata governativa di coprire pudicamente le statue nude per rispetto agli iraniani in visita di stato, manifestazione insuperabile della ignorante idiozia di una classe politica.

In ogni caso, la questione se egli riconosca come vera la religione cattolica, se sia veramente questa la sua religione, o addirittura se ne abbia una, diventa quasi secondaria rispetto alla poderosa accelerazione impressa dall’era Bergoglio, e da una Chiesa excattolica che ora viene tutta allo scoperto, al disfacimento etico di una società avviata al suicidio. E in questo si manifesta il tradimento effettivo o potenziale dei dogmi cattolici e il profilarsi della vera e propria  eresia, perché l’attacco alla morale serve alla demolizione della fede cattolica come l’attacco alla fede è funzionale alla distruzione della morale.

Se da decenni il credo cattolico era considerato all’interno della stessa Chiesa come una moneta ormai senza corso legale, l’inquilino di Santa Marta ha assunto il compito di metterlo ufficialmente fuori uso, stringendo un patto d’acciaio con quel mondo che punta alla dissoluzione dei legami famigliari, alla negazione della morale sessuale e all’omosessualismo, e più in generale all’oscuramento della legge naturale. Un’alleanza che garantisse l’eliminazione di ogni contrasto tra cultura laicista e morale cattolica, preparata da un linguaggio comune capace di sottrarre i cervelli alla tentazione del pensiero.  Come il lupo della favola, il mondo anticattolico parla con la voce  della nonna, mentre la Chiesa  usa le parole del mondo e ne risulta appunto quel  medesimo  linguaggio che per il primo è falso nella forma, e per la seconda è falso nella sostanza.

Tuttavia  per condurre a  termine una operazione di quella portata, bisognava superare l’ostacolo della poderosa muraglia dottrinale cattolica, che col suo sistema di principi  è rimasta radicata per secoli nella coscienza comune. Impresa temeraria da non lasciare al caso né alla improvvisazione. Andava condotta con sapienza strategica ma anche con le dovute cautele. Bisognava che i passeggeri non percepissero chiaramente  l’ordine di affondamento, ma si abituassero a poco a poco all’idea di imbarcare acqua. Del resto un attacco esplicito e frontale alla dottrina cattolica avrebbe scosso anche i più rocciosi papisti, che nei tanti gesti anomali e nelle intemperanze del pensiero bergogliano non hanno mai voluto leggere il fine eversivo e i sintomi chiari della eresia.

Dunque, lo scoglio dottrinale andava anzitutto aggirato e si è cominciato con l’attaccare proprio il principio normativo, l’autorità delle norme cattoliche che tendono a regolare i comportamenti umani. Sin dall’inizio del pontificato Bergoglio ha  riproposto di continuo con insistenza maniacale il tema della legge che mortifica e opprime una umanità sofferente, pretende di imporsi all’uomo senza tenere conto delle sue esigenze ed esperienze concrete, e va dunque sostituita dall’unica vera legge buona che è quella dell’amore.  
Dall’Evangelii Gaudium alla laetitia postsinodale si auspica la liberazione dai lacci della legge, insinuando che i principi  “rigidi” a priori (o rigidamente aprioristici) assomigliano a quelli che ispirano tutte le ideologie, sempre gravide di conseguenze disastrose. Alla bisogna tornano utili anche certe ambiguità lessicali dei testi paolini debitamente piegati nel verso desiderato.

Ora, è da sperare che neppure Bergoglio ritenga la legge in sé come qualcosa di cui si possa fare a meno. Non sappia cioè che essa è uno strumento indispensabile per il vivere comune, ma che può essere buona o cattiva a seconda del contenuto assegnatole di volta in volta dal legislatore di turno. Non può ritenere cattive certe norme irrinunciabili che assicurano la convivenza pacifica, mentre predicare come buona la libertà da ogni regola implica a sua volta la imposizione di una nuova norma con la contraddizione antica e moderna di ogni dottrina anarchica, che non ha risparmiato gli spensierati sessantottini del vietato vietare. In ogni caso sembra sfuggirgli che la funzione regolatrice di ogni norma mira normalmente all’interesse generale in cui vengono assorbiti per forza di cose gli interessi particolari.

Ma di quale legge ci si deve liberare secondo Bergoglio per fare posto solo a quella dell’amore?  Di certo non della legge dello Stato, la cui vigenza non dipende dalle interpretazioni vaticane, anche se tutti saremmo ben lieti di essere cristianamente autorizzati a non osservare le norme tributarie e ad evadere amorevolmente il fisco. Mentre i tempi non sembrano ancora maturi per rendere lecito l’omicidio o la calunnia anche se commessi per amore.

