Il Novissimus Ordo Missae di Bergoglio

di Alessandro Gnocchi



Pubblicato sul sito Riscossa Cristiana
nella rubrica del martedì “Fuori moda” - La posta di Alessandro Gnocchi
 
  16 febbraio 2017

Titolo, impaginazione e neretti sono nostri


Ogni martedì Alessandro Gnocchi risponde alle lettere degli amici lettori. Tutti potranno partecipare indirizzando le loro lettere a info@riscossacristiana.it, con oggetto: “la posta di Alessandro Gnocchi”. Chiediamo ai nostri amici lettere brevi, su argomenti che naturalmente siano di comune interesse. Ogni martedì sarà scelta una lettera per una risposta per esteso ed eventualmente si daranno ad altre lettere risposte brevi. Si cercherà, nei limiti del possibile, di dare risposte a tutti.


giovedì 16 febbraio 2017

E’ pervenuta in redazione:

Carissimo Alessandro Gnocchi,
in questi giorni si fa un gran parlare di ulteriori cambiamenti nella Messa. Ma che cosa sta accadendo? Dopo tutto quello che hanno già fatto, che cosa possono ancora fare? Cosa c’è dietro tutto questo? Non le nascondo che sono veramente angosciata perché continuo a pensare a quella frase di padre Pio che lei ha citato varie volte: il mondo potrebbe reggersi anche senza il sole, ma non senza la Santa Messa. Mi chiedo, si reggerà ancora questo povero mondo?

Un carissimo saluto e grazie per tutto quello che fate. Riscossa Cristiana è rimasto l’unico posto in cui si ha il coraggio di chiamare le cose con il loro nome.

Fernanda Casassa




Cara Fernanda,

ha tutte le ragioni per sentirsi angosciata perché la liturgia è il vero terreno su cui si sta combattendo la guerra tra Cristo e Anticristo. Ma, per poter spiegare chiaramente questo concetto, mi deve concedere una premessa.

Dopo la riforma liturgica seguita al Concilio Vaticano II, nel corso di soli cinquant’anni, si è fatto sempre più chiaro chi e che cosa sia andato aggregandosi attorno al Novus Ordo Missae e chi e che cosa sia rimasto aggregato attorno al Vetus Ordo Missae. Non si è trattato di una semplice scelta tra due forme dello stesso rito dettata da differenti “sensibilità liturgiche”. In realtà si è posta ai fedeli la necessità di decidere tra due diversi culti, tributati con due diversi riti a due diverse divinità: il culto dell’Uomo nella cosiddetta Messa nuova e il culto della Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo, nella Messa antica.

Le illusioni di una impensabile “pace liturgica”, seguite a una guerra feroce contro il Vetus Ordo, hanno patito una frustrazione dietro l’altra. Chi ha tentato di ritirarsi su una striscia di territorio neutrale si è visto mancare progressivamente la terra sotto i piedi e ora si trova nel vuoto.
Una volta innescato, il meccanismo della rivoluzione del culto procede inesorabilmente e non può stupire il progetto di ulteriori varianti al messale della riforma. Il progetto, direi la necessità, di modificare continuamente la liturgia è scritto fin dal principio nel Dna della Messa nuova.
L’ordinamento liturgico promulgato da Paolo VI ha inventato un rito fatto apposta per essere violentato e profanato, come dimostrano decenni di progressivi abusi a cui l’autorità romana non ha voluto e, quando anche ha timidamente tentato, non ha saputo porre argine. Con il risultato che una Messa di appena cinquant’anni, nella sua forma tipica, è divenuta un reperto archeologico inoperante e completamente dimenticato. Mentre la Messa antica si presenta ancora viva e integra nella forma che aveva assunto definitivamente con San Gregorio Magno millequattrocento anni fa.
Vorrà pur dire qualcosa, cara Fernanda, non le pare?
Fine della premessa.

Ora veniamo alla questione che la angoscia tanto.
In effetti, insediata da Bergoglio in una sorta di opera al nero, è al lavoro una riedizione del nefasto Consilium ad exaequendam Constitutionem de Sacra Liturgia che a suo tempo, guidato da Annibale Bugnini, inventò la Messa nuova. Tutto si tiene. L’accelerazione verso il baratro impressa dal pontificato bergogliano mira alla distruzione della fede cattolica, dunque deve necessariamente istituire una liturgia che ne sia lo strumento e la celebrazione.
Nell’uomo, che è una creatura liturgica, la radice della fede può essere pervertita solo pervertendo l’atto supremo di culto stabilito da Dio una volta per sempre.
Ecco perché l’opera iniziata con il Novus Ordo Missae di Paolo VI viene ora perfezionata e forse portata a compimento con quello che potremmo chiamare il Novissimus Ordo Missae di Bergoglio. Il quale, da provetto gesuita, sarà furbo e ambiguo abbastanza da incantare ancora una volta un discreto numero di gonzi.

