Il celibato ecclesiastico





Ripreso da SI SI NO NO, anno XLII, n. 11, del 15 giugno 2016

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Un’infelice risposta di papa Bergoglio a un giornalista ha lasciato intendere che la legge sul celibato ecclesiastico potrebbe essere oggetto di revisione, se non di abolizione.
Ora, il cardinal Alfonso Maria Stickler nel 1994 pubblicò in italiano un libro interessantissimo intitolato Il celibato ecclesiastico. La sua storia e i suoi fondamenti teologici (Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana). In questo articolo lo riassumeremo affinché possano i nostri associati avere un’idea chiara sulla natura del celibato ecclesiastico, sulla sua istituzione e sulla differenza tra la Chiesa latina e quella orientale riguardo a questo problema.
 
Origine del celibato

Per quanto riguarda il celibato ecclesiastico, alcuni autori lo presentano di origine divina; altri come  una mera istituzione ecclesiastica disciplinare della Chiesa latina più stretta riguardo alla Chiesa cattolica orientale.

Dal celibato ecclesiastico nasce un duplice obbligo:
1°) di non sposarsi e
2°) di non usare più di un eventuale matrimonio precedentemente contratto.
Infatti ci risulta dalla Sacra Scrittura che nella Chiesa primitiva l’ordinazione di uomini sposati era una cosa frequente dato che San Paolo prescrive ai suoi discepoli Tito e Timoteo che tali candidati dovevano essere stati sposati solo una volta. Di san Pietro almeno sappiamo di certo che era sposato.
Quindi appare chiaro che allora nella continenza da ogni uso del matrimonio dopo l’ordinazione consisteva il senso primario del celibato, senso che oggi è quasi comunemente dimenticato, ma che in tutto il primo millennio, e anche oltre, era noto a tutti.

Tutte le prime leggi scritte sul celibato parlano, infatti, della proibizione di una ulteriore generazione di figli nel matrimonio già contratto. Ciò dimostra che, a causa della moltitudine di chierici sposati antecedentemente, questo obbligo doveva essere richiesto con decisione e che il divieto di sposarsi era all’inizio piuttosto di importanza secondaria ed emerse solamente quando la Chiesa preferì, e poi impose, i celibi, da cui venivano reclutati quasi o del tutto esclusivamente i candidati agli Ordini sacri.
Per completare questo primitivo senso del celibato ecclesiastico, il quale veniva giustamente chiamato “continenza”, dobbiamo avvertire subito che i candidati sposati potevano accedere agli ordini sacri e rinunciare all’uso del matrimonio solamente col consenso della moglie.

Una tesi perdurante, ma infondata

L’orientalista Gustav Bickell assegnava l’origine del celibato ad una disposizione apostolica, appellandosi soprattutto a testimonianze orientali. A lui rispose Franz X. Funk, noto cultore della storia ecclesiastica antica, dicendo che ciò non si poteva affermare poiché la prima legge scritta sul celibato possiamo trovarla solo all’inizio del IV secolo dopo Cristo.
Successivamente ad un duello di scritti in materia, il Bickell tacque mentre il Funk ripeté ancora una volta sinteticamente i suoi risultati senza ricevere risposta dal suo avversario. In cambio ricevette importanti consensi da due altri studiosi eminenti quali erano E. F. Vacandard e H. Leclercq. La loro autorità e l’influsso delle loro opinioni, diffuse da mezzi di comunicazione di larga divulgazione (Dizionari), fruttarono alla tesi di Funk un notevole consenso che perdura fino ad oggi.

Ora bisogna costatare che F. X. Funk nell’elaborazione delle sue conclusioni non ha tenuto conto dei canoni generali della critica delle fonti, ciò che per uno studioso altamente qualificato, quale egli era senza dubbio, è veramente strano. Egli prese per buono e ne fece uno dei suoi argomenti principali contro l’opinione del Bickell il racconto spurio sul vescovo-monaco Paphnutius d’Egitto al Concilio di Nicea del 325. E ciò contro la fondamentale critica esterna delle fonti che già prima di lui aveva ripetutamente affermato la non autenticità di tale episodio; cosa oggi accertata in seguito all’esame del Concilio di Nicea riguardo al nostro tema.

Diritto e legge

Uno dei più autorevoli teorici del diritto di questo secolo, Hans Kelsen, ha esplicitamente affermato che è errato identificare diritto e legge, ius et lex. Diritto (ius) è ogni norma giuridica obbligatoria, sia essa stata data solo oralmente e tramandata attraverso una consuetudine o sia stata espressa già per iscritto. Legge (lex) invece è ogni disposizione data per iscritto e promulgata in forma legittima.
È una particolarità tipica del diritto che l’origine di ogni ordinamento giuridico consiste nelle tradizioni orali e nella trasmissione di norme consuetudinarie, le quali soltanto lentamente ricevono una forma fissata per iscritto. Così i Romani, che sono l’espressione del più perfetto genio giuridico, solamente dopo secoli hanno avuto la legge scritta delle Dodici Tavole. Tutti i popoli germanici hanno redatto per iscritto i loro ordinamenti giuridici popolari e consuetudinari dopo molti secoli di esistenza. Il loro diritto era fino a quel tempo non scritto e veniva trasmesso solo oralmente.
Applicando questa distinzione al celibato ecclesiastico è lecito dire che la legge ecclesiastica, più tardiva, si fondò su un precedente diritto di origine divino-apostolica tramandato nella Chiesa, come dimostreremo.

La conclusione più notevole è che la regola, concepita come derivante dal diritto divino/apostolico, non potrebbe essere abrogata dall’ autorità ecclesiastica: quindi la Chiesa non avrebbe il diritto di abolire il celibato dei preti” (F. Roberti – P. Palazzini, Dizionario di Teologia Morale, Roma, Studium, IV ed., 1968, I vol. p. 268, voce Celibato ecclesiastico, a cura di P. Palazzini).

Le prime leggi sul celibato nella Chiesa latina

Nel primo decennio del secolo IV dopo Cristo si radunarono vescovi e sacerdoti della Chiesa in Spagna nel centro diocesano di Elvira presso Granada per sottoporre ad una regolamentazione comune la Spagna appartenente alla parte occidentale dell’Impero Romano. In 81 canoni si emanarono dei provvedimenti riguardo a tutti i campi più importanti della vita ecclesiastica, allo scopo di riaffermare la disciplina antica e di sancire i rinnovamenti necessari.

