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Il tempo è superiore allo spazio? Intorno a una tesi di papa Bergoglio di Giulio Meiattini OSB
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Sandro Magister
L'immagine è nostra 1. Motivi di un interrogativo Nell’esortazione “Evangelii gaudium”, che può essere considerata (almeno fino ad ora) come “il manifesto” del suo pontificato, Francesco papa enumera quattro principi che hanno colpito molto i lettori e i commentatori, anche grazie alla loro formulazione schematica e simmetrica: “il tempo è superiore allo spazio” (nn. 222-225), “l’unità prevale sul conflitto” (nn. 226-230), “la realtà è più importante dell’idea” (nn. 231-233), “il tutto è superiore alla parte” (nn. 234-237). Si tratta di quattro formule o “tesi” (per il momento definiamole così) che, nel contesto immediato, vengono presentate dal pontefice come punti di riferimento e di metodo raccomandabili per raggiungere la pace sociale e il bene comune (1). Essi, infatti, sono inclusi in altrettanti paragrafi all’interno della sezione terza del cap. IV, sezione intitolata appunto "Il bene comune e la pace sociale". Come si può capire senza difficoltà, non sono principi o “tesi” di carattere biblico o teologico o che richiamino verità specifiche della fede cristiana. I pochissimi rimandi biblici (sei in tutto) presenti in questi complessivi sedici numeri sono in fondo estrinseci, al massimo illustrativi e non certo fondativi rispetto al contenuto delle quattro asserzioni (2). Sono, dunque, quelle richiamate dal papa, delle affermazioni di carattere filosofico (3). Possiamo perciò dire, senza timore di errare, che anche il papa che insiste così tanto sulla “concretezza” e guarda con diffidenza gli “ideali astratti” e le “leggi universali”, in questo caso non ha timore di formulare, in modo assertorio, quattro principi generali e universali, dunque astratti. In due passaggi, si usa perfino un’espressione insolita in un documento magisteriale: prima si dice che “è necessario postulare un principio che è indispensabile per costruire l’amicizia sociale: l’unità è superiore al conflitto” (n. 228) e poi, a proposito della superiorità della realtà sull’idea, si legge ugualmente che “occorre postulare un terzo principio” (n. 231). Ora i “postulati”, propriamente parlando, sono affermazioni aprioriche, né deduttive né induttive, tanto meno appartenenti al metodo fenomenologico. Essi sono affermazioni di principio, che non possono essere dimostrate. Il significato della parola “postulato” viene così definito dal "Vocabolario illustrato della lingua italiana" di G. Devoto e G. C. Oli: “Principio la cui validità si ammette a priori allo scopo di fornire la spiegazione di determinati fatti o di costruire una teoria” (4). E nel dizionario Zingarelli si precisa che postulare significa: “Considerare come vera, per ragioni particolari, una proposizione non evidente né dimostrata” (5). Questo metodo apriorico è, per sua natura, ipotetico e non probativo. Che poi questa forma ipotetico-postulatoria a priori sia utilizzata dall’esortazione apostolica anche e proprio lì dove si parla della superiorità della realtà sull’idea mi sembra un vero e proprio paradosso logico. Ma torniamo ai famosi quattro principi, per i quali sembra essere dunque più adatta la definizione di postulati. Trattandosi di affermazioni di carattere non teologico, bensì filosofico (6), sono da valutare in base alla ragionevolezza intrinseca che dimostrano, in modo conforme alla loro natura. Formulandoli, papa Francesco si espone al confronto e alla discussione filosofica, facendo appello all’autorità della ragione. In altri termini, essi sono da accogliere nella misura in cui reggono all’argomentazione razionale e non perché fanno parte formalmente di un pronunciamento magisteriale. È anche questo il motivo che permette di discuterli con serenità e senza timore, nel caso di un dissenso, di ledere l’autorità del magistero o di entrare in conflitto con questioni di fede e di morale. Qui non si tratta né di verità teologiche né di opportunità pastorali né di disciplina ecclesiastica. Anche questo, però, ci sorprende un poco: che nel proporre delle indicazioni in ordine alla pace e al bene comune, il vescovo di Roma ricorra non all’evangelo o alla tradizione