Come vede, cara Fernanda, in questa guerra liturgica c’è un salto di livello rispetto a tutti gli orrori che si possono celare in un’intera biblioteca di Amoris laetitia. Qui si arriva a oscurare ciò che, secondo padre Pio, regge il mondo. Per quanto bestiale sia, la somma di tutti gli atti morali contro la legge divina non potrà mai essere grave quanto l’inversione di un culto tributato all’Uomo invece che alla divina Trinità. Ne sono solo la conseguenza e per questo combatterli senza estirparne la radice può essere meritorio ma sarà sterile.
Non è possibile battersi contro il culto dell’Uomo che si manifesta in Amoris laetitia senza schierarsi esclusivamente e definitivamente per il vero culto di Dio.

Ma la necessità di una scelta fondata sull’evangelico “sì sì no no” si rende ineludibile ora che l’intento di rendere definitivamente gradito ai protestanti il messale di Paolo VI è stato scoperto.

E lei, cara Fernanda, si chiede che cosa possano fare che già non abbiano fatto.
Cerco di spiegarglielo con le parole pacate ma inesorabili del teologo benedettino Ghislain Lafont.

Il 4 luglio dello scorso, sulla rivista online del Centro Editoriale Deohniano “Settimana News”, in vista del sacrilego viaggio svedese di Bergoglio, padre Lafont pubblicava un articolo eloquentemente intitolato “2017: pensiamo l’intercomunione”. Questi i passi più importanti di cui ho nerettato due parti:
Un celebre padre del deserto, Evagrio Pontico, dava questo consiglio: “Se hai un problema con un fratello, invitalo a pranzo”. Facendo così, in effetti, ci si dispone al perdono, che facilita la riconciliazione. Dapprima si tratta la persona in modo onorevole, la si “riconosce” perché la si invita; poi le si offre del cibo e quindi – almeno per questo pasto – le si dona la vita, le si dice con questo gesto che la sua vita è preziosa. Se il fratello accetta l’invito, significa che egli ritiene un incontro, per quanto poco sia, una possibile tappa nella relazione. Il contesto che in questo modo verrà a definirsi aiuterà a scambiarsi alcune parole con una certa dolcezza. Si potrà percepire che non è necessario essere d’accordo su tutto e che si possono permettere reciprocamente divergenze di valutazione o di condotta, restando tuttavia in comunione.

Non possiamo trovare in questo consiglio che attinge alla saggezza dei Padri un suggerimento che riguardi l’unità delle Chiese? L’intercomunione attualmente è considerata e applicata come un fine: ci si comunicherà insieme quando si troverà l’accordo sull’espressione della fede, dei costumi, dell’istituzione della Chiesa e quando si sarà venuti a capo dei contenziosi che ingombrano la memoria delle Chiese e gravano sul loro presente. Ma è un buon metodo questo? (…) Ci si può domandare se il processo inverso non sarebbe, a medio o lungo termine, più efficace: anzitutto perché coinvolgerebbe persone reali in comunità concrete, poi perché creerebbe opportunamente un clima di comunione che permetterebbe dialoghi e perdoni impossibili finché si resta sulle proprie posizioni.

Questa sequenza (comunione prima, discussione dopo) è forse impossibile attualmente con le Chiese d’Oriente. (…) Ma non è lo stesso con le comunità nate dalla Riforma: esse appartengono allo stesso universo storico e culturale delle comunità cattoliche, quello in definitiva dell’Europa. (…)

Per questo mi domando se la commemorazione del V centenario della Riforma non debba centrarsi sull’interrogativo: come fare la comunione insieme nel 2017? (…)

Una volta di più, non penso che la risposta a questi interrogativi debba comportare un accordo completo sui dissidi, ma solo il minimo indispensabile a una comunione liturgica autentica. E in cosa consiste questo minimo? Siamo tutti d’accordo sull’obbedienza alla Scrittura: questa ci racconta l’ultima cena di Gesù con i suoi discepoli e il suo comandamento di ripeterla (Mc 14,22-24 e par.); d’altra parte, essa attesta l’obbedienza della prima generazione cristiana a tale comandamento (1Cor 10,16-17 e 11,17-34). Dunque, celebrando così ci poniamo insieme sulle orme di Gesù, e soprattutto egli si pone sulle nostre.

La mitezza del linguaggio di padre Lafont non deve ingannare circa la violenza del messaggio contenuto nel suo articolo. L’inversione del metodo, che prevede prima la comunione eucaristica e solo dopo la condivisione della fede, sarebbe già sacrilega se fosse conservato da parte cattolica il contenuto teologico dell’eucaristia. Ma, in realtà, per arrivare all’intercomunione, bisogna spingersi ben oltre il sacrilegio. Bisogna giungere fino alla negazione della Presenza Reale e della natura sacrificale della Messa, così soavemente dimenticate nello scritto di padre Lafont.
Come insegna il teologo benedettino, ci si deve ridurre a quel “minimo indispensabile” di “obbedienza alla Scrittura”, la quale “ci racconta l’ultima cena di Gesù con i suoi discepoli e il suo comandamento di ripeterla (Mc 14,22-24 e par.); d’altra parte, essa attesta l’obbedienza della prima generazione cristiana a tale comandamento (1Cor 10,16-17 e 11,17-34)”.