Il can. 33 contiene la prima legge sul celibato. Sotto la rubrica “Sui vescovi e i ministri (dell’altare) che devono essere continenti dalle loro consorti” sta il testo dispositivo seguente: “Si è d’accordo sul divieto completo che vale per i vescovi, i sacerdoti e i diaconi, ossia per tutti i chierici che sono impegnati nel servizio dell'altare, i quali devono astenersi dalle loro mogli e non generare figli; chi ha fatto questo deve essere escluso dallo stato clericale”.
Già il canone 27 aveva insistito sulla proibizione che donne estranee abitassero insieme con i vescovi ed altri ecclesiastici. Con il can. 33 essi erano obbligati, dopo essere stati ordinati, ad una rinuncia completa di ogni uso del matrimonio.

Dopo questa legge importante di Elvira dobbiamo considerarne un’altra, ancora più importante per la nostra questione. Si tratta di una dichiarazione vincolante, fatta nel secondo Concilio africano dell’anno 390 e ripetuta nei Concili africani successivi per essere poi inserita nel Codice dei canoni della Chiesa africana (e nei canoni in causa Apiarii) formalizzato nell’importante Concilio dell’anno 419.
Sotto la rubrica “Che la castità dei Leviti e sacerdoti deve essere custodita” è riportata la seguente risposta: “Noi tutti siamo d'accordo che vescovi, sacerdoti e diaconi, custodi della castità, si astengano dalle loro mogli, affinché in tutto e da tutti coloro che servono all’altare sia conservata la castità”.
Da questa dichiarazione dei Concili di Cartagine risulta che un tale obbligo viene espressamente collegato con l’Ordine sacro ricevuto e con il servizio dell’altare. Soprattutto si riporta esplicitamente quest’ordine ad un insegnamento degli Apostoli e all’osservanza praticata in tutto il passato (antiquitas) e lo si inculca con la conferma unanime di tutto l’episcopato africano.

Da una controversia con Roma, che fu trattata anche in queste assemblee conciliari africane, si può conoscere quanto cosciente e viva fosse in questa Chiesa la tradizione della Chiesa antica.
Il sacerdote Apiario era stato scomunicato dal suo vescovo. Egli si appellò a Roma, ove si accettò questo ricorso riferendosi ad un canone di Nicea, il quale avrebbe autorizzato tali appelli. I vescovi africani si dichiararono solidali con il loro collega nell’episcopato affermando di non conoscere questo canone niceno. In varie adunanze, alle quali parteciparono anche i delegati di Roma, si discusse questa questione di cui ci sono ancora conservati i canoni in causa Apiarii.
Gli Africani asserirono di non avere nella loro lista dei canoni niceni una siffatta disposizione e inviarono legati ad Alessandria, Antiochia e Costantinopoli per avere delle informazioni a tale riguardo. Ma anche in questi centri orientali non si sapeva nulla di un siffatto canone niceno.
La svista della Chiesa Romana si spiegò poi con il fatto che a Roma ai canoni di Nicea erano stati aggiunti quelli del Concilio di Sardica, tenutosi nell’anno 342, di nuovo sulla questione ariana e sotto lo stesso presidente che aveva presieduto il Concilio di Nicea, Hosio di Cordoba.
Per questo motivo nell’archivio di Roma i canoni disciplinari di Sardica erano stati aggiunti a quelli di Nicea e considerati poi tutti come niceni. Ora a Sardica si era realmente deciso il suddetto canone (can. 3), ma la Chiesa africana non ebbe difficoltà di provare a papa Zosimo la sua erronea attribuzione al Concilio di Nicea.

Nel Concilio del 419 fu ripetuto il testo riguardante la continenza degli ecclesiastici che nel Concilio del 390 era stato recitato da Epigonio e Genetlio e che viene ora pronunciato da Aurelio. Il delegato papale Faustino, sotto la rubrica: “Dei gradi degli ordini sacri che devono astenersi dalle loro mogli”, aggiunse: “Noi siamo d'accordo che vescovo, sacerdote e diacono, vale a dire tutti coloro che toccano i sacramenti quali custodi della castità, devono astenersi dalle loro spose”. A ciò tutti i vescovi risposero: “Siamo d’accordo che in tutti e da tutti coloro che servono all’altare deve essere custodita la castità”.

Tra le norme successive che da tutto il patrimonio tradizionale della Chiesa africana vennero rilette o nuovamente decise si trova al 25° posto il testo del trattato dal presidente Aurelio: “Noi, cari fratelli, aggiungiamo qui ancora: quanto è stato riferito riguardo alla incontinenza dalle proprie mogli da parte di alcuni chierici che erano solo lettori, è stato deciso ciò che anche in vari altri Concili è stato confermato: i suddiaconi, che toccano i santi misteri, ed i diaconi, i sacerdoti ed i vescovi devono, secondo le norme per loro vigenti, astenersi anche dalle proprie consorti, cosicché sono da tenersi come se non ne avessero; se non si attengono a questo, devono essere allontanati dal servizio ecclesiastico. Gli altri chierici non ne sono tenuti se non in età più matura. Dopo di ciò tutto il Concilio rispose: ciò che vostra santità ha detto in maniera giusta e ciò che è santo e che piace a Dio noi confermiamo”.

Abbiamo riportato queste testimonianze della Chiesa africana della fine del secolo IV e dell’inizio del secolo V così dettagliatamente a causa della loro importanza fondamentale. Da questi testi risulta la chiara coscienza di una Tradizione di origine apostolica, che si basava non solo su una persuasione generale, che da nessuno veniva messa in dubbio, ma anche su documenti ben conservati. Si trovavano in quegli anni, infatti, nell’archivio della Chiesa africana ancora gli atti originali che i Padri avevano portato con sé dal Concilio Niceno. Norme contrastanti con il celibato ecclesiastico sarebbero state respinte come la svista della Chiesa Romana riguardo ai canoni di Sardica attribuiti a Nicea.
Da tutto questo risulta anche la coscienza di una Tradizione comune della Chiesa Universale, le varie parti della quale erano in viva comunione fra di loro. Ciò che dalla Chiesa africana veniva tanto esplicitamente e ripetutamente affermato riguardo all’origine apostolica e all’osservanza tramandata dall’antichità della continenza degli ecclesiastici insieme con le sanzioni contro i contravventori non sarebbe certamente stato accettato tanto generalmente e pacificamente se non generalmente noto.
 
L’importanza di Roma

Un’affermazione generale sull’importanza della posizione di Roma per ogni questione, e perciò anche per quella sul celibato, ci viene da Sant’Ireneo di Lione il quale, essendo discepolo di san Policarpo, era collegato all’Apostolo Giovanni, di cui egli tramandava l’insegnamento, come vescovo di Lione dall’anno 178, anche alla Chiesa d’Europa. Se nella sua opera principale Contro le eresie dice che la Tradizione apostolica viene conservata nella Chiesa di Roma, che è stata fondata dagli Apostoli Pietro e Paolo, per cui tutte le altre Chiese debbono convenire con essa, possiamo ben dire che ciò vale anche per la Tradizione apostolica sulla continenza degli ecclesiastici.