cristiana, bensì a formule filosofiche di carattere postulatorio. E che i quattro principi richiamati richiedano un esame attento della loro consistenza e fondatezza filosofica, risulta chiaro dal fatto che non solo essi sono stati proposti in un’esortazione pontificia diretta alla Chiesa intera, ma anche perché tre di essi (il primo, il terzo e il quarto) sono stati ripresi in alcuni punti nell’enciclica “Laudato si’” (nn. 110, 141, 178, 201). Inoltre, il primo di essi, la superiorità del tempo sullo spazio, è esplicitamente menzionato nella parte iniziale dell’esortazione post-sinodale “Amoris laetitia” (cf n. 3), la quale, come sappiamo, ha toccato temi delicati e suscitato reazioni e interpretazioni quanto mai divergenti. Dunque, se ne può concludere che si tratta non di principi secondari o marginali, nella “mens” dell’attuale vescovo di Roma, ma di asserti per lui molto importanti, ai quali tiene in modo particolare e che considera quali criteri orientativi a cui ricorrere in più contesti e in campi diversi, proprio perché principi astratti dotati di universalità. Formulati per la prima volta dal papa nel quadro della questione della pace sociale, vengono poi applicati nella trattazione intorno a temi di etica dell’ambiente e in quelli riguardanti la cura della famiglia cristiana. Veramente dei principi universali, che sembrano farsi valere negli ambiti più disparati! Fin dalla prima lettura della “Evangelii gaudium” queste quattro “superiorità” (del tempo sullo spazio, dell’unità sul conflitto, della realtà sull’idea, del tutto sulla parte) hanno suscitato in me serie perplessità. Vorrei dunque tentare di abbozzare, in queste poche pagine, un esame della intelligibilità almeno del primo di questi principi. Davvero il tempo è superiore allo spazio? Quali sono gli argomenti a favore di questa tesi e quali le eventuali obiezioni? Ci possiamo poggiare su questa “verità” per lasciarsene illuminare, tra l’altro, da un punto di vista pastorale e di dottrina sociale della Chiesa? Il passaggio dal filosofico all’ecclesiale, dal filosofico al pastorale e poi infine alla dottrina sociale, secondo l’uso che papa Francesco fa di questa affermazione, è plausibile? Penso che questi interrogativi siano non solo legittimi, ma anche doverosi, visto che il Santo Padre nel suo discorso all’ultimo Convegno della Chiesa Italiana (Firenze, novembre 2015), ha fatto riferimento alla “Evangelii gaudium”, invitando i cattolici italiani a rileggerla con attenzione, cercando in essa ispirazione per il cammino ecclesiale nel nostro paese per i prossimi anni. Verso la conclusione del discorso ha detto: “In ogni comunità, in ogni parrocchia e istituzione, in ogni diocesi e circoscrizione, in ogni regione, cercate di avviare, in modo sinodale, un approfondimento della ‘Evangelii gaudium’, per trarre da essa criteri pratici e per attuare le sue disposizioni”. Prendendo sul serio questo invito, mi permetto, perciò, di sollevare alcune questioni, in tono rispettoso, ma anche franco. D’altra parte la franchezza evangelica è un altro tema caro all’attuale pontefice, e non dispiacerà a nessuno, spero, se un semplice credente che riflette e si interroga esprimerà qualche obiezione. Lo ripeto ancora una volta: parlando del rapporto fra tempo e spazio e asserendo la superiorità del primo sul secondo, papa Francesco non tocca una questione teologica, e neanche un problema che abbia attinenza diretta e intrinseca alla prassi della Chiesa o alla sua missione evangelizzatrice. Il tema è squisitamente e immediatamente filosofico. Dunque egli si espone, nei citati passi della “Evangelii gaudium”, a un dibattito nel quale non è in questione la sua autorità di maestro della fede e pastore della Chiesa, ma solo la validità delle argomentazioni in gioco. Se tuttavia egli ne fa delle fonti di ispirazione anche pastorale, è quanto mai necessario che si faccia chiarezza sulla loro effettiva solidità teorica, per assicurarsi che non ne venga a scapitare l’intera azione ecclesiale e, di riflesso, anche la comprensione che la Chiesa avrà di se stessa, dal momento che l’azione non solo segue l’essere e lo esprime, ma in certa misura lo plasma e lo modella. 