È l’espressione usata più frequentemente soprattutto in questi ultimi due anni.

Non stupisce l’espressione in sé, poiché si tratta di un auspicio lodevole: auspicare la pace, perseguirla, è cosa immediatamente condivisibile, si potrebbe dire che è cosa insita nella natura dell’uomo, sia dal punto di vista spirituale, sia, nell’immediato, dal punto di vista della conduzione ordinaria della vita.

D’accordo, dunque, perseguiamo la pace liturgica, battiamoci, anche, per ottenerla. Ma per far questo, al pari di ogni altra intrapresa del vivere umano e soprattutto del vivere religiosamente, è necessario che si faccia chiarezza su tale istanza, perché diversamente ci si arenerebbe nella palude delle buone intenzioni, che più sono generiche e onnicomprensive e più sono abbracciate con entusiasmo dagli uomini. È più facile percepire un bisogno o un desiderio che realizzarli.


Pace e guerra

Quando si parla di “pace liturgica” è logico intendere che una tale istanza nasca dalla constatazione che attualmente non vi sia una pace o la pace, ma la guerra. La guerra liturgica, che, detta così, non richiama alla mente qualcosa di preciso, di immediatamente definibile.
Ma quale guerra, …si potrebbe dire, si parli piuttosto di confusione liturgica. Non esasperiamo i toni.
Ma in realtà, se così fosse, si dovrebbe allora parlare di riordino liturgico, di riassetto liturgico. Si parla invece di “pace liturgica”, perché ciò che si percepisce allo stato attuale è una condizione di guerra liturgica.
Posti i termini della questione: pace e guerra, o guerra e pace, è necessario fare chiarezza sul significato dei termini stessi, se non ci si vuol fermare alle mere petizioni di principio o alle evocazioni semplicemente emotive.

La pace è una condizione di spirito che scaturisce direttamente dallo stato di armonia e di ordine in cui si trova qualsiasi esperienza umana.  L’espressione “vivere in pace” è sinonimo innanzi tutto di vita vissuta in armonia, e l’armonia è tutt’uno con l’ordine in cui si trovano tutte le componenti dell’esperienza vitale umana.
La pace è una condizione ideale dello spirito umano. Ma è evidente che tale condizione, proprio perché ideale, non corrisponde alla condizione reale, poiché diversamente si dovrebbe parlare di constatazione dello stato di pace in cui si svolge la vita ordinaria dell’uomo. La pace, invece, è lo stato auspicato a fronte della constatazione che la condizione reale è lo stato di guerra.
È la vita dell’uomo che è sinonimo di stato di guerra.
L’uomo, nella sua condizione umana e terrena, è la personificazione della guerra. E questo fin dall’inizio, fin dalla Genesi, il capitolo 3 lo spiega ampiamente: a causa della trasgressione l’uomo e la donna incatenano la propria esistenza alla trasgressione stessa e da quel momento si apre per loro un destino di lotta, di guerra. Guerra tra la donna e il serpente innanzi tutto, che è la madre di tutte le guerre, come Eva è la madre di tutti i viventi, tale che lo stato di guerra sarà lo stato di tutti i viventi. Guerra tra l’uomo e il creato, dal quale il sostentamento dovrà essere strappato e non semplicemente raccolto. Guerra tra l’uomo e se stesso, poiché l’uomo potrà sostenersi solo lavorando, imponendo cioè a se stesso una disciplina, una regola.
Da quel momento, lo stato di guerra è lo stato di vita ordinaria dell’uomo. Ed è da tale stato di guerra che l’uomo decaduto parte per ripristinare l’ordine e condurre una vita terrena armoniosa.

Da questi brevi cenni, che potrebbero essere sviluppati molto più ampiamente, si comprende come la “guerra”, così intrinsecamente legata al destino umano terreno, sia la pratica obbligata dell’uomo che sa di doversi condurre allo stato di pace. Il disordine instaurato dall’uomo con la trasgressione, col peccato originale, l’uomo stesso dovrà superarlo ripristinando l’ordine, conducendo una guerra contro il disordine, una guerra che innanzi tutto dovrà condurre contro se stesso: l’artefice del disordine. Lui ha infranto l’ordine, compiendo una trasgressione, lui dovrà ripristinare l’ordine muovendo guerra al disordine, al suo disordine.