Dunque la legge che il vescovo di Roma ci invita e autorizza a superare è solo la legge di Dio, su cui è stata modellata appunto la dottrina cristiana, che non doveva essere modificata neppure di uno iota. Egli ritiene che le norme  della morale cattolica, in particolare quelle sulla morale sessuale e famigliare, stringendo la vita degli uomini entro schemi rigidi, mortificano le aspirazioni individuali e il naturale anelito alla felicità.

A superare l’ostacolo, basta chiamare in causa la misericordia divina di cui Bergoglio si è eletto amministratore delegato. Con essa si spazzano via leggi e principi perché il perdono anticipato per tutto e per tutti rende inutile ogni regola di condotta. Insieme alle regole viene meno ogni possibilità di  giudizio, anche quello secondo retta ragione raccomandato da Giovanni 7, 24, e viene meno il principio di responsabilità.

Lo scenario in cui andava ambientata la santa alleanza col mondo e il ripudio della morale cattolica,  doveva avere però una forma istituzionale. Se i principi della morale famigliare vanno cambiati, come chiede il mondo, nulla di meglio che un sinodo sulla famiglia dove la solennità dell’apparato, la complicazione del marchingegno, il profluvio delle parole, il battage pubblicitario avrebbero rassicurato le masse sulla bontà delle intenzioni. La rivoluzione iniziata decenni addietro doveva essere  portata a termine sotto le mentite spoglie di uno strumento tanto autorevole, ornato dal pennacchio democratico. Infatti fuori dalla democrazia non c’è salvezza, come un volta non c’era salvezza extra ecclesiam. Questo il senso del  famoso questionario dal quale ha preso le mosse il sinodo e che ha avuto la funzione non di registrare le storture da correggere, ma la realtà di cui prendere atto amorevolmente.

Il sinodo doveva affermare il principio che la famiglia è quella presentata dalla realtà perché l’ideale e il reale coincidono. E nella realtà concreta, emerge l’etica da rispettare. Questa la nuova filosofia ufficiale del cattolicesimo aggiornato. In tema di morale famigliare la Chiesa non deve insegnare nulla di diverso da quanto produce “lo spirito del tempo”: le famiglie allargate per confluenze matrimoniali, quelle monocolori o a composizione cromatica variabile, i figli a tempo limitato e quelli ordinati da catalogo, gli originali e le imitazioni, tutto merita ossequio e il fattibile diventa naturalmente buono e condivisibile. Accanto alla realtà dei fatti c’è la realtà costruita dalla politica, così il punto di approdo deve essere non soltanto la insignificanza del vincolo matrimoniale, ma anche l’indifferentismo sessuale e la negazione dei limiti della creazione.

Tuttavia c’era ancora l’ostacolo del sacramento. L’indissolubilità del matrimonio è il piano in cui la norma morale incontra il dogma. Qui il terreno si fa scivoloso anche per chi voglia abolire il matrimonio cattolico rimanendo però formalmente nel cattolicesimo.  Come prima mossa tornava utile attirare l’attenzione sulla questione di lana caprina dei divorziati risposati esclusi dai sacramenti, già cavalcata da anni in Germania da una Chiesa  in perenne marcia di avvicinamento al protestantesimo. Una questione capace di mettere in discussione per aggiramento il principio della indissolubilità matrimoniale. Vi sono peccatori che soffrono per non potersi accostare ai sacramenti per il divieto opposto dalla Chiesa e che sono comunque  buoni cristiani, anche perché quel “peccato” è ormai generalizzato e di fatto non più scandaloso. Quel divieto è ormai una pena sproporzionata e poco misericordiosa.

La prima ragione per far cadere il divieto di ammissione dei divorziati all’Eucaristia sarebbe dunque il suo ingiustificato rigore. Ma un’altra ragione ha preso quota nella mistica del relativismo vaticano, e riguarda la “imputabilità” o meno del comportamento peccaminoso. Il concetto è stato  preso malamente a prestito dal diritto che prevede la gradazione della pena in ragione della capacità di intendere e di volere. Invece per la Chiesa di Bergoglio inimputabilità significa ignoranza dei presupposti canonici della propria condotta, ignoranza ovviamente soggetta ad autocertificazione: se Tizio ignorava di avere contratto un primo matrimonio valido, col secondo non è in peccato mortale.