2. Critica di un principio Nei pochi paragrafi dedicati a esporre la tesi della superiorità del tempo sullo spazio, papa Francesco non procede a una dimostrazione della fondatezza di questo asserto. Lo stesso succede per gli altre tre principi. D’altra parte, trattandosi di “postulati” non poteva essere altrimenti. Tuttavia, anche i postulati esigono il rispetto di una certa coerenza, se non vogliono ridursi ad affermazioni arbitrarie. Per esempio, i postulati della kantiana ragion pratica esprimono delle convenienze a loro modo ragionevoli. Così i postulati primi della geometria euclidea vengono dati come evidenti di per sé (anche se qualcuno di essi, come si sa, ha dato da discutere). Di quale evidenza o convenienza è dotato il principio di cui qui ci occupiamo? A proposito del nostro tema, papa Francesco non cita delle fonti alle quali il suo ragionamento eventualmente si appoggia e nelle quali trovare ulteriori spiegazioni. Un tentativo di spiegazione sembra darlo lui stesso nel n. 222, le cui frasi, però, appaiono poco perspicue, purtroppo. Ecco il testo di questo passaggio, che vorrebbe essere una sorta di esplicazione del perché il tempo è superiore allo spazio: “Vi
è una tensione bipolare tra la pienezza e il limite. La pienezza
provoca la volontà di possedere tutto e il limite è la
parete che ci si pone davanti. Il ‘tempo’, considerato in senso ampio,
fa riferimento alla pienezza come espressione dell’orizzonte che ci si
apre dinanzi, e il momento è espressione del limite che si vive
in uno spazio circoscritto. I cittadini vivono in tensione tra la
congiuntura del momento e la luce del tempo, dell’orizzonte più
grande, dell’utopia che ci apre al futuro come causa finale che attrae”.
Confesso la mia incapacità a seguire il pensiero espresso in queste frasi. La tensione fra pienezza e limite, con cui si esordisce, possiamo ritenerla condivisa e non abbisogna di particolari commenti, almeno in questa sede. Ma richiederebbe qualche spiegazione in più lo svolgimento successivo, che fa nascere molte domande: perché il tempo è messo in relazione alla “pienezza” (“il tempo, in senso ampio, fa riferimento alla pienezza”)? E cosa significa “tempo in senso ampio”? Esiste anche un’accezione “stretta” del concetto di tempo? E perché il “momento”, che pure fa parte del tempo, viene invece posto in connessione col “limite” e questo immediatamente con lo spazio? Perché questo rapporto: il tempo sta alla pienezza come lo spazio sta al momento-limite? Non è il limite un aspetto essenziale dell’esperienza temporale, oltre che spaziale? E se il tempo è tale in quanto include l’esperienza del limite (il non esser più del passato e un futuro comunque circoscritto dalla morte e mai dominabile del tutto), in che senso apre alla pienezza? In queste poche righe del n. 222 sono più i punti oscuri e i quesiti che si accavallano dei chiarimenti che ci si aspetterebbe di trovare. Concludere, poi, dicendo che “i cittadini vivono in tensione tra la congiuntura del momento e la luce del tempo” mi sembra confermi che si sta facendo un uso non preciso delle parole, perché ribadisce una opposizione fra “momento” (che è una categoria temporale e non spaziale) e il tempo stesso, come “orizzonte più grande”. Forse sarebbe stato più semplice affermare che il tempo, o meglio l’esperienza temporale, vive fra limite e tensione alla pienezza (ma quale pienezza?) e che ambedue questi aspetti attraversano la temporalità umana nel suo insieme, in riferimento al passato e al futuro, così come alla loro mobile e impalpabile congiuntura presente. Si ha soprattutto l’impressione che l’affermazione della superiorità del tempo sullo spazio, più che a una fenomenologia del tempo, a un procedimento logico o a un’evidenza prima, obbedisca piuttosto a un interesse: quello di avviare processi! Tutto il discorso punta infatti a questa conclusione pratica cui è rivolta l’intera attenzione: se il tempo è superiore allo spazio, allora ne deriva che l’importante è avviare processi (temporali)! Ma poiché la presupposizione su cui si fonda questa conclusione (la postulata superiorità del tempo) abbiamo visto che non è provata, ma al massimo evocata, si capisce chiaramente che l’interesse della conclusione (avviare processi) pesa più del presupposto teorico che dovrebbe fondarla. È l’interesse pratico che postula la premessa teorica. A questo punto nasce una grave riserva, non solo sul contenuto del principio