Il Legato Pontificio Faustino manifestò a Cartagine la piena concordanza di Roma su questa questione, ivi solo incidentalmente sollevata.
Roma infatti aveva già sotto Papa Siricio inviato una lettera ai vescovi dell’Africa, nella quale si rendevano loro note le decisioni del sinodo romano dell’anno 386 nelle quali si inculcavano nuovamente alcune importanti disposizioni apostoliche. Questa lettera era stata comunicata durante il Concilio di Telepte dell’anno 418. L’ultima parte di essa tratta (can. 9) precisamente della continenza degli ecclesiastici.

Con questo documento veniamo ad un secondo gruppo di testimonianze sul celibato, il quale ha senza dubbio il peso più forte non solo per la coscienza circa la Tradizione osservata nella Chiesa Universale, ma anche per lo sviluppo ulteriore e l’osservanza del celibato clericale. Queste testimonianze sono contenute nelle disposizioni dei Romani Pontefici a tale riguardo.
San Leone Magno scrive a questo riguardo nel 456 al vescovo Rustico di Narbonne: “La legge della continenza è la stessa per i ministri dell’altare (suddiaconi e diaconi) come per i sacerdoti e i vescovi. Quando erano ancora laici e lettori era loro permesso di sposarsi e di generare figli. Ma assurgendo ai gradi suddetti è cominciato per loro il non essere più lecito ciò che lo era prima. Affinché perciò il matrimonio carnale diventi un matrimonio spirituale è necessario che le spose di prima non già si mandano via, ma che si abbiano come se non le avessero, affinché così rimanga salvo l’amore coniugale, ma cessi allo stesso tempo anche l’uso del matrimonio”.
Bisogna inoltre osservare che già San Leone Magno ha esteso l’obbligo di continenza dopo l’ordinazione sacra anche ai suddiaconi, cosa che fino ad allora non era chiara a causa del dubbio se l’ordine del suddiaconato appartenesse o no agli ordini maggiori.

San Gregorio Magno (590-604) fa capire, almeno indirettamente nelle sue lettere, che la continenza degli ecclesiastici veniva sostanzialmente osservata nella Chiesa Occidentale dato che egli dispose semplicemente che anche l’ordinazione a suddiacono portasse con sé, definitivamente e per tutti, l’obbligo della continenza perfetta. Inoltre si impegnò ripetutamente affinché la convivenza tra chierici maggiori e donne a ciò non autorizzate rimanesse proibita a tutti i costi e venisse perciò impedita. Siccome le spose non appartenevano normalmente alla categoria delle autorizzate, egli dava con ciò una significativa interpretazione al rispettivo canone 3 del Concilio di Nicea.

San Girolamo conosceva bene la tradizione sia dell’Occidente sia dell’Oriente e ciò per esperienza personale. Egli dice, nella sua confutazione di Gioviniano, che è del 393, senza alcuna distinzione tra Oriente ed Occidente, che l’Apostolo san Paolo, nel noto passo della sua lettera a Tito, ha scritto che un candidato all’Ordine sacro sposato doveva aver contratto matrimonio una volta sola, doveva aver educato bene i suoi figli, ma non poteva più generare altri figli in sèguito.

Dalla prassi disciplinare occidentale finora accertata consegue che la continenza dei tre ultimi gradi del ministero clericale nella Chiesa si manifesta quale obbligo, che viene riportato agli inizi della Chiesa e che è stato accolto e trasmesso come patrimonio della Tradizione apostolica orale.
Tutto ciò non appare mai come una innovazione, ma viene riferito alle origini della Chiesa. Siamo perciò autorizzati a considerare una tale prassi, conformemente alle regole del giusto metodo giuridico storico, come vero obbligo vincolante, tramandato dalla Tradizione apostolica orale prima che venisse fissato da leggi scritte.

Il “Decreto di Graziano” e la favola di Paphnuzio

Il monaco camaldolese Giovanni Graziano ha composto attorno al 1142 a Bologna la sua “Concordia discordantium canonum” chiamata poi semplicemente “Decreto di Graziano”, nel quale egli ha raccolto tutto il materiale giuridico del primo millennio della Chiesa e ha messo d’accordo le varie e differenti norme.
In questo “Decreto di Graziano” si tratta naturalmente anche della questione e dell’obbligo della continenza dei chierici e lo si fa precisamente nelle Distinzioni (della prima parte del Decreto) dalla 26 alla 34 e poi ancora dalla 81 alla 84. Lo stesso avviene anche nelle altre parti del Corpus Iuris (Canonici), che ora viene formandosi, in occasione della promulgazione delle rispettive leggi.

In Graziano ci imbattiamo subito con il fatto che nella questione del celibato ecclesiastico egli ha accettato come veramente accaduta al Concilio di Nicea la favola storica di Paphnutius e che egli, insieme al canone 13 del Concilio Trullano II del 691, ha accettato acriticamente la differenza tra la prassi celibataria della Chiesa Occidentale e Orientale.
Riguardo al celibato dei sacerdoti, dei diaconi e dei suddiaconi si invoca una notizia su un eremita e vescovo del deserto egiziano di nome Paphnuzio, il quale si sarebbe alzato per dissuadere i Padri del Concilio di Nicea dal sancire un obbligo generale di continenza, che si dovrebbe lasciare, invece, alla decisione delle Chiese particolari. Tale consiglio sarebbe stato accettato dall’assemblea.
Il noto storiografo della Chiesa, Eusebio di Cesarea, il quale era presente come Padre Conciliare, non riferisce nulla su questo episodio, certo di non poca importanza per tutta la Chiesa, ma lo sentiamo per la prima volta dopo più di cento anni dal Concilio dai due scrittori ecclesiastici bizantini: Socrate e Sozomeno.
Socrate indica come sua fonte un uomo molto vecchio che sarebbe stato presente al Concilio Niceno e che gli avrebbe raccontato vari episodi su fatti e personaggi di esso. Se si pensa che Socrate, nato attorno al 380, ha sentito questo racconto quando era lui stesso assai giovane da uno che nel 325 non poteva essere molto più di un bambino e non poteva essere preso quale testimone ben cosciente dei fatti del Concilio, anche la più elementare critica delle fonti deve avere seri dubbi sulla autenticità di questa narrazione che avrebbe bisogno di avalli ben più certi.
Questi dubbi sono stati effettivamente mossi relativamente presto nell’Occidente dal papa Gregorio VII e da Bernoldo di Costanza. Nei tempi più recenti merita attenzione il commento che Valesius, editore delle opere di Socrate e di Sozomeno, ha fatto a questa narrazione nel 1668 e che il Migne ha stampato nella sua Patrologia Greca, vol. 67. L’umanista de Valois (Valesius) dice espressamente che tale racconto su Paphnutius è sospetto perché tra i Padri del Concilio provenienti dall’Egitto non comparirebbe mai un vescovo di tale nome. E al rispettivo passo della storia del Sozomeno ripete che la storia del Paphnutius è una favola inventata, soprattutto perché tra i Padri che hanno sottoscritto gli Atti del Concilio di Nicea non vi è nessuno che abbia questo nome.
Recentemente ha indagato su questo racconto lo studioso tedesco Friedhelm Winckelmann, il quale è venuto alla conclusione, da considerare definitiva, che si tratta di un fatto inventato, perché la persona di Paphnuzio è stata tirata fuori solo più tardi, il suo nome appare solo nei manoscritti tardivi degli Atti del Concilio e perché alcuni scritti del IV secolo lo conoscono solo quale confessore della fede; solamente più tardi leggende agiografiche lo innalzano a taumaturgo e Padre del Concilio di Nicea.

