Papato allargato? No, grazie!

di Catholicus






Certe affermazioni sono di una tale gravità da richiedere ponderata riflessione prima che se ne possa tentare una valutazione equilibrata. Serve a poco che il loro autore cerchi poi di attenuarne la portata esplosiva con dichiarazioni successive. Un testo scritto, formulato in un italiano elegante e con un lessico appropriato che sono certamente frutto di attenta revisione, letto in un ambiente accademico dei più qualificati e in un’occasione dalle risonanze planetarie, non può non essere frutto di un’intenzione deliberata e di lucida determinazione.
Mi riferisco all’inedita teologia del papato esposta, il 20 maggio scorso, da monsignor Georg Gänswein, Prefetto della Casa Pontificia nonché segretario particolare di Benedetto XVI, personaggio familiare alle élite politico-finanziarie come ai rotocalchi scandalistici, che con perfetta disinvoltura passa da una partita a tennis a una festa in discoteca e non dà certo l’impressione di un severo e discreto curiale.

L’intervento non potrebbe essere più esplicito nell’affermare l’inizio di una nuova fase, cominciata con quella svolta storica che sono state le dimissioni di Benedetto XVI e da molti percepita come «una sorta di stato d’eccezione voluto dal Cielo». «Da allora – su questo siamo tutti d’accordo – viviamo in un’epoca storica che nella bimillenaria storia della Chiesa è senza precedenti». […] In effetti, come precisato più avanti, «dall’11 febbraio 2013 il ministero papale non è più quello di prima. È e rimane il fondamento della Chiesa cattolica; e tuttavia è un fondamento che Benedetto XVI ha profondamente e durevolmente trasformato nel suo pontificato d’eccezione». La novità è individuata nella modalità di partecipazione al ministero petrino: «Egli ha lasciato il Soglio pontificio e tuttavia, con il passo dell’11 febbraio 2013, non ha affatto abbandonato questo ministero. Egli ha invece integrato l’ufficio personale con una dimensione collegiale e sinodale, quasi un ministero in comune».

«Dall’elezione del suo successore Francesco, il 13 marzo 2013, non vi sono dunque due papi, ma de facto un ministero allargato – con un membro attivo e un membro contemplativo. Per questo Benedetto XVI non ha rinunciato né al suo nome, né alla talare bianca. Per questo l’appellativo corretto con il quale rivolgerglisi ancora oggi è “Santità”; e per questo, inoltre, egli non si è ritirato in un monastero isolato, ma all’interno del Vaticano – come se avesse fatto solo un passo di lato per fare spazio al suo successore e a una nuova tappa nella storia del papato che egli, con quel passo, ha arricchito con la “centrale” della sua preghiera e della sua compassione, posta nei Giardini vaticani. […] egli non ha abbandonato l’ufficio di Pietro – cosa che gli sarebbe stata del tutto impossibile a seguito della sua accettazione irrevocabile dell’ufficio nell’aprile 2005. Con un atto di straordinaria audacia egli ha invece rinnovato quest’ufficio».

Per chi abbia un minimo di conoscenza della dottrina cattolica, simili affermazioni suonano di una gravità inaudita. Anzitutto la rinuncia all’ufficio di Pietro non è affatto una scelta impossibile, essendo prevista dal Codice di Diritto Canonico (canone 332, § 2) ed essendosi già verificata più volte nella storia. Pensare poi che si possa lasciare il soglio pontificio senza abbandonare il ministero petrino è semplicemente contraddittorio: non fondandosi sul carattere sacramentale, ma su una designazione mediante elezione, la dignità pontificia, in quanto suprema potestà di governo, è inseparabile dal suo esercizio attivo e si perde ipso facto con la rinuncia ad esso. Inoltre tale munus, in forza della sua istituzione divina, non può assolutamente essere modificato nella sua natura né scorporato in aspetti diversi assegnabili a persone distinte. Nemmeno un papa può fare qualcosa del genere: egli, avendolo ricevuto da Cristo, deve non solo esercitarlo in modo conforme alla volontà del Fondatore, ma anche conservarlo e trasmetterlo inalterato nella sua essenza. Non si vede proprio in base a quale logica, poi, la rinuncia a un ufficio possa rinnovarlo o addirittura rafforzarlo; ma questo genere di misteri è forse riservato agli iniziati della nuova gnosi.