A questo punto, cara Fernanda, tutto è compiuto, l’inversione è avvenuta. Non a caso, padre Lafont spiega che non è più l’uomo a porsi sulle orme di Gesù, ma Gesù a porsi sulle orme dell’uomo. Di cattolico non è rimasto più nulla, nemmeno i paramenti, che molti anglicani e persino certo luterani hanno conservato con cura mentre i figli degeneri di Santa Romana Chiesa hanno da tempo gettato alle ortiche.

Come tale disegno verrà realizzato non è ancora dato sapere. È facile ipotizzare che si farà attraverso le traduzioni del messale in lingua volgare e con l’adozione di un linguaggio mimetico capace di ingannare i più distratti e i più ignoranti, specialmente tra i sacerdoti. Ma è certo che un tale progetto può realizzarsi solo tramite l’attacco alla formula della consacrazione. Ormai, non rimane più altro da aggredire e il Nemico fiuta che i tempi sono maturi.

Si concretizzerebbe così l’incubo descritto da Sant’Ireneo di Lione nel trattato Contro le eresie.
E per questo motivo Daniele dice ancora: ‘Il santuario sarà desolato: è stato offerto il peccato al posto del sacrificio e la giustizia è stata gettata a terra. Lo ha fatto e ha avuto successo’. L’angelo Gabriele (…) poi, intendendo indicare anche la durata della tirannide, durante il cui tempo saranno messi in fuga i santi che offrono a Dio un sacrificio puro, afferma: ‘E a metà della settimana verranno soppressi il sacrificio e la libagione e nel tempio si verificherà l’abominio della desolazione e sino alla fine del tempo sarà dato compimento alla desolazione’. (…) le cose (…) profetizzate da Daniele riguardo alla fine dei tempi sono state comprovate dal Signore, là dove dice ‘Quando vedrete l’abominio della desolazione annunciata dal profeta Daniele’”.

L’abominio della desolazione profetizzato da Daniele, comprovato da Nostro Signore ed evocato da Sant’Ireneo è, inequivocabilmente, un mondo senza Messa, peggio ancora: un mondo oscurato da una messa falsa.
A tale proposito, è di inquietante suggestione quanto dom Guéranger scriveva nel XIX secolo nelle sue Conferenze sul Santo Sacrificio:
“Nel Communicantes, come nel Confiteor, non si menziona San Giuseppe, perché la devozione a questo Santo benedetto era riservata ai tempi ultimi”.

Non può sfuggire che il nome di San Giuseppe è stato inserito nel Canone sotto il pontificato di Giovanni XXIII con il decreto De S. Ioseph nomine Canone Missae inserendo, del 13 novembre 1962.


“Senza dubbio” scrive ancora dom Guéranger “se ci fosse stato concesso solamente di poter adorare il Signore, presente in mezzo a noi, sarebbe stato già molto, ma c’è stato dato molto di più nella Comunione. Tuttavia, il Sacrificio rimane ben al di sopra di questi due primi benefici. Infatti, attraverso il Sacrificio possiamo agire su Dio stesso, senza che Egli abbia il diritto d’esser indifferente ad esso, poiché, altrimenti, attenterebbe alla sua stessa gloria. E siccome Dio ha fatto tutto per la sua gloria, presta attenzione al Sacrificio della Messa e accorda, in un modo o nell’altro, ciò che gli viene domandato. Così neppure una sola Messa si celebra senza che si compiano i quattro fini del gran Sacrificio: l’adorazione, il ringraziamento, la propiziazione e l’impetrazione; e ciò perché Dio vi si è obbligato. Quando Nostro Signore, insegnandoci a pregare diceva: santificetur nomen tuum, era già molto, e questa domanda riguarda grandemente la gloria di Dio. Ma nella Santa Messa abbiamo molto di più: possiamo dire a Dio che non ha il diritto d’ignorare il Sacrificio, perché in esso è Gesù Cristo che si offre, e non può fare a meno d’ascoltare, perché è Gesù Cristo che prega”.

Capisce, cara Fernanda, che cosa è in gioco? E tenga presente che, senza Sacrificio, non c’è sacerdozio. E come sia un mondo senza Sacrificio e senza sacerdozio lo spiega ancora dom Guéranger:
“Dai termini che adopera la Chiesa comprendiamo quanto la Santa Messa s’allontani dalle devozioni private. Deve dunque venire prima di tutte, e le sue intenzioni devono essere rispettate. Così la Chiesa fa partecipe di questo grande Sacrificio tutti i suoi membri; questo fa sì che, se il Santo Sacrificio della Messa cessasse, non tarderemmo a ricadere nell’abisso di depravazione in cui si trovavano i pagani, e questa sarà l’opera dell’Anticristo. Questi metterà in pratica tutti i mezzi possibili per impedire la celebrazione della Santa Messa, affinché questo grande contrappeso sia abbattuto, e così Dio metta fine a tutte le cose, non avendo più ragione di farle sussistere”.

Alessandro Gnocchi

Sia lodato Gesù Cristo



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