1. IL CELIBATO NELLA CHIESA LATINA

Non esiste per i canonisti medievali, come già detto, nessun dubbio sulla obbligatorietà nella Chiesa Occidentale della continenza di tutto il clero maggiore. E ciò certamente perché erano ben conosciuti da loro i documenti dei Concili occidentali, soprattutto dei Concili Africani (Graziano dimostra, invece, di non conoscere il can. 33 di Elvira), dei Romani Pontefici e dei Padri. Tutti i canonisti sono generalmente d’accordo che la proibizione di sposarsi per i ministri maggiori sia da attribuirsi agli Apostoli.

Raimondo da Peñafort, che ha composto anche il Liber Extra di papa Gregorio IX, parte centrale del Corpus Iuris Canonici, dice: «I vescovi, i sacerdoti e i diaconi devono osservare la continenza anche con le loro spose (di prima). Questo hanno insegnato gli Apostoli con il loro esempio e anche con le loro disposizioni come dicono alcuni, secondo i quali la parola “insegnamento” (Dist. 84, can. 3) può essere interpretata in maniera varia. Ciò è stato rinnovato nel Concilio di Cartagine, come nella citata disposizione “cum in merito” di Papa Siricio».
Dopo le altre spiegazioni riassuntive San Raimondo viene a parlare delle ragioni dell’introduzione di tale obbligo: “La ragione era duplice: sia la purezza sacerdotale, affinché così possano ottenere in tutta sincerità ciò che con la loro preghiera chiedono a Dio (Dist. 84, cap. 3 e dict. p.c. 1 Dist. 31); la seconda ragione è che possano pregare senza impedimenti (cfr. 1 Cor.,7,5) ed esercitare il loro ufficio; perché non possono fare le due cose insieme: cioè servire la moglie e la Chiesa”.
È da notare che i Padri del Concilio di Trento non solo rinnovarono tutti gli obblighi rispettivi, ma si rifiutarono anche di dichiarare la legge del celibato della Chiesa Latina una legge puramente ecclesiastica.
La decisione, però, più radicale del Concilio di Trento per la salvaguardia del celibato ecclesiastico fu la fondazione dei seminari per l’educazione dei sacerdoti, decisa dal noto canone 18 della Sessione XXIII ed imposta a tutte le diocesi. In questi seminari dovevano essere scelti per il sacerdozio giovani non sposati, formati e fortificati per questo ministero.

2. IL CELIBATO NELLE CHIESE D’ORIENTE

Due testimoni inoppugnabili

Il Bickell nella sua difesa dell’origine apostolica del celibato ecclesiastico si era rifatto soprattutto alle testimonianze orientali.
Un testimone molto importante è il vescovo Epifanio di Salamina nell’isola di Cipro (315-403). Egli è ben noto quale conoscitore e difensore dell’ortodossia e della Tradizione della Chiesa, che aveva potuto conoscere assai bene durante la sua lunga vita di 86 anni, che abbracciano quasi tutto il secolo IV. Le sue testimonianze su fatti e condizioni del suo tempo soprattutto riguardanti la disciplina della Chiesa non si possono facilmente mettere in dubbio.
Circa la questione del celibato nella sua opera principale, chiamata Panarion e scritta nella seconda metà del secolo IV, egli dice che il Dio del mondo ha mostrato il carisma del sacerdozio nuovo per mezzo di uomini i quali hanno rinunciato all’uso dell’unico matrimonio contratto prima dell’ordinazione, o che hanno vissuto da sempre come vergini. Ciò è, dice, la norma stabilita dagli Apostoli in sapienza e santità.
Ancora più importante è la constatazione che Epifanio fa nella “Expositio fidei” aggiunta all’opera principale. La Chiesa, egli scrive, ammette al ministero episcopale e sacerdotale nonché a quello diaconale soltanto coloro che rinunciano, in continenza, alla propria sposa o che sono diventati vedovi.

Un secondo teste ci è già noto: San Girolamo è stato ordinato sacerdote nell’Asia Minore circa l’anno 379 e ha poi conosciuto nello spazio di sei anni uomini di Chiesa, comunità di monaci ed anche le dottrine e la disciplina dell’Oriente. Dopo aver dimorato per tre anni a Roma ritornò nella Palestina ove rimase fino alla morte avvenuta attorno al 420. Egli si teneva sempre in stretto contatto con la vita di tutta la Chiesa attraverso la sua familiarità con molti uomini contemporanei importanti nell’Oriente e nell’Occidente anche grazie alla sua conoscenza di molte lingue.
Le sue testimonianze esplicite sulla continenza del clero sono parecchie. Qui nuovamente si ricorda la sua opera “Adversus Vigilantium” nella quale si appella alla prassi delle Chiese dell’Oriente, dell’Egitto e della Sede Apostolica, le quali tutte accettano, afferma, solo chierici vergini, continenti e, se sposati, che hanno rinunciato all’uso del matrimonio. Con ciò abbiamo una testimonianza sulla posizione ufficiale anche della Chiesa Orientale nei riguardi della continenza dei ministri sacri.

Riguardo alla legislazione dei sinodi orientali, però, è da osservare che i Concili regionali prima di Nicea, ossia quello di Ancira e Neocesarea e quello post-niceno di Gangra, parlano  di ministri maggiori sposati, ma non ci danno una sicura informazione sulla liceità di una vita non continente dopo l’Ordinazione sacra.