La guerra è il solo mezzo umano a disposizione dell’uomo per il ristabilimento dell’ordine e, oltre che dalla Genesi, ne abbiamo la conferma, per esempio, dall’esordio del Vangelo. Il primo messaggio divino trasmesso al momento dell’Incarnazione è un richiamo alla necessità umana di fare ordine. “Pace in terra agli uomini di buona volontà”. Solo la buona volontà potrà permettere all’uomo di trovare pace in terra, solo l’adeguarsi al comando divino, solo l’esercitare una volontà retta, diritta, buona, permetterà all’uomo di raggiungere la pace.
E in terra come in cielo. Perché la stessa regola vale per riacquisire lo stato di pace originario del Paradiso: la retta volontà è la sola che condurrà l’uomo da questa valle di lacrime allo stato beato della vicinanza con Dio.
Così per la terra come per il cielo. Solo la retta volontà permetterà all’uomo di godere già qui in terra delle primizie di quella pace che è lo stato ordinario del cielo. Retta volontà che è l’esercizio della disciplina nei confronti della sua condizione umana contrassegnata dalla trasgressione, dal peccato, dal disordine.  Esercizio della retta volontà che è una guerra continua agli incessanti richiami alla trasgressione che sorgono dalle viscere dell’uomo informato dalla trasgressione, dal peccato, dal disordine.
L’uomo non nasce in uno stato di pace, ma deve conquistarselo, e per conquistarselo deve muovere guerra alla trasgressione, con l’ubbidienza al comando di Dio, deve muovere guerra al disordine, col ripristino dell’ordine.
Per ottenere la pace deve condurre la guerra. Tale è lo stato dell’uomo.

Pensare o parlare di “pace liturgica”, quindi, significa semplicemente pensare o parlare di “guerra liturgica”. Se non si ha chiara tale premessa, non solo non si potrà mai neanche intravedere la “pace”, ma sarà impossibile anche perseguirla, perché non si sa quali sono gli ostacoli che ci separano da essa, quali sono i fattori di disordine che vanno rimossi per ripristinare l’ordine.
La pace liturgica è la condizione possibile da raggiungere solo dopo aver combattuto ed eliminato tutti i fattori di disordine liturgico.

Qual è lo stato di disordine liturgico attuale?
Innanzi tutto è uno stato di trasgressione della legge di Dio, poi è uno stato di confusione tra assoluto e contingente, infine è uno stato di confusione tra pace umana e ordine, uno stato di confusione tra desiderio di tranquillità e accettazione di un ripristino parziale dell’ordine per amore prevalente della tranquillità, appunto.