postulato, ma anche sul modo di procedere: anche accettando, con le debite precisazioni, il ruolo dell’interesse nella conoscenza (7), la conoscenza ha il suo statuto proprio, che non può essere piegato disinvoltamente all’interesse, se non vogliamo cadere in paralogismi, in equivoci e in un asservimento del pensiero alla prassi. Soprattutto, ci dovrebbe essere una proporzione fra premesse teoriche e conclusioni, visto che questo è il modo di procedere del testo pontificio: prima le tesi generali, poi le conseguenze pratiche (anche se papa Francesco ordinariamente tende a privilegiare la realtà all’idea, le persone rispetto alla norma). Soffermiamoci allora sull’interesse che sembra guidare il ragionamento del papa e postulare, a ritroso, la rivendicazione teorica della superiorità del tempo sullo spazio. Ciò che al papa preme dire è che “uno dei peccati che a volte si riscontrano nell’attività socio-politica consiste nel privilegiare gli spazi di potere al posto dei tempi dei processi”; “Dare priorità allo spazio porta... a tentare di prendere possesso di tutti gli spazi di potere e di autoaffermazione. Significa cristallizzare i processi e pretendere di fermarli” (n. 223). In altre parole, più convenzionali, per papa Francesco sbilanciarsi verso lo spazio è sinonimo di immobilismo, di atteggiamento conservatore e di dominio, mentre riconoscere la superiorità del tempo ha – o avrebbe – come conseguenza il generare “nuovi dinamismi nella società” e “occuparsi di iniziare processi” (ivi). Se questo è l’interesse del papa, direi che esso è in fondo condivisibile ed è opportuno essere sollecitati a non restare attaccati ad assetti dati e posizioni di potere senza rimetterli in discussione. Ma quello che il papa stigmatizza, non mi sembra sia definibile in alcun modo come un privilegiare lo spazio sul tempo. Direi, semmai, che si tratta di un modo patologico di vivere il tempo stesso: la fissazione sul presente o sul passato, nel timore di perdere “una dimensione del tempo”, porta all’immobilismo. D’altra parte, sarebbe bene ricordare che tra le patologie dell’esperienza del tempo esiste anche quella della fuga in avanti, della rimozione o negazione del passato, o del non saper vivere il presente perché dislocati in un futuro fittizio. Ciò può trasformarsi nella malattia, di cui parleremo più avanti, del cambiamento a tutti i costi e fine a se stesso. Osservazioni, quest’ultime, che ci permettono di prendere coscienza che dare un maggior peso al tempo sullo spazio (ammesso e non concesso che sia giustificabile) non è un rimedio sicuro e garantito, perché anche il tempo lo si può vivere in modo distonico. Dunque, il principio postulato da “Evangelii gaudium” non assicura il vantaggio in vista del quale è stato appositamente coniato e non regge alla verifica teorica. Appurata questa intenzionalità, resta la domanda: era necessario addentrarsi nella difficile questione dei rapporti tempo-spazio per giungere alla conclusione che è necessario avviare processi virtuosi verso nuove condizioni e relazioni? Bisognava asserire la superiorità del tempo sullo spazio per giungere alla conclusione che interessava? La mia risposta è che non era necessario, anzi ritengo che averlo fatto non solo non renda giustizia alle esigenze della ragione, ma piuttosto le faccia torto. Dispiace dover riconoscere che queste pagine di “Evangelii gaudium” incorrono in una specie di “metabasis allos ghenos”: si è forgiato "ad hoc" un principio generale indimostrato e indimostrabile, che non solo non è in grado, come si è visto, di sorreggere l’esortazione pratica a favorire i processi, ma che ultimamente si fonda su un equivoco linguistico. Il papa, infatti, usa sistematicamente il termine spazio non in senso proprio, fisico, nella sua relazione polare al tempo, ma in senso metaforico: nei passaggi poco sopra citati di “Evangelii gaudium” (cf n. 223) si parla sempre di “spazi di potere”, come anche nella ripresa del tema nell’enciclica “Laudato si’”: “La
miope costruzione del potere frena l’inserimento dell’agenda ambientale
lungimirante all’interno dell’agenda pubblica dei governi. Si dimentica
così, che ‘il tempo è superiore allo spazio’, che siamo
sempre più fecondi quando ci preoccupiamo di generare processi,
piuttosto che di dominare spazi di potere” (n. 178).