Il papato è monarchico per diritto divino. Non esiste affatto una «dimensione collegiale e sinodale, quasi un ministero in comune» in rapporto ad esso, che è fondamento visibile di unità per la Chiesa universale proprio in quanto è il governo di uno solo sopra tutti gli altri (cf. Pio XI, Enciclica Ecclesiam Dei: AAS 15 [1923], 573-574). Di conseguenza, parlare dell’esistenza di «un ministero allargato con un membro attivo e un membro contemplativo» è contrario alla dottrina cattolica e incompatibile con la costituzione divinamente stabilita della Chiesa militante.
Appurato questo, ci si pone una serie di domande a cui, tuttavia, non è facile dare risposta senza disporre di elementi che in gran parte ci sfuggono:
1) il discorso è farina del sacco di monsignor Gänswein o si fonda su idee del suo mentore?
2) esso intende realmente affermare una nuova visione del papato o ha scopi meramente politici?
3) a chi si rivolge effettivamente: al popolo cristiano, agli ambienti che contano, a chi governa attualmente la Chiesa o ai circoli responsabili della sua elezione, indirettamente evocati a proposito della scelta di papa Ratzinger?

L’oratore, dottore in diritto canonico, ricorda un’omelia tenuta dall’allora Arcivescovo di Monaco e Frisinga il 10 agosto 1978 in memoria di Paolo VI, nella quale egli avrebbe riflettuto pubblicamente sulla possibilità di una mutazione del papato. Ciò che egli effettivamente disse in quell’occasione, in riferimento al ministero petrino, è semplicemente questo: «Paolo VI ha accettato il suo servizio papale sempre più come metamorfosi della fede nella sofferenza. […] Paolo VI si è lasciato portare sempre più dove umanamente, da solo, non voleva andare. Sempre più il pontificato ha significato per lui farsi cingere la veste da un altro ed essere inchiodato alla croce [cf. Gv 21, 18]. […] Egli ha dato nuovo valore all’autorità come servizio, portandola come una sofferenza».
Onestamente è poco per pensare ad una nuova visione del papato. Disquisire sui diversi significati della parola latina munus, peraltro, non è affatto pertinente: i termini giuridici vanno usati nel senso univoco e preciso che la tradizione e la giurisprudenza hanno conferito ad essi e che qualsiasi ecclesiastico deve aver appreso nei suoi studi di base, tanto più in un dottorato canonistico.

Uno dei principali artefici della rivoluzione conciliare, il teologo Karl Rahner, aveva invece fatto ipotesi nel senso di un’autorità pontificia con più soggetti (Vorfragen zu einem ökumenischen Amtsverständnis, 1974). Siamo quindi certi che, almeno in quegli anni e in ambiente germanofono, circolavano idee del genere. In che misura il futuro pontefice, che era stato perito conciliare del cardinal Frings, deciso sostenitore della collegialità episcopale, possa averle assorbite o condivise, lo ignoriamo. Unici indizi verbali, la frase centrale del celebre annuncio delle proprie dimissioni e il discorso tenuto all’ultima udienza generale (27 febbraio 2013): «Quapropter bene conscius ponderis huius actus plena libertate declaro me ministerio Episcopi Romae, Successoris Sancti Petri, mihi per manus Cardinalium die 19 aprilis MMV commisso renuntiare».
La drastica «decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero» è stata così illustrata: «Non porto più la potestà dell’ufficio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per così dire, nel recinto di san Pietro». Anche questa dichiarazione, per quanto sibillina, è obiettivamente troppo poco per affermare una condivisione del munus petrinum tra un “membro attivo” e un “membro contemplativo”. Nemmeno il mantenimento degli elementi simbolici da parte del papa emerito (nome, abito e stemma), per quanto enigmatico, è sufficiente a giustificare la tesi di un allargamento collegiale della funzione papale. In ogni caso, è innegabile che le eterodosse idee di Rahner possano ben servire a giustificare le inammissibili teorie di Gänswein.