Trasgressione della legge di Dio

La liturgia attuale è caratterizzata, non tanto da un certo disordine normativo e dalla conseguente creatività personale o di gruppo, quanto da un principio sovvertitore della concezione stessa di “ritus”. Il rito liturgico non viene più considerato un dato ordinato, un ritus appunto, discendente direttamente dal comando divino, ma solo una sorta di incontro tra direttive divine, più o meno definite e comprese, e istanze e percezioni umane intese per di più come fattori direttamente legati al tempo ed allo spazio e quindi, per ciò stesso, mutevoli e mai definite e definibili. In tal modo, pur tenendo presenti i comandi di Dio, si fa di tutto per conciliarli con le istanze umane, instaurando una sorta di compromesso, dove le uniche a guadagnarci sono le istanze umane, per la stessa natura dell’uomo, e gli unici a perderci sono i comandi di Dio, perché non è Dio che media i suoi comandi con l’uomo, ma l’uomo che deve sottomettere le sue istanze ai comandi di Dio. Diversamente ci si ritrova nelle stesse condizioni dei progenitori e non si risolve più il conflitto con se stessi. Diversamente si vanifica perfino la Redenzione, perché il Figlio di Dio non è venuto per mediare i suoi comandi con le istanze umane, ma è venuto ad offrire all’uomo peccatore la possibilità di riprendere la sua guerra contro le suggestioni demoniache che lo condizionano. Voglio il bene, ma faccio il male, dice San Paolo, proprio per ricordare che l’uomo è mosso prevalentemente verso il disordine, non verso l’ordine.
La liturgia moderna, quindi, per il suo carattere compromissorio tra comando divino e istanza umana, è informata dal disordine, e se si considera che per sua natura la liturgia è un “ritus”, un tutto ordinato, si comprende facilmente che più che di ritus, ordine, oggi si deve parlare di sovversione.
È questo stato di sovversione che bisogna eliminare, e questo lo si può fare solo ritornando ad una concezione della liturgia come fattore normativo a cui l’uomo deve sottostare. Tale fattore normativo si concretizza recuperando la tradizione liturgica della Chiesa, trasmessa dagli Apostoli e normata, e via via messa a punto nel corso dei secoli, dai papi. Tale fattore normativo contiene un punto qualificante: l’universalità e la atemporalità del ritus. La liturgia non può essere soggetta al divenire del mondo, proprio perché essa è uno degli strumenti principali che permette all’uomo di sganciarsi dai limiti del mondo per proiettarsi oltre il mondo stesso, per liberarsi dai vincoli personali per aderire alle leggi universali divine.
Senza il ritorno alla liturgia tradizionale si riuscirà a perpetuare solo il disordine, la guerra liturgica, e l’auspicata pace liturgica sarà solo un modo dire, sarà solo un modo per dire che ci si dovrebbe accontentare della tregua tra il disordine e l’ordine, cosa inaccettabile e impossibile per definizione stessa.


La confusione tra assoluto e contingente

La forma ordinaria del rito non è quella che può essere sopraggiunta accidentalmente e poi accettata come normale, la forma ordinaria del rito è quella che corrisponde al rito stesso nella sua essenzialità e nella sua efficacia soprannaturale. Sulla base di questa forma ordinaria è possibile che sorga la necessità di qualche particolare adattamento legato a circostanze specifiche. In questo caso, il rito ordinario, con i suoi elementi essenziali, rappresenta il punto di partenza per il possibile adattamento, ed ogni adattamento trova la sua legittimità nella riconferma di tali elementi essenziali.
Uno degli elementi essenziali del rito è il suo discendere dal cielo sulla terra, il suo consistere nella volontà di Dio espressa in diretta corrispondenza con l’oggettiva condizione umana. In questo senso esso è dato una volta per tutte e il suo perpetuarsi nel tempo corrisponde alla ripetizione del dato iniziale. Senza questa ripetizione il rito non c’è più o, quanto meno, ce n’è un altro, il quale, in quanto altro, o è dato ex novo da Dio o è il prodotto della volontà umana. Quest’ultimo caso è quello che si verifica nello stato attuale della liturgia, la volontà umana ha mutato l’essenzialità del rito ed ha prodotto qualcosa che corrisponde alle esigenze umane attuali, sancendo che l’essenziale di esso è la contingenza e la temporalità. In tal modo, il nuovo rito ha perso le sue essenziali connotazioni di universalità e atemporalità e si è avviato lungo una strada cosparsa di sempre nuovi cambiamenti per quanto cangiante è la vita contingente dell’uomo.

Questa confusione è stata generata dal convincimento che la liturgia sia al servizio dell’uomo, tale che il mutare dell’uomo comporti inevitabilmente il mutare della liturgia. In questo convincimento albergano due errori. Innanzi tutto la mutabilità dell’uomo è una cosa seria solo se si esaltano gli aspetti esteriori o accidentali dell’esistenza, poiché l’uomo intimamente non muta la sua condizione di peccatore. Potrà peccare più o meno, accentuare un peccato piuttosto che un altro, ma il suo stato di peccatore non muta. La liturgia è riferita al suo stato di peccatore, non al tipo o all’intensità del peccato commesso. Essa svolge la funzione di traino verso il superamento dello stato di peccato, non di questo o di quel peccato.

