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Ma sessant’anni fa erano più avanti di noi di
Léon
Bertoletti
![]() Si dice “miopia” quando uno non vede bene le cose lontane. Si dice “superbia” quando uno ritiene di essere l’inventore del mondo, il primo della storia. Si dice “morale di situazione” quando uno pretende di sostituire, per le questioni etiche della vita, le norme oggettive e gli imperativi comuni con le aspirazioni soggettive e il sentimento personale. Il vaticanosecondismo ha moltiplicato la genìa miope, superba, situazionista. Ha portato in dote progressisti clericali che soffrono di amnesia, riformatori con la demenza senile, estimatori e divulgatori dell’Amoris Laetitia (intesa come pratica oltre che come esortazione apostolica) dalla memoria corta. Perché a volte basta guardare indietro per trovare già tutto; basta sfogliare e leggere pagine ingiallite magari scritte in un italiano un po’ aulico o in latino: esercizio che tra le sacre mura e i sacri palazzi, a quanto è ammesso sperare nonostante dentro e fuori circoli un diffuso analfabetismo cattolico, qualcuno dovrebbe essere ancora capace di fare. Ecco, dunque: i casi di “convivenza” (più o meno fraterna) e di “concubinato”, la “occasione necessaria” e il “peccatore pubblico” esistevano anche prima del Sessantadue e del Sessantotto; le relative voci presenti e affrontate già nei dizionari teologici anteriori alla scossa conciliare (per esempio, Aertnys-Damen, “Theologia moralis”, II, Taurini 1939, pagg. 211, 473, 477, 478 e 491-494). Sulla nozione di convivenza fraterna, monsignor Giovanni Sessolo, sostituto della Sacra Penitenzieria Apostolica, scriveva non ieri ma sessant’anni fa, nel 1957, felicemente regnante il Sommo Pontefice Pio XII: “È
la condizione di vita comune, sotto lo stesso tetto, di un uomo e di
una donna, che si trattano come fratelli, in una relazione quindi che
si distingue da quella tra sposo e sposa, perché non si
permettono non solo l’atto coniugale, ma neppure quegli atti di
confidenza e libertà che sono permessi ai coniugi; ma, nello
stesso tempo, in una relazione che si distingue da quella tra padrone e
serva o tra servo e padrona”. Concretamente, “la convivenza fraterna
è la condizione di vita che debbono imporsi tutti quelli che
hanno contratto una unione irregolare, che non può essere sanata
con un vero matrimonio e che, d’altra parte, per gravissime ragioni,
non può essere spezzata. Perché, se l’unione potesse
essere spezzata, anche a costo di grandi sacrifici (cfr. Mt. 5,29 s.),
questa sarebbe la soluzione da prendere, come quella che elimina
radicalmente ogni pericolo di peccato e di scandalo”. Siccome le
voglie, le fragilità, le debolezze, le cadute e le colpe delle
carne non sono nate con questo pontificato – come si pensa o si vuol
far credere – ecco come prosegue il Sessolo (un cognome, ne converrete,
perfettamente adeguato al tema). “Possono però esservi
gravissime ragioni contro la separazione, per esempio la prole da
educare, la necessità di aiuto reciproco e in qualche caso
(quando gli pseudoconiugi, nel luogo ove abitualmente risiedono,
fossero creduti marito e moglie) anche il pericolo di infamia e di
scandalo. Quando ci sono queste gravissime ragioni contro la
separazione, allora gli pseudoconiugi: 1) da una parte possono, senza
temerarietà, sperare da Dio l’aiuto necessario per vivere
castamente; 2) dall’altra parte possono, ragionevolmente, sperare di
poter, con opportune e prudenti dichiarazioni, rimuovere efficacemente
lo scandalo presso quelli che conoscono la loro condizione irregolare”.
Adesso viene il bello, adulatori dell’attualità ai quali è stata estirpata la facoltà del ricordo! “Se
gli pseudoconiugi vivono davvero castamente, come fratello e sorella, e
se l’eventuale scandalo è stato efficacemente rimosso, nulla
vieta che essi possano accedere ai Sacramenti. Chi giudicherà se
le due suddette condizioni sono avverate?”, si domanda pragmaticamente
il Sessolo, smentendo quegli ignobili cialtroni della pubblicistica che
rappresentano la Chiesa di una volta come una fredda difensora della
norma, dell’ideale, distante dalla vita concreta, dal reale. Risposta:
“Della vita casta giudicherà il confessore, il quale,
assicuratosi del sincero pentimento e del fermo proposito degli
pseudoconiugi di vivere castamente, suggerirà loro gli opportuni
mezzi per rendere remota ogni occasione di peccato e li
sottoporrà a un congruo periodo di prova. Dopo di che, se non ci
fosse scandalo – nel caso cioè che la loro condizione irregolare
fosse del tutto occulta – gli pseudoconiugi possono senz’altro essere
ammessi ai Sacramenti. Quando invece ci fosse scandalo, finché
questo non sarà efficacemente rimosso, gli pseudoconiugi, pur
vivendo castamente, non possono accedere ai Sacramenti, neppure in
segreto e dove nessuno li conosce. Perché non si può
ritenere ben disposto a ricevere i Sacramenti, chi rimane ancora, sia
pure altrove, causa di attuale scandalo. Della rimozione dello scandalo
è giudice l’Ordinario del luogo. Al quale spetta nel caso: 1)
stabilire i mezzi che ritiene più opportuni per la efficace
rimozione dello scandalo; 2) giudicare quando questo scandalo sia stato
effettivamente rimosso”.
Dimenticate la data. Non pare anche a voi che questa dottrina sia avanti anni luce, decisamente più attuale e moderna, onestamente più pura, limpida e chiara, meno confusionaria, estemporanea e divagante di quella espressa in nove capitoli, 325 paragrafi, 264 pagine, note e mille chiacchiere odierne? (torna
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gennaio 2017 ALL'ESORTAZIONE APOSTOLICA AMORIS LAETITIA |