Sennonché,  il divieto per chi è in  peccato di accostarsi alla Eucaristia riposa su  ragioni che esulano dalle vicende individuali. Esso non è una pena per il peccato mortale, ma è norma di salvaguardia del sacramento che non deve essere profanato  dallo stato di peccato derivante dal secondo matrimonio. Inoltre, se il divieto di accesso ai sacramenti non è la pena prevista per il peccato, esso non può neppure essere graduato in ragione del grado di “imputabilità” del soggetto, intesa come ignoranza delle norme canoniche. Il tentativo di confondere i due piani mira ad  incrinare il divieto e di conseguenza a retroagire sulla indissolubilità del matrimonio cattolico. Ma come si diceva non è invenzione di Bergoglio.

Infatti correva l’anno 2000 quando il Consiglio  per i Testi Legislativi si era visto costretto a sconfessare quei teologi che, con l’evidente obiettivo di attaccare la indissolubilità del matrimonio, mettevano in discussione proprio il divieto di accesso ai sacramenti per i divorziati risposati civilmente, a partire dalla questione della inimputabilità  individuale. Costoro facevano leva sul paragrafo 1735 del CCC che prevede una valutazione caso per caso della gravità del peccato. Quella che spetta al sacerdote in sede di confessione.

Il ragionamento era questo: se non si è stati in grado di capire il significato del matrimonio cattolico e le sue condizioni di validità, e si è infranto in buona fede il vincolo di indissolubilità, deve essere superato anche il divieto di accesso ai sacramenti, inteso  appunto questo come una pena per quella violazione incolpevole.

Il Consiglio confutava quelle affermazioni dichiarando che l’impedimento di accedere ai sacramenti per chi versa in peccato mortale è stabilito a tutela oggettiva del sacramento stesso e che di conseguenza risulta del tutto ininfluente il grado di responsabilità del soggetto all’atto di commettere il peccato. Diceva testualmente  il Consiglio: “La proibizione fatta nel citato canone, per sua natura, deriva dalla legge divina e trascende l’ambito delle leggi ecclesiastiche positive: queste non possono indurre cambiamenti legislativi che si oppongono alla dottrina della Chiesa”.  Proseguiva  osservando che se per  il canone 915 del CC: “devono essere allontanati  dal ricevere la Divina Eucaristia coloro che sono pubblicamente indegni” , ciò sta a significare che il ricevere il Corpo di Cristo essendo pubblicamente indegno, costituisce un danno oggettivo per la comunione ecclesiale, poiché attenta ai diritti della Chiesa e di tutti i fedeli a vivere in coerenza con le esigenze di quella comunione. Infatti aggiunge : “tale scandalo sussiste anche se, purtroppo, siffatto comportamento, non destasse più meraviglia: anzi è appunto dinanzi alla deformazione delle coscienze, che si rende più necessaria nei pastori un’azione paziente quanto ferma a tutela della santità dei sacramenti, a difesa della moralità cristiana e per la retta formazione dei fedeli”. Sicché: “tenuto conto della natura della succitata norma (canone 915), nessuna autorità ecclesiastica può dispensare in alcun caso da quest’obbligo del ministro della Sacra Comunione, né emanare direttive che lo contraddicano”.
Altri tempi.

Ma i novatori non si sono dati per vinti e hanno continuato a confondere le acque, sicuri che la argomentazione fasulla della inimputabilità sarebbe risultata in qualche modo suggestiva e convincente e che la sua incongruenza e falsità sarebbero sfuggite  all’attenzione dei più. Infatti l’idea la ritroviamo insinuata nel numero 47 dell’Instrumentum Laboris 2014, dove, a proposito dell’accesso ai sacramenti, si auspica che la relativa possibilità sia “frutto di un discernimento attuato caso per caso, secondo la legge della gradualità, che tenga presente la distinzione tra stato di peccato, stato di grazia, e circostanze attenuanti”.  Proposta rinforzata al numero successivo dove ci si chiede perché mai se è possibile la comunione spirituale, non si possa accedere a quella sacramentale.

All’interno del consesso si sono levate voci di dissenso, ma è  bastato poco per metterle a tacere. I dissenzienti del primo turno sono stati esclusi dal secondo. Al cardinale Erdo, incaricato di leggere la Relatio intermedia del 2014, è stata passata una velina diversa da quella che si aspettava e che contraddiceva il suo pensiero. E alla fine le pur edulcorate conclusioni dei documenti finali sono state corrette di autorità da Bergoglio sia nel 2014 con le “domande” successive volte a riportare l’attenzione sulle aspettative del mondo, e nel 2015 con le fantasmagorie dell’A.L., summa non teologica del relativismo contemporaneo.