Qual è ora la legislazione della Chiesa Orientale?
Come già detto, nell’Oriente esiste un’attività conciliare svolta insieme alla Chiesa Occidentale per i problemi della fede, ma non si è più arrivati ad una legislazione comune in materia disciplinare allorché cominciarono a manifestarsi nel Concilio di Trullo le prime tendenze scismatiche.
Poiché il Concilio Trullano I, dell’anno 680/81, non aveva emesso disposizioni disciplinari, l’Imperatore Giustiniano II convocò un secondo Concilio in Trullo nell’autunno del 691 nel quale si voleva finalmente raccogliere la legislazione disciplinare della Chiesa Bizantina e decidere i necessari aggiornamenti e complementi, ivi compresa soprattutto la legalizzazione di stati di fatto già esistenti, ma senza il necessario supporto normativo.
Ciò fu fatto con la promulgazione di 102 canoni che si sono poi aggiunti al vecchio Syntagma che divenne così il Syntagma adauctum, l’ultimo Codice della Chiesa bizantina.
Tutta la disciplina aggiornata riguardante il celibato fu fissata in sette canoni (3, 6, 12, 13, 26, 30, 48) di cui cito i più significativi) in forma vincolante e con le sanzioni annesse.

Un Concilio non ecumenico ma particolare della Chiesa bizantina

Da notare che questo Concilio Trullano II era un Concilio della Chiesa Bizantina, convocato e frequentato dai suoi vescovi e sostenuto dalla sua autorità che era appoggiata in modo decisivo da quella dell’Imperatore. La Chiesa Occidentale non inviò legati (anche se assistette il delegato permanente di Roma residente a Costantinopoli) e non riconobbe questo Concilio come ecumenico, nonostante ripetuti tentativi e pressioni soprattutto da parte dell’Imperatore.
Papa Sergio (687-701), che proveniva dalla Siria, rifiutò il riconoscimento. Solo Giovanni VIII (872-882) riconobbe quelle deliberazioni che non erano contrarie alla prassi Romana fin allora vigente. Ogni altro riferimento da parte dei Romani Pontefici ai canoni Trullani non potrà pretendere altro che di essere una presa di conoscenza con un riconoscimento più o meno esplicito di essi quale diritto particolare, tollerato, della Chiesa Orientale.
Premesso ciò, da quali fonti derivano ora le decisioni Trullane circa la disciplina del celibato bizantino fino ad oggi vincolanti? Per potere rispondere a questa domanda occorre esaminare prima le singole disposizioni.
Il canone 3 decide che tutti coloro che dopo il battesimo abbiano contratto un secondo matrimonio o siano vissuti in concubinato come anche coloro che abbiano sposato una vedova, una divorziata, una prostituta, una schiava o un’attrice non possono diventare né vescovi, né sacerdoti, né diaconi.
Il can. 6 dispone che ai sacerdoti e ai diaconi non è lecito contrarre matrimonio dopo l’ordinazione.
Il can. 12 ordina che i vescovi non possono, dopo la loro ordinazione, coabitare con le loro mogli e perciò non possono più usare del matrimonio.
Il can. 13 stabilisce che, contrariamente alla prassi romana che proibisce l’uso del matrimonio, i sacerdoti, i diaconi e i suddiaconi, nella Chiesa Orientale possono, per la perfezione e il retto ordine, convivere con le loro spose e usare del matrimonio, eccetto nei tempi in cui prestano il servizio all’altare e celebrano i sacri misteri.
Ciò – fu affermato – sarebbe  stato detto dai Padri radunati in Cartagine: “Sacerdoti, diaconi e suddiaconi devono essere continenti nel tempo del loro servizio all’altare, affinché ciò che è stato tramandato dagli Apostoli ed osservato da tempi antichi anche noi custodiamo, destinando il tempo a tutto, specialmente alla preghiera e al digiuno; coloro che dunque prestano servizio all’altare divino devono essere in tutto continenti nel tempo dei loro servizi sacri, affinché possano ottenere ciò che chiedono a Dio in tutta semplicità”.

Da queste disposizioni conciliari risulta quanto segue: l’Oriente conosce bene la prassi del celibato dell’Occidente e come l’Occidente si appella per la propria prassi differente ad una “tradizione” che risalirebbe fino agli Apostoli.
La Chiesa bizantina concorda anche nella legislazione Trullana con la Chiesa Latina nei punti seguenti, per i quali si richiama come l’Occidente alla Sacra Scrittura del Nuovo Testamento: il matrimonio contratto prima della sacra ordinazione deve essere stato solo uno e non con una vedova o con altre donne che la legge esclude. Un successivo matrimonio dopo l’ordinazione ricevuta non è lecito. I vescovi non possono più avere convivenza matrimoniale con la sposa, ma devono vivere in piena continenza e perciò le loro mogli non possono più abitare con loro e devono essere mantenute dalla Chiesa, anzi se ne esige l’ingresso in un monastero o l’ordinazione a diaconessa.

Un ritorno alla prassi del Vecchio Testamento

La differenza sostanziale della prassi della Chiesa Orientale riguarda i gradi di Ordine sacro al di sotto del vescovo. Per questi gradi inferiori l’astensione dall’uso del matrimonio si esige solo durante il tempo del servizio effettivo all'altare, il quale allora era limitato nell’Oriente alla domenica o ad altro giorno ancora della settimana.
Ci troviamo in realtà di fronte ad un ritorno alla prassi vigente nell’Antico Testamento che la Chiesa ha sempre esplicitamente rifiutato mentre nel concilio Trullano II  la convivenza e l’uso del matrimonio durante il tempo libero dal servizio divino non solo vengono difesi con grande risolutezza, ma ogni atteggiamento contrario viene punito con gravissime sanzioni.

La manipolazione di un testo del Concilio di Cartagine

Una motivazione della differenza tra le due posizioni i Padri del Trullano II non potevano trovarla nei loro documenti. All’Antico Testamento non volevano probabilmente appellarsi perché questo parallelismo non era più adeguato al sacerdozio del Nuovo Testamento, sostanzialmente diverso da quello del Vecchio Testamento. Tanto meno ci si voleva riferire alla legislazione imperiale.
Siccome a Costantinopoli ci si rendeva conto della falsità del racconto Paphnuziano, non rimaneva altro che risalire a testimonianze dell’antichità cristiana, che non provenissero dalla Chiesa Costantinopolitana, ma da una Chiesa a lei vicina di cui si erano accolti perfino nel proprio Codice Generale i canoni disciplinari: i canoni del Codice Africano, i quali trattavano anche espressamente della continenza clericale e per di più con un riferimento diretto agli Apostoli e alla tradizione antica della Chiesa.