In secondo luogo, la liturgia non è al servizio dell’uomo, ma è funzionale al superamento della mera condizione umana di peccatore. Se si volesse guardare dal punto di vista dell’uomo, si dovrebbe dire che è al servizio dell’uomo come dovrebbe essere e non com’è, pertanto è l’uomo così com’è che deve sottomettersi alla liturgia per condursi all’uomo come deve essere secondo la volontà di Dio. Il che significa, in ultima analisi che non è la liturgia al servizio dell’uomo, ma l’uomo a servizio della liturgia, intendendo per uomo proprio quello che fruisce della liturgia e per il quale essa è stata data da Dio: l’uomo ordinario in stato di peccato.

Misconoscendo questi due fattori, si inverte la polarità, così che diventa il contingente la guida per la corretta comprensione della liturgia, mentre l’assoluto viene relegato in subordine.
In tale condizione non v’è più liturgia, ma semplice esercizio umano di buona volontà, che non è più lo strumento idoneo per veicolare la grazia e non lo è più perché il percorso liturgico è stato invertito: non più da Dio verso l’uomo, che con la grazia si innalza poi a Dio, ma dall’uomo verso Dio, senza più la grazia che discende dall’alto. In termini estremi si può dire che non è più l’uomo che si arrampica sulla scala della liturgia illuminata dalla luce divina, ma è l’uomo che si costruisce un percorso ascensionale poggiato sulla terra, convinto di potere scalare il cielo con le sue forze. Il solito delirio d’onnipotenza e il vecchio peccato d’orgoglio.

Desiderio di tranquillità e parziale ripristino dell’ordine

Stando così le cose, è evidente che il conseguimento della pace liturgica esige la rimozione dei fattori che sono causa del disordine. Ma per far questo è necessario condurre prima la guerra a tali fattori, eliminarli, così da ritrovarsi in un contesto ordinato, l’unico che possa consentire di parlare di pace e di praticarla.
Lungo questa direttrice, però, si incontra inevitabilmente il sentimento umano. Poste le condizioni attuali e constatato che è necessario condurre una guerra, l’uomo è portato a considerare se non sia possibile evitarla e praticare una strada più tranquilla.

In tutte le vicende del mondo si trovano insieme cose giuste e cose sbagliate, sia dal punto di vista più ortodosso, sia dal punto di vista opposto. Si pensa quindi che non dovrebbe essere difficile cercare di conciliare l’oggettivo disordine con l’ordine ideale da raggiungere, partendo proprio dalle cose giuste presenti in entrambi, così da muoversi pian piano in direzione di un sempre più ampio e definitivo ordine.
L’approccio non è impossibile, e corrisponde tra l’altro al desiderio di tranquillità che muove la maggior parte degli uomini. In tale approccio, però, è presente un grosso problema. Se si prendono in considerazione le cose giuste presenti all’interno del disordine e le si valuta come appartenenti al disordine stesso, si avalla il disordine nel suo insieme, dimenticando che le cose giuste presenti in esso non gli sono proprie, ma sono lì presenti sia accidentalmente, per la natura stessa dell’esistenza, sia strumentalmente, per la natura capziosa del disordine. Semmai, tali cose giuste, riportate alla loro vera origine, che è l’ordine, devono servire per discriminare tutto il resto, confermando la natura inaccettabile del disordine.
Anche attraverso tale approccio, quindi, l’opera di discrimine è prioritaria, e per quanto si volesse evitare una guerra aspra, si dovrà comunque praticare una guerra vera, la quale, per definizione, non è né aspra né dolce, ma giusta.