Se poi ci si interroga sugli scopi del suo intervento, si ha l’impressione di inoltrarsi in un campo minato. Qualcuno ha ipotizzato che esso vada letto come un monito rivolto in modo velato al pontefice regnante; a questo può far pensare, in effetti, la conclusione del discorso: «Non ai papi ma a Cristo, al Signore stesso e a nessun altro appartiene la navicella di Pietro frustata dalle onde del mare in tempesta, quando sempre di nuovo temiamo che il Signore dorma e che non gli importi delle nostre necessità, mentre gli basta una sola parola per far cessare ogni tempesta; quando invece a farci cadere di continuo nel panico, più che le alte onde e l’ululato del vento, sono la nostra incredulità, la nostra poca fede e la nostra impazienza».
Ma è del tutto irrealistico – visto anche il clima di terrore che regna nella Curia Romana – pensare che si permetta un’audacia del genere un prelato che lavora a stretto e quotidiano contatto con il capo, a meno che non abbia, dentro e fuori la Chiesa, coperture politiche tanto potenti da tenere sotto scacco lo stesso Bergoglio (che però ha manifestamente dalla sua la quasi totalità dei poteri mediatici e finanziari).

In un’intervista messa in onda il giorno seguente dalla radio di regime, oltretutto, il Prefetto della Casa Pontificia asserisce una continuità tra i due pontificati così perfetta ed evidente che, per non riconoscerla, bisognerebbe non volerla vedere; ci sarebbe sì una diversità di “stile”, ma non di contenuti.
Si potrebbe replicare che affermazioni così perentorie e poco perspicue suonano più verosimilmente come diktat emanati dal comitato centrale del partito. Se tale continuità fosse reale, peraltro, essa inficerebbe anche il pontificato di Benedetto XVI, la cui elezione – sempre secondo il segretario – sarebbe stata esito di uno scontro epocale tra due partiti, rappresentanti, l’uno, la dittatura del relativismo e, l’altro, il vero umanesimo di Cristo. Facendoci completamente difetto quella consumata spregiudicatezza politica che, agli ecclesiastici di carriera, permette di dare, se necessario, un giorno un colpo al cerchio e l’indomani uno alla botte, siamo probabilmente troppo ingenui e sprovveduti per penetrare negli arcani di certi giochi ad altissimo livello.

Il buon senso, tuttavia, ci induce a diffidare di ricostruzioni macchinose e strampalate e ad attenerci all’evidenza dei fatti, visto che il medesimo personaggio, nell’intervista appena citata, ribadisce la tesi del doppio papato come fosse il fatto più naturale di questo mondo: «Viviamo con due Papi: uno è il Papa regnante e l’altro è il Papa emerito. Alla fine del pontificato Benedetto XVI ha promesso di aiutare la Chiesa e una volta ha detto che la Chiesa non si governa soltanto con decisioni, ma si governa anche e anzitutto con la preghiera, con la sofferenza e con il sacrificio. È ciò che continua a fare da quando è diventato Papa emerito».
Ci dispiace osservare che la Chiesa può essere governata anche con la preghiera, la sofferenza e il sacrificio solo da chi vi detiene un ufficio di governo, non da chi non lo detiene più. Ci sarebbe poi di grande conforto conoscere i riferimenti esatti della citazione ad sensum onde poterne verificare l’attendibilità, visto che, nei casi già considerati, essa si fa decisamente desiderare.