Poiché questi canoni affermavano la stessa disciplina della Chiesa latina, quella cioè della continenza completa per i vescovi, i sacerdoti e i diaconi, il testo autentico dei canoni africani doveva essere modificato. Ciò era cosa tanto meno pericolosa in quanto in Oriente davvero pochi potevano controllare il latino genuino del testo originale.
Così le parole del can. 3 di Cartagine “gradus isti tres... episcopos, presbyteros et diaconos... continentes in omnibus” sono stati sostituiti nel canone 13 del Trullano con “subdiaconi... diaconi et presbyteri secundum eiusdem rationes a consortibus se abstineant” ove queste “eiusdem rationes” si riferiscono ai cambiamenti introdotti dai Padri Trullani al testo originale di Cartagine.
In tutti questi testi documentatamente manipolati si conserva, anzi, si cerca il riferimento agli Apostoli e alla Chiesa antica per dare, attraverso queste autorevoli testimonianze, al celibato bizantino e dell’Oriente lo stesso fondamento che aveva la tradizione Occidentale, dalla Chiesa latina espressamente indicato a Cartagine ed anche altrove.

Che dire di fronte a questo procedimento Trullano? I Padri Orientali si sentivano forse autorizzati a decretare delle disposizioni disciplinari: particolari per la Chiesa Bizantina poiché essi avevano da tempo insistito sulla loro autonomia giuridica nel campo dell’amministrazione e della disciplina e si sentivano legati solo in questioni dottrinali da decisioni della Chiesa Universale prese nei Concili Ecumenici ai quali avevano preso parte anche loro.
Possiamo però senza dubbio biasimare il metodo, cioè, la manipolazione dei testi che trasforma la verità nel suo contrario.

Dobbiamo ancora domandarci che cosa dice la storia su questo cambiamento dei testi per ottenere una base su cui poggiare gli obblighi nuovi e tuttora definitivi del celibato nelle Chiese Orientali.
I commenti dei canonisti della Chiesa Bizantina a questa lettura dei canoni Africani fanno capire che essi, dal secolo XIV in poi, come per esempio Matthaeus Blastares, avevano i loro dubbi sulla esattezza dei riferimenti ai testi Africani da parte dei Padri del Concilio Trullano II e che conoscevano il testo autentico originale.
Gli interpreti moderni delle disposizioni celibatarie Trullane ammettono l’inesattezza del riferimento, ma dicono che il Concilio aveva l’autorità di cambiare qualsiasi legge disciplinare per la Chiesa Bizantina e di adattarla alle condizioni del tempo. Usando di quest’autorità, potevano anche cambiare il senso originale dei testi per farli concordare con il parere e la volontà del loro Concilio. Ma – osserviamo – non era, di sicuro, oggettivamente lecito alterare l’originale attribuendogli una autenticità falsa.

La storiografia dell’Occidente ha già da tempo riconosciuto ed almeno dal secolo XVI anche denunciato per iscritto la manipolazione operata dal Concilio Trullano II riguardo ai testi Africani in materia della continenza dei ministri sacri.
Accenno qui solo a Cesare Baronio e soprattutto agli editori delle varie raccolte dei testi conciliari di cui il principale è J.D. Mansi.
Per quello che concerne poi le innovazioni ufficialmente introdotte dal Trullano nella continenza clericale, le quali riconducono il concetto neotestamentario del ministro sacro al concetto levitico dell’Antico Testamento, ci dobbiamo domandare come si poté continuare ad osservarle dopo che anche nella Chiesa Orientale il ministero effettivo dell’altare si è esteso a tutti i giorni.
Stando alle ragioni addotte per l’uso matrimoniale dei sacerdoti si sarebbe dovuto ritornare alla continenza completa come veniva praticata in Occidente anche in ossequio alle disposizioni dello stesso Concilio Trullano per sacerdoti, diaconi e suddiaconi. Ma ciò non si è fatto in nessun posto cosicché il servizio all’altare e il ministero del Santo Sacrificio sono stati disgiunti dalla continenza, benché siano stati sempre collegati ad essa, dato che venivano considerati la sua più intima ragione.

3. LA RAGIONE TEOLOGICA DEL CELIBATO ECCLESIASTICO

La crisi attuale del Sacerdozio

Il Sacerdozio di Cristo, come ci è rivelato dalla Tradizione e dalla S. Scrittura, è un mistero della nostra fede (1). Il Verbo incarnandosi ha unto e consacrato la natura umana di Cristo rendendolo Sommo Sacerdote della Nuova Alleanza. Per aderirvi, l’uomo deve aprirsi ad una visione soprannaturale e sottomettere, mediante la virtù di fede, la ragione umana ad un modo di pensare trascendente.
In tempi di viva fede, il Cristo-Sacerdote costituisce nella coscienza di tutti il centro vivo della vita di fede personale e comunitaria mentre in tempi di decadenza della fede la figura di Cristo-Sacerdote svanisce e scompare sempre di più dalla coscienza degli uomini e del mondo e non sta più nel centro della vita cristiana.
Nei tempi di viva fede non torna difficile al sacerdote il riconoscersi in Cristo, identificarsi con lui, vedere e vivere l’essenza del proprio sacerdozio in intima unione con quello di Cristo-Sacerdote, vedere in lui l’unica sorgente e il modello insostituibile del proprio sacerdozio.
In un’atmosfera di razionalismo, che rimuove sempre più dalla mente dell’uomo il soprannaturale, in un tempo di materialismo che fa svanire sempre più lo spirituale, diventa sempre più difficile per il sacerdote resistere. L’identità trascendente e spirituale del suo sacerdozio si vela sempre di più e si spegne se egli non si sforza di approfondirla e di tenerla viva in un’intima unione di vita con Cristo.
Questa situazione critica rende più che mai indispensabile per il sacerdote l’aiuto di una ascetica e di una mistica che gli scoprano in tempo i pericoli che minacciano il suo sacerdozio e che gli mostrino la necessità e i mezzi che la sua fedeltà sacerdotale richiede.

L’attuale crisi di identità del sacerdozio cattolico si manifesta in tutta la sua chiarezza attraverso la rinuncia di migliaia di sacerdoti al loro ministero, attraverso una profonda secolarizzazione di molti altri che rimangono in servizio soltanto formale ed ancora attraverso la penuria di vocazioni causata dal rifiuto di seguire la chiamata. Quindi occorre tener ben fermo che l’Ordinazione sacra crea una unione organica soprannaturale con Cristo e che il carattere che l’Ordine sacro imprime per sempre eleva l’ordinato ad organo delle funzioni sacerdotali di Cristo: “Sacerdos alter Christus”.