Inutile dire che una cosa è lo spazio, in rapporto al tempo, un’altra “gli spazi di potere”! Il potere si esercita anche (e talora maggiormente) sul tempo e sulla sua gestione (per esempio la questione del cosiddetto “tempo libero”), dando luogo anche in questo caso a “spazi di potere”, in senso metaforico naturalmente. Come in senso metaforico si può parlare di “spazi di libertà”, “spazio relazionale” e via dicendo, senza che in questi casi lo spazio sia incriminabile o c’entri qualcosa. L’ostilità verso i cambiamenti e la resistenza davanti ai processi, non deriva perciò da un privilegiare lo spazio sul tempo, bensì da una distonia nel raccordo fra le dimensioni stesse del tempo nel suo intrecciarsi di passato, presente e futuro. Affermare una superiorità del tempo sullo spazio, nei termini in cui viene fatto in poche righe in “Evangelii gaudium”, appare poi anacronistico e insostenibile rispetto alla scienza (dopo A. Einstein e M. Plank) (8) e rispetto alla filosofia più recente (dopo P. Ricoeur) (9). Spazio e tempo rappresentano un intreccio unico, nell’esperienza umana, nel quale ciascuno dei due poli implica l’altro. 3. Inopportunità di un “interesse” A questo punto vorrei fare un altro passo in avanti e domandare più profondamente: pur apprezzando lo stimolo di papa Francesco, davvero l’avviare processi è così vitale oggi, tanto da diventare una priorità? Davvero puntare a questo obiettivo e richiamarlo in modo pressante è ciò di cui hanno più bisogno l’uomo o la società attuali, in specie i cattolici? È questo ciò che serve maggiormente in questa congiuntura globale della vita della Chiesa? Mi sia lecito esprimere un forte dubbio in proposito! Oggi è già in atto un grandissimo numero di processi, per giunta addirittura travolgenti e di proporzioni spesso gigantesche. La tanto citata “liquidità” della nostra società e delle nostre culture, le migrazioni dal sud al nord del mondo, lo spostamento degli equilibri geopolitici, i mutamenti valoriali e le trasformazioni apportate dalla tecnica nella sfera dell’etica, giustificano appieno la felice espressione dello stesso pontefice nel già ricordato discorso di Firenze: “Non stiamo vivendo un’epoca di cambiamenti, ma un cambiamento d’epoca”. I mutamenti sono già in atto, sono numerosi, di portata enorme e dall’estensione planetaria. Nessuna istituzione, nessuna agenzia è in grado di governarli. Noi viviamo già in una cultura altamente “processuale”, dominata dalla supervelocità dell’informatica e delle comunicazioni in tempo reale. Tanto che sono i ritmi delle “macchine pensanti” (con i loro “processori”) che si stanno imponendo sui ritmi umani. Mentre i ritmi dell’uomo sono legati ad un corpo immerso in una natura e legato a leggi biologiche e fisiche (cioè spaziali), e dunque hanno dei limiti, quelli della macchina sono ritmi del tutto desomatizzati e, con la rete, anche despazializzati, tanto da dar origine a quel mondo così rarefatto detto, non a caso, “virtuale”, cioè privo di un vero aggancio alla concretezza del “qui” spaziale. Nell’interconnessione di spazio e tempo, direi che la crisi oggi riguarda, nel vissuto umano, il polo dello spazio non meno di quello del tempo. L’ubiquità digitale e la rapidità degli spostamenti, che si disancorano sempre più dal corpo, nascondono una potenziale vertigine di onnipotenza e attenuano la percezione di avere radici situate. A ciò si aggiungano i mutamenti di ogni genere, gli incroci, le forme di commistione, le ibridazioni di tutti i generi e a tutti i livelli. Ciò che oggi non manca sono proprio i processi. Ne abbiamo a bizzeffe, di tutti i tipi e in ogni ambito. Tanto che mi sembra di poter dire che il problema principale dell’uomo odierno non è quello dell’immobilismo, quanto il non aver più dei marcatori e dei misuratori dei processi in atto. I