Se invece si lasciano prevalere il sentimento e il desiderio di tranquillità, il risultato che si ottiene, nella migliore delle ipotesi, è una sorta di compromesso, per così dire, tra il disordine in atto e l’ordine necessario, tale che si potrà parlare di un disordine diminuito, ma che non sarà mai l’ordine. Anzi, i fattori di disordine che permarranno, per quanto attenuati o circoscritti, svolgeranno inevitabilmente, per loro natura, la funzione di generare nuovo disordine.
In altri termini, si potrebbe dire che, ammesso e non concesso che certi fattori di disordine non possano essere totalmente rimossi, essi debbono essere solamente tollerati, in forza del bene comune attuale o, se si vuole, di una relativa pace.
Ma in questo caso bisognerebbe essere chiari e sinceri circa la valutazione del persistere di tali fattori di disordine, ristabilendo l’esatto quadro di ciò che è ordinato, primario, perenne e quindi ordinario, e ciò che è residualmente disordinato, accidentale, mutevole e quindi straordinario e  tollerato.

Forma ordinaria e forma straordinaria di uno stesso rito liturgico

Questa espressione contiene un equivoco molto pericoloso.
Supporre che la liturgia possa esprimersi contemporaneamente secondo una forma ordinaria ed una straordinaria, significa supporre che sia possibile scindere la liturgia dalla sua forma.
Ora, la forma della liturgia è il modo con cui essa si presenta alla sensibilità e alla comprensione degli uomini a cui è rivolta e al tempo stesso è l’insieme degli adattamenti che sono stati messi a punto in vista di tali uomini, fatti salvi gli elementi essenziali. In queste condizioni, possono fissarsi delle forme liturgiche così diverse da costituire una sorta di unicum che esige il mantenimento della sua specificità e l’impossibilità di interscambiabilità con altra forma. Ma in questo caso non si tratterà più di forme diverse dello stesso rito, ma di veri e propri riti diversi, pur identici nella loro essenzialità.
Il rito romano è diverso dal rito ambrosiano, pur mantenendo identici gli elementi essenziali che caratterizzano entrambi. Ma non si parlerà mai di forme diverse del rito cattolico. Correttamente si dirà che sono due riti cattolici diversi.

Ciò detto, ne deriva che uno stesso rito non può esprimersi con due forme diverse, poiché o si tratta di due riti o si genera una confusione, cioè il disordine.
Ammettere due forme del rito romano significa ammettere che una cosa è il rito romano e altra cosa sono le forme con cui esso si esprime, tale che nulla vieta che possano essercene più di due. Ora, la forma del rito è quella che permette all’uomo a cui è rivolto di comprenderlo e di seguirlo, così che di fatto essa si identifica, per l’uomo in questione, col rito stesso. È inevitabile quindi che l’uomo che segue una forma sente di seguire un rito e al cospetto di un’altra forma percepisce di trovarsi al cospetto di un altro rito. Ecco allora che avverrà inevitabilmente che egli sceglierà di seguire una forma piuttosto che un’altra sulla base del suo giudizio. In tal modo si stabilirà il profondo convincimento che ognuno può seguire la forma che più gli piace, fino al punto di esigere che vi siano più forme per quante sono le sensibilità e le preferenze dei singoli o dei gruppi.
In realtà è quello che accade oggi con il rito moderno della Messa, è indubbio che vi sono forme diverse dello stesso rito romano, praticate da gruppi cattolici diversi ed elaborati sulla base di preferenze diverse. Forme diverse che sono avallate e perfino approvate dall’Autorità. Ma sta proprio in questo tutta la gravità della crisi liturgica e della guerra liturgica. Uno stato di disordine è uno stato di guerra.
Ritenere che possa esistere una forma straordinaria del rito a fianco di una forma ordinaria significa inventarsi una novità che cozza contro la realtà.
Le forme del rito romano moderno sono già tante, di fatto, e sono colpevolmente e maldestramente diverse, non esiste un unico rito romano moderno. Dichiarare di affiancare ad esso il rito romano tradizionale definendolo forma straordinaria significa, di fatto, annoverare il rito romano tradizionale tra le diverse forme del rito romano moderno, il che, non solo è una cosa assurda, ma è soprattutto causa di un gigantesco inganno e fattore di una inaccettabile confusione.
Chi propugna la pace liturgica senza tenere conto di questo fattore, rende un cattivo servizio proprio a quella pace che vorrebbe perseguire, poiché avalla l’inganno e la confusione.