Dato che il fedele Prefetto ha non a caso utilizzato due concetti-chiave dell’ideologia ecclesiologica propugnata dall’attuale capo visibile della Chiesa (collegialità e sinodalità), la conclusione più plausibile è che l’intervento del 20 maggio, visto il carattere di ufficialità che gli conferiscono l’autore, il luogo e la circostanza, non sia altro che una poderosa spinta in avanti verso la revisione della funzione papale in senso collegiale o «semplicemente più umano e meno sacrale». È più prudente mandare in avanguardia un subalterno a preparare il terreno e a creare una disposizione mentale favorevole, prima di portare scompiglio in un dibattito concernente direttamente il proprio stesso ufficio. Mai un silenzio in materia tanto sensibile può aver significato l’assenso o sottinteso un effettivo mandato. Se poi si è provocati con una domanda diretta, come durante il volo di ritorno dall’Armenia, non si può far altro che ribadire che «c’è un solo Papa. L’altro… o forse – come per i vescovi emeriti – non dico tanti, ma forse potranno essercene due o tre, saranno emeriti. […] questo grande uomo di preghiera, di coraggio che è il Papa emerito – non il secondo Papa – […] è fedele alla sua parola» (cioè alla promessa di obbedienza al suo successore).
E il ruolo di Benedetto XVI in tutta questa commedia? Probabilmente ne sa poco o nulla, come pure della polemica scatenata dalle indiscrezioni del professor Dollinger. In fin dei conti, non è forse il suo fidato segretario a filtrare contatti e notizie?

A questo punto anche l’ultima domanda può ricevere un abbozzo di risposta sulla base di alcuni significativi accenni. La drammatica lotta tra i due partiti non si era certamente conclusa con l’elezione di Ratzinger, facendosi a un certo punto così acuta che il Papa doveva essersi visto costretto, per il bene della Chiesa, a ritirarsi da una battaglia che superava le sue forze. Se in più si considera quanti, fra i suoi stessi collaboratori, lo tradissero o gli disobbedissero, dall’aiutante di camera al Segretario di Stato, si comprende l’insistenza del segretario particolare sul carattere eccezionale del pontificato e dello stato che ha portato alle dimissioni: una situazione ingovernabile in base all’ordinamento corrente.
Il pontefice, dunque, non era più in condizione di esercitare la sua funzione e oltretutto, probabilmente, aveva ricevuto indirette minacce di morte: basti pensare alla sfacciata “profezia” del cardinal Romeo sulla scomparsa di Benedetto entro la fine del 2012 o al decesso (non senza motivo ricordato da Gänswein) dell’amata collaboratrice Manuela Camagni, investita da un’auto nel novembre del 2010.

In un discorso in cui ogni parola è soppesata e ogni riferimento puramente voluto, ora, non può non sorprendere il disinvolto quanto esplicito accenno alla cosiddetta mafia di San Gallo. Ormai si gioca a carte scoperte: anche ciò che è più scandaloso è ammesso senza alcun ritegno davanti alla Chiesa e al mondo intero. Com’è possibile tanta spudoratezza? Non sarà forse per rassicurare chi sta presentando il conto di un’elezione? Al tempo stesso, tuttavia, l’abile Talleyrand contemporaneo sembra volerne rintuzzare l’arroganza, quasi comunicando in codice: «È vero che, sconfitti nel 2005, avete vinto nel 2013; ma il papa precedente, da voi tanto odiato e avversato, è pur sempre vivo e vegeto e torna utile ai vostri piani».
L’anziano emerito – che ne sia consapevole o meno – può infatti incarnare e giustificare, grazie al suo «ben ponderato passo di millenaria portata storica», «la fine del vecchio e l’inizio del nuovo»… nel senso (massonico) di una gnostica palingenesi della Chiesa?

Checché se ne pensi, è de fide che la Sposa di Cristo non può cambiare nelle sue strutture essenziali. Altrettanto certo è che i responsabili del caos attuale, anziché reclamare la soddisfazione di quanto pattuito, dovrebbero cominciare a preoccuparsi piuttosto del redde rationem che li aspetta dinanzi al giusto Giudice.
Che ci credano o no, il momento sta per arrivare anche per loro, sia che la morte bussi alla porta, sia che il Maestro, addormentato nella barca di Pietro, si svegli e plachi la tempesta. In un caso come nell’altro, francamente, non li invidio affatto.
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luglio 2016