San Paolo scrive ai Corinzi (1 Cor., 4,1): “Così l'uomo ci consideri ministri di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio” oppure (2 Cor.,5,20): “Noi dunque fungiamo da ambasciatori di Cristo, come se Dio stesso esortasse per mezzo nostro; vi supplichiamo in nome di Cristo: riconciliatevi con Dio”. Ecco il fondamento scritturistico  dell’identificazione del sacerdote con Cristo.
Basandoci su questa affinità naturale tra Cristo e il suo sacerdote, non ci sarà difficile individuare anche la ragione teologica del celibato sacerdotale.

Uno sguardo alla Tradizione divino/apostolica della Chiesa può aiutarci a meglio interpretare la S. Scrittura e a sviluppare  questa teologia. Ciò che si può dire su questo aspetto è in parte già stato detto analizzando le testimonianze della Chiesa primitiva sulla continenza dei ministri sacri.
Già nella prima Legge scritta, cioè nel can. 33 di Elvira, sono tenuti alla continenza i chierici positi in ministerio quelli cioè che servono all’altare. Anche i canoni Africani parlano continuamente di quelli che servono all’altare e toccano i sacramenti e sono addetti al loro servizio, coloro che, a causa della consacrazione ricevuta, sono obbligati alla castità, la quale a sua volta assicura l’efficacia della preghiera impetratoria presso Dio.

Due obiezioni già confutate

Importanti ed istruttivi sono a questo riguardo soprattutto i documenti pontifici che trattano della continenza celibataria. Continuamente vengono affrontate due obiezioni attinte alla Sacra Scrittura e che vengono confutate.
La prima è la norma che dà san Paolo a Timoteo (1 Tm.,3, 2 e 3, 12) e a Tito (1, 6): i candidati devono essere, se sposati, solo “unius uxoris viri”, ossia “sposati una sola volta e per di più con una vergine”. Sia papa Siricio come anche Innocenzo I insistono ripetutamente che questo non vuol dire che essi possano vivere anche dopo l’ordinazione nel desiderio di generare figli, ma, al contrario, che ciò è stato stabilito “propter continentiam futuram / a causa della continenza da osservare in seguito”.
Questa interpretazione ufficiale del Magistero pontificio del noto brano della Sacra Scrittura, interpretazione assunta anche dai Concili, afferma che colui che aveva bisogno di risposarsi dimostrava con ciò che non poteva vivere la continenza richiesta ai sacri ministri e perciò non poteva essere ordinato. Così questa norma della Sacra Scrittura, anziché una prova contro la continenza celibataria, diventa una prova a suo favore.
Questo divieto dell’Apostolo, che nessuno che avesse contratto successivamente due (o più) matrimoni doveva essere ammesso agli ordini sacri, è stato osservato assai severamente attraverso tutti i secoli e si trova tra le irregolarità per l’ordine ancora nel Codice del Diritto Canonico del 1917 (can. 984, § 4).
Nella canonistica classica si riteneva che la dispensa da questo divieto non era possibile neanche da parte del Sommo Pontefice, perché neanche egli potrebbe dispensare contra apostolum, vale a dire contro la Sacra Scrittura e la Tradizione apostolica.

Seconda obiezione: nella 1 Cor., (9, 5) San Paolo afferma che anche lui avrebbe il diritto di avere con sé una donna come gli altri Apostoli, i fratelli del Signore e Cefa. Molti interpretano questa “donna” per “sposa” degli Apostoli, ciò che per Pietro potrebbe essere anche vero. Bisogna tenere, però, ben conto del fatto che il testo originale greco parla non semplicemente di una “gunaika” che potrebbe essere benissimo anche la moglie, ma, certamente non senza intenzione San Paolo premette la parola “adelfen” ossia “sorella” per escludere ogni malintesa confusione con una moglie.
Ci convinceremo facilmente di questa rettificazione se consideriamo che in séguito tutti i più importanti testimoni della continenza dei ministri sacri, quando parlano della sposa di tali ministri nel contesto della conseguente continenza sessuale, usano sempre la parola “soror”, sorella, così come in genere il rapporto tra gli sposi dopo l’ordinazione del marito è visto come quello di fratello e sorella. Così dice San Gregorio Magno: “Il sacerdote dal tempo della sua ordinazione amerà la sua sacerdotessa (ossia la sua sposa) come una sorella”. Il Concilio di Gerona (a. 517) decide che “se sono stati ordinati coloro che prima erano sposati, non devono vivere insieme con quella che da sposa è diventata sorella”. Ed il Concilio II di Auvergne (a. 535) dispone a sua volta: “Se un sacerdote o un diacono ha ricevuto l’ordine al servizio divino diventa subito da marito fratello di sua moglie”. Questo uso della parola sorella si trova in molti testi patristici e conciliari.
Gli uomini che hanno accolto il Vangelo di Cristo hanno compreso sin dall’inizio la richiesta del Maestro ai suoi Apostoli di dover rinunciare per il regno dei Cieli anche al matrimonio (Mt., 19,12) e che, quali discepoli in senso stretto e pieno, devono anche lasciare padre, madre, sposa, figli, fratello e sorella (Lc.,18, 29; 14, 26). Si comprende anche la parola di San Paolo circa il rapporto diverso con Dio da parte di celibi e sposati (1 Cor., 7, 32-33) e il suo significato per il celibato ecclesiastico.