Così tra eresie mascherate da buone intenzioni, idee fasulle spacciate  per concetti meditati, banalità rivestite di panni curiali, il Sinodo ha cantato un requiem per la famiglia il cui spartito è ora a disposizione di tutti col nome di A.L. Ma se non avessimo ben capito dove va a parare questo pur eloquente manifesto della Chiesa di Bergoglio, ecco il garrulo cardinale di Vienna che ne intona un estasiato canto di lode riassumendone a meraviglia contenuti e finalità in una recente intervista.

Piuttosto distante dall’elegante intellettuale allievo della schulerei ratzingeriana, che pochi anni or sono sosteneva raffinate polemiche transatlantiche barcamenandosi tra evoluzionismo e creazionismo, ora Schonborn si fa propagandista disinibito dell’A.L. Dice appagato che finalmente è stata eliminata la differenza tra situazioni regolari e irregolari “in virtù della gioia dell’amore che non esclude nessuno, veramente e sinceramente nessuno” (Senza volerlo torna in mente la battuta dell’indimenticabile Troisi sul primato della salute rispetto a quello dell’amore).  Con ammirevole audacia ne loda il linguaggio e ci informa che in esso c’è il “rispetto per ogni uomo di fronte al cui terreno sacro, come insegna l’Evangelii gaudium, dovremmo toglierci le scarpe”. Senza chiedersi se la citazione tanto cara a Bergoglio, con l’immagine di Mosè che si toglie i sandali nel recinto sacro di Dio, non stabilisca un parallelo a dir poco blasfemo. Insiste sulla necessità di  accompagnare anche le “cosiddette” famiglie irregolari, perché “non c’è un modello più meritevole di attenzione” (cita a.l. 36 e 37), e le famiglie sono tutte belle “così come sono”. Per chi ancora non lo avesse capito qui si stanno rassicurando i vari Vendola ed Elton John sulla commossa comprensione vaticana per la loro bella realtà famigliare.
Sempre secondo il n. 37 “siamo chiamati a formare le coscienze”, che sarebbe affermazione innocua, senonché una volta abolita per decisione bergogliana la dottrina cattolica, l’unico criterio rimasto per questa formazione sia quello fornito appunto dalla realtà così com’è. Infatti come si forma la coscienza? Col discernimento, risponde contento il nostro, rinviando agli insegnamenti dati da Bergoglio sull’educazione, “da grande pedagogo qual è”. Questi  meriti pedagogici sono emersi tutti, come è noto, nello incoraggiamento dato alla educazione sessuale che secondo le linee guida governative include la variabilità dei generi sessuali e il valore dei legami omosessuali.  Rincara il Cardinale, “è un esperto pedagogo della passioni”(sic!) che punta tutto “sulla centralità dell’amore”, anche se sa che esso “può crescere ma anche raffreddare”.  Massima per vero anticipata dalla Perugina nei cui baci anni fa si poteva leggere che “l’amore è come la luna, se non cresce cala”. Intanto fra tanto acume speculativo non guasta tirare in ballo San Tommaso e la “sua grande visione della felicità come meta della vita”.  Però Schonborn, ormai a briglia sciolta, ci ricorda come l’A.L. al 205, “rende dolorosamente visibile quanto male facciano le ferite d’amore” e come nell’8° capitolo spieghi  “come la Chiesa tratti queste ferite”. Qui si sente quasi vibrare tutta la densità dell’esperienza personale.

Ma ecco finalmente messo in luce il tanto atteso punto di arrivo dell’A.L., che al n. 307 recita: “la Chiesa deve rinunciare a proporre l’ideale pieno del matrimonio, il progetto di Dio in tutta la sua grandezza”.

Non manca il tributo finale ad una demagogia di maniera che pure ha ormai superato ogni limite di umana tollerabilità: “una chiave di lettura dell’A.L. è la esperienza  dei poveri che sperimenterebbero quei piccoli passi sul  cammino della virtù, molto più grandi di quelli di chi vive in situazioni confortevoli”. Dopo tante parole in libertà, l’intervistatore gli fa notare come le coppie irregolari assolte dall’A.L. dovrebbero essere considerate in  peccato mortale, lo stesso che nella Veritatis Splendor è chiamato  “male intrinseco”. Ma il  cardinale risponde che l’imputabilità è proprio una condizione per sapere se c’è peccato mortale o meno.

Dunque les jeux sont faits. Lo scoglio dottrinale è stato doppiato come il capo di Buona Speranza e la Chiesa di Bergoglio naviga in mare aperto a vele spiegate col vento dell’amore in poppa. Ma non ci siano dubbi: si tratta solo dell’amor profano.




giugno 2016
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