COLLEGIALITÀ EPISCOPALE
O
CHIESA MONARCHICA CON EPISCOPATO SUBORDINATO?

Il dilemma dei giorni nostri


di Don Curzio Nitoglia
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Essere il capo o il primo conviene ad uno solo, così anche il potere del capo conviene ad uno solo. Quindi se gli Apostoli potevano essere eguali a Pietro nell’apostolato, non potevano esserlo nel Primato di giurisdizione. Perciò nessuno può “cointendere” (come scrive Lumen gentium, 22), ossia compartecipare col Papa quanto al potere di giurisdizione che gli viene dal Primato. Affermare il contrario sarebbe una contraddizione nei termini, ossia equivarrebbe a dire che nella Chiesa vi sono due capi e due primi, oppure che il primo nella giurisdizione non è assolutamente primo, ma lo è solo relativamente al Corpo episcopale. Perciò il Papa avrebbe e non avrebbe il Primato assoluto e universale di giurisdizione.
Infatti se il Corpo dei Vescovi è compartecipe o “cointende” col Papa al potere di governo della Chiesa universale, il Papa non sarebbe più veramente Capo assoluto e supremo, ma un primus inter pares, il quale non avrebbe nessuna giurisdizione sopra i Vescovi per costringerli all’unità, ma sarebbe un loro collega più noto con un Primato di onore o puramente nominale ed inoltre senza potere legislativo, giudiziario ed esecutivo o coercitivo.

La falsa dottrina conciliarista del duplice Capo della Chiesa, condannata come eretica da Innocenzo X (24 gennaio 1647, DB, 1091), ritornata in auge in maniera più sfumata con la Collegialità episcopale del Concilio Vaticano II, viene confutata facilmente. Infatti la giurisdizione primaziale o il Primato di giurisdizione può trovarsi in uno solo, perciò l’Episcopato è subordinato e soggetto al Papa nel potere supremo di giurisdizione e di governo della Chiesa universale.

Il Concilio Vaticano II riprende e mantiene l’equivoco secondo cui il Papa ha il Primato di giurisdizione, ma lo “cointende”, ossia lo compartecipa con il Corpo dei Vescovi. Quindi da una parte riafferma la dottrina cattolica e dall’altra, contraddicendosi, la nega o almeno l’edulcora. La dottrina della Collegialità episcopale è stata innovata ufficialmente anche se pastoralmente e non dogmaticamente, il 21 novembre 1964 dalla Costituzione su “La Chiesa” del Concilio Vaticano II Lumen gentium, n. 22.  Essa attribuisce al Corpo dei Vescovi, del quale il singolo entra a far parte con la sola consacrazione episcopale, un potere e una responsabilità stabile sulla Chiesa intera e non solo sulla sua propria singola diocesi; perciò fu ritenuta da vari Cardinali e Vescovi «recante detrimento al potere primaziale del Papa ed essi contestavano che avesse solide basi nella S. Scrittura» (H. Jedin, Breve storia dei concili, Brescia-Roma, Morcelliana-Herder, 1978, p. 240).
Questa dottrina di un duplice soggetto del supremo e totale potere di magistero e impero  nella Chiesa (e quindi di un duplice Capo della Chiesa) era già stata condannata da papa Clemente VI (29 settembre 1325) nella Lettera Super quibusdam ad Mekhithar patriarca degli Armeni (DS 1050-1065, De primatu Romanae Sedis).

Il Papa, in virtù del Primato di giurisdizione sulla Chiesa universale conferitogli da Cristo, ha il potere di obbligare (insegnando, legiferando, giudicando e punendo) all’unità di fede e di carità tutta la Chiesa, ossia tutti i fedeli e tutti i Vescovi. Quindi ne segue che tutta la Chiesa (fedeli e Vescovi) ha il dovere di conservare col Papa la duplice unità di fede e di comunione. Il diritto (in questo caso del Papa), per definizione, è correlativo al dovere (dell’Episcopato).