I motivi del celibato sacerdotale

Anche dalla sintesi fatta da San Raimondo da Peñafort, riportata sopra, risulta con certezza che il vero motivo della continenza clericale era per quel tempo non tanto la purezza cultuale del ministro dell’altare, ma l’efficacia della preghiera mediatrice del ministro sacro, che proveniva dalla sua totale dedizione a Dio, e in genere la possibilità libera di pregare e la completa libertà per il proprio ministero e per il servizio della Chiesa appaiono già chiaramente i veri motivi della continenza completa.
Cristo ci è mostrato dalla lettera agli Efesini (5, 23-32), quale Sposo della Chiesa e la Chiesa quale unica sposa di Cristo. Perciò il sacerdote è chiamato ad essere immagine viva di Gesù Cristo Sposo della Chiesa. È chiamato, pertanto, nella sua vita spirituale a rivivere l’amore di Cristo sposo nei riguardi della Chiesa sposa. Il sacerdote non è perciò senza amore sponsale: egli ha per sua sposa la Chiesa. La sua vita dev’essere illuminata e orientata anche da questo tratto sponsale, che gli chiede di essere testimone dell’amore sponsale di Cristo, di essere quindi capace di amare la gente con cuore nuovo, grande e puro, con autentico distacco da sé, con dedizione piena, continua e fedele, ed insieme con una specie di “gelosia” (cfr. 2 Cor.,11, 2), con una tenerezza che si riveste persino delle sfumature dell’affetto materno, capace di farsi carico dei “dolori del parto” finché “Cristo” non sia formato nei fedeli (cfr. Gal., 4, 19).
Il principio interiore, la virtù che anima e guida la vita spirituale del presbitero in quanto configurato a Cristo Capo e Pastore, è la carità pastorale, partecipazione della stessa carità pastorale di Gesù Cristo. Il contenuto essenziale di essa è il dono di sé, il totale dono di sé alla Chiesa, ad immagine e in condivisione con il dono di Cristo. Con la carità pastorale che impronta l’esercizio del ministero sacerdotale come amoris officium, il sacerdote, che accoglie la vocazione al ministero, è in grado di fare di questo una scelta di amore, per cui la Chiesa e le anime diventano il suo interesse principale.
Il sacerdozio della Chiesa Cattolica appare così come un mistero il quale è, a sua volta, immerso nel mistero della Chiesa di Cristo. Ogni problema concernente il sacerdozio e soprattutto il grave, grande e sempre attuale problema del celibato non può e non deve essere visto e risolto con considerazioni e motivazioni puramente antropologiche, psicologiche, sociologiche e, in modo generale, profane e terrene.
Questo problema non si può risolvere con categorie puramente disciplinari. Ogni manifestazione della vita e dell’attività del sacerdote, la sua natura e la sua identità postulano prima di tutto una giustificazione teologica. Questa, per il celibato ministeriale, abbiamo cercato di attingerla alla storia e alla riflessione teologica che si basa sulla Rivelazione. Inoltre il sacerdozio del Nuovo Testamento non è un concetto funzionale come quello dell’Antico Testamento, ma un concetto ontologico, dal quale solo può derivare l’adeguato agire secondo l’assioma: agere sequitur esse, ossia l’azione è guidata dall’essere.

4. CONVENIENTE O NECESSARIO?

Di fronte a questa teologia del sacerdozio neotestamentario che è stata confermata e approfondita dal magistero ufficiale della Chiesa, ci dobbiamo ancora domandare se le ragioni a favore del celibato così come sono state esposte militano solo per una “convenienza” di esso o se esso non sia realmente necessario e irrinunciabile. Solo se è stato risposto rettamente a questa domanda si può anche rispondere all’altra, se cioè la Chiesa Cattolica possa decidere un giorno di modificare l’obbligo del celibato o abolirlo addirittura del tutto.

Per non correre rischi con la risposta a questa domanda, dobbiamo partire dal fatto che il sacerdozio cattolico dal Fondatore della Chiesa non è stato fondato sull’uomo che si trasforma e cambia, ma sul mistero immutabile della Chiesa e di Cristo stesso.
Secondo l’Aquinate (S. Th., III, q. 22, a. 1) il vero sacerdote è mediatore tra Dio e gli uomini e comunica le cose divine agli uomini e le cose umane a Dio. Dopo il peccato originale, la mediazione sacerdotale è riparatrice e si concentra nel Sacrificio espiatorio. Quindi il sacerdote (sacra dans) è un mediatore scelto da Dio, che offre a Dio un Sacrificio in riconoscimento della sua onnipotenza e in espiazione dei peccati umani, procurando, così, la riappacificazione tra Dio e l’uomo.
Cristo è sacerdote non per vocazione additizia, ma per l’Unione ipostatica. Quindi Egli nasce sacerdote quando il Verbo si fa carne, non lo diventa. La funzione di mediatore non si addice alla divinità di Cristo, ma alla sua umanità, poiché mediare comporta inferiorità rispetto a Dio. Quindi il soggetto del sacerdozio è l’umanità di Cristo (S. Th., III, q. 22, a. 3, ad 1um), ma la Sua umanità non può sussistere indipendentemente dalla Persona divina che l’ha assunta.
Inoltre Cristo è sacerdote e vittima assieme (S. Th., III, q. 22, a. 2) poiché mediante l’Incarnazione Egli è un mediatore capace di soffrire per la sua umanità e capace di soddisfare infinitamente per la sua divinità. L’atto sacerdotale per essenza è il sacrificio della croce riattuato sino alla fine del mondo dal Sacrificio della Messa. Il sacerdote, mediante l’Ordine sacro partecipa realmente al sacerdozio di Cristo e offre il Sacrificio della Messa, che sorpassa infinitamente tutti gli olocausti del Vecchio Testamento (S. Th., III, qq. 46-48). Egli deve imitare Cristo nell’amore con cui si è offerto al Padre per applicare agli uomini di tutti i tempi le grazie scaturite dal Sacrificio del Calvario.

L’Ordine sacro è una configurazione reale e ontologica del prete a Cristo “Sacerdote e Vittima”.
I fedeli non sono sacerdoti ministerialmente, ma sono oggetto delle cure dei sacerdoti che hanno ricevuto la sacra Ordinazione. Il Sacrificio della Messa è offerto a Dio dal prete ordinato e i fedeli si possono unire misticamente a lui per far giungere a Dio la Messa in adorazione, ringraziamento, espiazione dei peccati, soddisfazione della pena dovuta alla colpa e per chiedere tutte le grazie di ordine spirituale e materiale. Il modernismo erra nel voler equiparare, in una specie di democrazia liturgica, i fedeli al prete ordinato sacramentalmente. I fedeli tramite la mediazione dei preti ordinati tendono a Dio e perciò tra sacerdoti e fedeli laici non c’è equiparazione, neppure opposizione, ma subordinazione gerarchica.
Si capisce così il perché essenziale del celibato ecclesiastico, che “vivit in carne praeter carnem” (S. Girolamo), è il culmine della via di perfezione, alla quale l’uomo non può giungere con le sue sole forze naturali, e rende il sacerdote libero di dedicarsi esclusivamente alla missione di salvare le anime e rende le sue preghiere più vicine a Dio purissimo Spirito.

Alphonsus

NOTA

1 - Cfr. San Tommaso d’Aquino, S. Th., III, q. 22; Pio XI, Enciclica Ad catholici Sacerdotii, 20 dicembre 1935; Pio XII, Enciclica, Sacra Virginitas, 25 marzo 1954; J. M. Vosté, Studia paulina, Roma, 1928, cap. VI: Christus Sacerdos; R. Garrigou-Lagrange, Santificazione sacerdotale nel nostro tempo, 1946, tr. it. 1949, Torino, Marietti; Id., Sacerdote con Gesù Vittima e Sacerdote.




giugno 2016

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