movimenti in corso sono altamente autoreferenziali: cioè non hanno delle esternalità relativamente stabili che li possano in qualche modo misurare od orientare. Non hanno delle finalità o un senso. Tutto è in movimento e in mutamento, anche i parametri di misurazione, e ciò che ne soffre è la direzionalità di tutta questa processualità immane. Se tutto si muove, e se il “cambiamento” fine a se stesso sembra essere l’unica cosa che rimane, tutto è reso equipollente. Da notare che “cambiamento” (come “innovazione”, “ammodernamento”, ecc.) è una delle parole magiche del nostro tempo. Quale politico non dirà di voler avviare “un grande cambiamento”? La parola stessa “processo”, che il papa usa, appare così neutra che di per sé qualunque cambiamento è definibile come processo. Anche il degrado è un processo. Ma se l’importante è processualizzare e cambiare, e non mi si dice il dove e il come a cui deve portare il processo-cambiamento né il suo perché, allora nella moltiplicazione dei cambiamenti, tutto si equivale. Ora non si tratta certo di opporre ai processi in atto un atteggiamento difensivo a oltranza, che, si noti bene, non è necessariamente legato a lobby di potere, come il papa in fondo sostiene. Il timore davanti ai cambiamenti che viviamo è anche comprensibile, perché non di rado nasce dal non sapere più verso quale obiettivo questi processi ci conducono e dal constatare che insieme a vecchi baldacchini inservibili crollano anche i muri portanti del vivere sociale. Il problema è piuttosto di aiutare le persone e le collettività a non cadere in quell’angoscia che è il sintomo della nevrosi da cambiamento ossessivo. Esiste, oggi, una circolarità viziosa, fra l’ansia che i cambiamenti vertiginosi producono e il desiderio di cambiare ancora per sopportare, con diversivi sempre nuovi, la stessa ansia da cambiamento. In effetti, il testo di “Evangelii gaudium” chiarisce che i processi di cui si tratta sono orientati alla edificazione di un popolo (ma mi domando se un popolo può trovare la propria identità fuori da un territorio, cioè da uno spazio: è il problema di diverse minoranze senza patria); si afferma anche che dare la priorità al tempo significa non voler risolvere tutto e subito o non voler tener ogni cosa sotto controllo (preoccupazione, questa, anche apprezzabile, ma non vedo cosa abbia a che fare con la priorità del tempo sullo spazio: infatti la volontà di controllo e l’esercizio dispotico del potere si esercitano o possono esercitarsi anche sul tempo, come ho già detto). La mia opinione è che oggi, da parte della chiesa, la parola che ci si aspetterebbe non è: avviare processi! Questi, come ho detto, già sono in atto a dismisura, sia positivi sia negativi, e non aspettano noi cristiani per continuare la loro corsa o per autoalimentarsi. I processi avviati al tempo della caduta dell’Impero Romano e delle invasioni dei nuovi popoli euroasiatici, non furono avviati dal cristianesimo: ma questo seppe renderli meno devastanti e gradualmente incanalarli grazie a una visione orientata del mondo. Anche oggi ci si aspetterebbe che nella labilità e provvisorietà delle configurazioni sociali e culturali, economiche, politiche ed etiche, si offrissero dei criteri di valutazione e discernimento, dei riferimenti, delle topografie che servissero per comprendere all’incirca dove siamo e dove forse andiamo. Insomma, delle bussole e delle carte per orientare i fedeli e gli uomini del nostro tempo. L’umanità attuale, soprattutto nei paesi riconducibili alla cultura occidentale e al suo influsso, non soffre di immobilismo, ma di disorientamento per eccessiva mobilità. Si tratta di guidare e governare, per quanto possibile, le energie già in moto, perché non confluiscano in un pericoloso caos, ma diventino costruttive di nuovi assetti vivibili. Anche le grandi lobby di potere, non di rado, si servono della strategia della destabilizzazione – avviando processi, guarda un po’! – per ottenere determinate reazioni a loro favorevoli. Avviare processi non è per principio innocente, farlo può essere anche nell’interesse del potere da cui il papa giustamente ci mette in guardia. 