Si prova questo principio con un argomento particolare fondato sull’unità della Chiesa mantenuta tramite l’unione di fede e di carità. Infatti l’unità visibile della Chiesa richiede l’unione visibile di tutti i fedeli e di tutti i Vescovi. Ora essa non può ottenersi direttamente perché è impossibile che tutti i cristiani comunichino direttamente e immediatamente tra di loro ed è molto difficile che tutti i Vescovi sparsi nelle loro diocesi in tutto il mondo comunichino direttamente tra di loro. Quindi occorre che i fedeli comunichino col loro Vescovo locale, il quale a sua volta comunica col Pontefice Romano, che mette d’accordo e in unione tutti i fedeli e tutti i Vescovi.
Ecco provato in concreto che il Papa è il centro e il principio dell’unità della Chiesa cattolica: ognuno comunicando col centro, il Papa, comunica con tutti quelli che sono uniti ad esso: fedeli e Vescovi (come i raggi del cerchio convergenti al loro centro fanno una sola cosa col cerchio e tra di loro). Al contrario chi (fedeli/Vescovi) si stacca dal centro (Papa), si stacca assieme da tutta la Chiesa (come da tutto il cerchio) è per questo che S. Ambrogio commentando le parole di Cristo: “Tu es Petrus et super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam” (Mt., XVI, 18) ne deduce immediatamente: “ergo ubi Petrus ibi Ecclesia” (Enarrat. in Psal. 50, n. 30). 

Conclusione

Cristo ha dato a Pietro e ai suoi successori (i Romani Pontefici) un Primato di giurisdizione (con il potere di insegnare e governare la Chiesa legiferando, giudicando e castigando), non di semplice onore. Il Concilio Vaticano I (DB, 1823) ha definito di fede questa dottrina. Pietro (Kephas = roccia) è la pietra (Kephas = roccia) sopra la quale Cristo ha edificato la sua Chiesa: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (Mt., XVI, 18-19).

Gesù presenta la sua Chiesa sotto l’immagine di una casa, di un regno e di un gregge e pone Pietro a suo fondamento, clavigero e pastore. Pietro sùbito dopo l’Ascensione di Cristo agisce come Capo supremo della Chiesa. Egli si leva nel cenacolo per proporre agli altri Apostoli di sostituire Giuda Iscariota nel Collegio apostolico; egli predica per primo il dì di Pentecoste; egli accoglie i primi pagani nel seno della Chiesa, in casa di Cornelio; egli interroga e castiga i due sposi colpevoli di menzogna; infine egli prende per primo la parola al Concilio di Gerusalemme (1). 

Il Concilio Vaticano I (DB, 1831) ha definito solennemente la dottrina del Primato del Papa, che ha sul gregge di Cristo un’autorità giurisdizionale o di governo, piena, suprema, universale, immediata e ordinaria sia per quanto concerne la fede e i costumi sia per quanto riguarda la disciplina (2).

Quindi la Collegialità episcopale è, come minimo, un annacquamento di questa definizione dogmatica. L’Episcopato non solo non è superiore al Papa ma nemmeno è eguale a lui. Gli errori del Conciliarismo e del Gallicanesimo, che insegnano la superiorità del Concilio sul Papa e che la giurisdizione dei Vescovi deriva direttamente da Dio e non tramite il Papa, sono stati condannati dalla Chiesa (cfr. DB, 1322 e 1589) ed hanno ricevuto il colpo di grazia col Vaticano I. La Chiesa è stata fondata su Pietro come roccia primaria e fondamentale e il Papa quale successore di Pietro le è essenziale; l’Episcopato pure è di istituzione divina, ma subordinatamente al Papato. Ogni potere discende da Dio direttamente sul Papa e da questi sui Vescovi (3).

Il dilemma si risolve rimanendo fedeli alla dottrina tradizionale dell’Episcopato monarchico del Papa e di quello subordinato dei Vescovi, sia riuniti in Concilio sia sparsi nel mondo.
rtù infuse e dei sette Doni dello Spirito Santo.


NOTE

1 - Cfr. S. Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles, IV, 76; E. Ruffini, La Gerarchia della Chiesa negli Atti degli Apostoli e nelle Lettere di San Paolo, Roma, 1921; E. Florit, Il Primato di San Pietro negli Atti degli Apostoli, Roma, 1942; U. E. Lattanzi, L’errore di Oscar Culmann sul Primato di Pietro, in “Protestantesimo”, a cura di A. Piolanti, Rima, 1957.
2 - Cfr.  S. Tommaso d’Aquino, S. Th., III, q. 8; R. Bellarmino, De Romano Pontifice, Venezia, 1599; R. Zapelena, De Ecclesia, Roma, 1903; D. Palmieri, De Romano Pontifice, Roma, 1931; U. E. Lattanzi, De Ecclesia, Roma, 1956. 
3 - Cfr. A. M. Vellico, De Ecclesia Christi, Roma, 1940, pp. 24-29; R. Dell’Osta, Teodoro de Lelli: un teologo del potere papale e i suoi rapporti col cardinalato nel secolo XV, Belluno, 1948 (Teodoro de Lelli è uno dei pochi grandi difensori del Primato papale nel secolo XV).





gennaio 2017
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