Quale soluzione?

La conseguenza logica di quanto abbiamo detto fin qui è che il fattore di disordine è il rito romano moderno, è questo che va rimosso.
Se non si rimuove il fattore di disordine non vi potrà essere ordine, quindi non vi potrà essere pace liturgica.

Tuttavia, non siamo così ingenui da ritenere possibile una cosa del genere in quattro e quattr’otto, almeno allo stato attuale. Le cose sono state spinte così avanti che non si può pensare di effettuare un’operazione chirurgica così drastica, senza l’altissima probabilità di uccidere il malato.
La gravità di questa malattia fa capire che ci troviamo al cospetto di un problema ben più grave della sola questione liturgica. Così grave che la questione liturgica si rivela essenzialmente come un sintomo, poiché il male vero non sta in essa, ma nella mutazione dottrinale che ha prodotto il rito romano moderno e ha relegato al rango di mera forma il rito romano tradizionale.

È in questa ottica che va cercata la soluzione al problema da cui siamo partiti.
La battaglia da condurre, quindi, non è contro il sintomo, ma contro il male. Solo aggredendo il male alla radice sarà possibile risolvere i sintomi da esso generati.
Si tratta di una strada difficile e ancora più accidentata di quella relativa alla guerra liturgica e per la quale valgono pari pari le considerazioni fatte fin qui.
Battere questa strada significa avere chiaro che le cose sono state spinte così avanti artatamente, perché un domani, cioè oggi, ci si trovasse a dover fare i conti con i sopraggiunti dati oggettivi attuali, tale che ogni tentativo di ritorno all’ordine fosse costretto a tenere conto di essi.

Due sono i modi per fare i conti con l’oggettivo stato della dottrina e della liturgia moderne.
Uno,  quasi impraticabile per adesso, è il loro azzeramento.
L’altro, praticabile con grande sofferenza, pazienza, perseveranza e soprattutto con l’aiuto di Dio, è l’insieme della resistenza e della testimonianza, così che quando Dio vorrà si possa giungere all’azzeramento necessario degli errori e del disordine odierni.

Le vicende del mondo e quelle della vita dell’ecumene cattolico sono inevitabilmente connesse tra loro e soggiacciono alla parabola spiritualmente discendente del fluire dell’esistenza: verranno tempi… dice il Vangelo.
Il cristianesimo e il suo persistere per volontà di Dio fino alla Parusia, costituiscono l’elemento divino che permette al mondo di continuare ad esistere finché Dio vorrà, da qui l’imperativo del fedele cattolico: salvare innanzi tutto la propria anima e poi concorrere al compimento del piano della Divina Provvidenza aiutando quanti più uomini è possibile a fare altrettanto. Questo comporta il mantenimento della fede cattolica, cioè il mantenimento della sana dottrina e della conseguente liturgia di sempre trasmesse fino a noi dalla Tradizione apostolica.
Questo imperativo, dalle connotazioni soprannaturali e che non può prescindere dalla Grazia, dev’essere perseguito dai fedeli cattolici con la chiara consapevolezza che non è col compromesso che si mantiene l’integrità della fede e si concorre al compimento del piano della Divina Provvidenza, bensì con l’adesione alla Verità, che si pratica con la salvaguardia della sana dottrina e della liturgia tradizionale anche a costo di sofferenze, emarginazioni, esclusioni e perfino condanne, al di là di ogni vicenda e di ogni suggestione mondana.

Nella conduzione pratica della vita del cattolico, oggi è più che mai attuale l’insegnamento di Nostro Signore Gesù Cristo:
«Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete fare nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano. […] Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me.… Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi.» (Gv 15, 5-6, 18 e 20)
«Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.» (Mt 5, 10-12).

Giovanni Servodio



marzo 2011

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