4. Concludendo Un esame degli altri tre principi enucleati in “Evangelii gaudium”, porterebbe a osservazioni analoghe, soprattutto alla scoperta che l’interesse cui si mira ha la prevalenza sulla correttezza intrinseca del principio che dovrebbe giustificarlo. Non sarebbe difficile mostrarlo. L’esame del primo principio ha voluto essere un piccolo saggio esemplificativo (10). La conclusione alla quale personalmente approdo è che dai pronunciamenti magisteriali sarebbe da attendersi un linguaggio più sorvegliato e una maggiore lucidità di pensiero. Per il bene di tutti, dal momento che un esercizio corretto della ragione è un buon servizio non solo per la teologia e la vita della Chiesa, ma anche per una comunicazione virtuosa col mondo della cultura. Perché più che una maggiore importanza della realtà sull’idea, andrebbe ricordato che l’idea fa parte della realtà, essendo il pensiero un modo dell’essere e il “medium” attraverso cui l’essere per noi è conoscibile e diventa “verum”. Non curare l’idea e il processo di ideazione (anch’essa un processo!), cioè il pensiero, rischierebbe di estraniarci dall’essere che viene all’idea. L’imprecisione nell’uso dei concetti e nell’esercizio del pensiero non crea intesa, ma equivoci e confusione. La “Dei Verbum”, espressione di una ricca teologia della storia della salvezza, e in piena conformità alla natura sacramentale della Chiesa, ci ricorda l’inseparabilità dei gesti e delle parole (“gestis verbisque intrinsece inter se connexis”), dei fatti e del linguaggio. Non esiste una superiorità dei gesti sulle parole nè il viceversa. Mi preoccupa constatare che del principio-postulato qui esaminato viene fatto un uso enigmatico anche nel contesto di un documento come “Amoris laetitia”: “Ricordando che il tempo è superiore allo spazio, desidero ribadire che non tutte le discussioni dottrinali, morali e pastorali devono essere risolte con interventi del Magistero” (n. 3). Mi chiedo: quale nesso c’è fra il principio richiamato e la conseguenza tratta? Forse si intende dire che i pronunciamenti del magistero (anche “Amoris laetitia”?) sono un sintomo di fissazione immobilista o conservazione di “spazi di potere”? L’implicito sinceramente mi sfugge. In ogni caso possiamo dire che, all’insegna di questo principio, l’effetto c’è stato: si è avviata, a seguito dell’esortazione post-sinodale sulla famiglia, una serie di “processi” (dibattiti, controversie, interpretazioni diametralmente opposte, polarizzazioni, perplessità di fedeli e sacerdoti, incertezze nelle conferenze episcopali). Che si tratti di processi virtuosi questo nessuno per ora può dirlo. Personalmente oso dire che forse non è questo che sul tema della famiglia oggi maggiormente serviva. Perché, dopo ben due sinodi, neanche una pagina è stata spesa in questa esortazione sulla preparazione e formazione al matrimonio cristiano? E dire che la “relatio finalis” del secondo sinodo vi aveva dedicato un’attenzione significativa (anche se ancora non del tutto sufficiente, a mio parere). Siamo proprio sicuri che oggi i sacramenti vengano dati a dei “cristiani”? Sono convinto che questo sia il vero processo che la Chiesa ha urgente bisogno di avviare: generare alla fede e alla vita cristiana degli autentici credenti attraverso il battesimo e l’iniziazione cristiana. Poi viene il resto, anche il matrimonio, anche la costruzione della pace sociale e del bene comune. Ma al battesimo e al catecumenato c’è ancora qualcuno che ci pensa sul serio? E il battesimo non è un postulato, né un’idea astratta. Battezzare e rendere discepoli i popoli è il cuore della missione della Chiesa, è il mandato di Gesù. NOTE 1 - Sembra si tratti di principi già cari a Bergoglio prima della sua elezione al soglio pontificio. Si veda il contributo di G. Scalese, "I postulati di papa Francesco", in: http://querculanus.blogspot.it/2016/05/i-postulati-di-papa-francesco.html (accesso del 3 giugno 2016), dove veniamo informati che questi principi venivano usati da Bergoglio già nel 1974, quando era ancora provinciale dei gesuiti. Dello stesso autore si leggano anche le riflessioni dal titolo "Bergoglio e Guardini", che apportano ulteriori precisazioni al precedente contributo: http://querculanus.blogspot.it/2016/06/bergoglio-e-guardini.html (acceso del 4 giugno 2016). 2 - Se non forse i rimandi a Ef 2,14 e Col 1,20 per il secondo principio, ma con qualche incongruenza (cf sotto nota 6). Inoltre, i sottintesi teoricamente ambigui del secondo principio, o postulato, sono messi bene in evidenza da G. Scalese nel primo articolo citato alla nota 1. 3 - Lo attesta anche il tipo di autori e di testi cui si fa riferimento nelle poche note a piè di pagina: R. Guardini, "Das Ende der Neuzeit" (nota 182); I. Quiles, "Filosofia de la educacion personalista" (nota 183); Platone, Gorgia (nota 185). 4 - Cito secondo l’edizione di Milano 1967. 5 - Milano 1970 (10° ed.). 6 - Al n. 229 il principio della superiorità dell’unità sul conflitto viene poi definito come “principio evangelico”. Ma se si tratta di una verità desumibile dalla Scrittura, perché allora postularla aprioricamente e in astratto? Non sarebbe stato più logico, in un testo del magistero ecclesiale, partire direttamente dal Vangelo, invece che da una “postulazione” poi sostenuta da un paio di citazioni neotestamentarie? In realtà, quello che il testo della “Evangelii gaudium” intende per “superiorità dell’unità sul conflitto” non sembra, ad una attenta lettura, riconducibile a una qualche teologia biblica. Allora come lo prendiamo: come Vangelo o come postulato? 7 - Cf J. Habermas, "Conoscenza e interesse", con il “Poscritto del 1973”, Roma-Bari 2012. 8 - Non ho una formazione scientifica, ma una cultura generale è sufficiente per sapere che con la teoria della relatività e poi con la meccanica quantistica una separazione o un rapporto di “superiorità” fra tempo e spazio non ha assolutamente senso. Dal punto di vista della fisica moderna A. Zichichi, "L’irresistibile fascino del tempo", Milano 2000, afferma che spazio e tempo costituiscono un’unica “miscela complessa”: “È questa miscela che ci dà il sapore della realtà, senza che sia mai possibile separare le due componenti” (p. 49). 9 - Uno dei risultati più cospicui della grande opera di P. Ricoeur, "Tempo e racconto" (specialmente il vol. III: "Il tempo raccontato", Milano 1999), è esattamente la ricongiunzione fra tempo cosmico o spaziale e tempo vissuto o fenomenologico. La mediazione avviene, secondo il filosofo francese, nel tempo storico e nel “tempo cronico”, dove la dimensione fisica del movimento (stellare, solare, ecc.) come base del calendario e riferimento dei riti, rappresenta il supporto imprescindibile per l’elaborazione del senso storico degli avvenimenti e del vissuto temporale. Ricoeur ci dice che nell’esperienza umana non è possibile il tempo senza lo spazio né lo spazio senza il tempo, individuando un punto di innesto fra due grandi correnti di pensiero che trovano l’ispirazione nell’impostazione aristotelica (fisica) e in quella agostiniana (interiore). 10 - Per alcune considerazioni analitiche sugli altri tre principi si possono leggere utilmente i testi di G. Scalese citati sopra alla nota 1. (torna
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agosto 2016 AL PONTIFICATO DI PAPA FRANCESCO |