C’era una volta il papà

di Alessandro Gnocchi



Pubblicato sul sito Riscossa Cristiana
nella rubrica del martedì “Fuori moda” - La posta di Alessandro Gnocchi
 
  16 marzo 2017

Titolo, impaginazione e neretti sono nostri


Ogni martedì Alessandro Gnocchi risponde alle lettere degli amici lettori. Tutti potranno partecipare indirizzando le loro lettere a info@riscossacristiana.it, con oggetto: “la posta di Alessandro Gnocchi”. Chiediamo ai nostri amici lettere brevi, su argomenti che naturalmente siano di comune interesse. Ogni martedì sarà scelta una lettera per una risposta per esteso ed eventualmente si daranno ad altre lettere risposte brevi. Si cercherà, nei limiti del possibile, di dare risposte a tutti.


giovedì 16 marzo 2017


E’ pervenuta in redazione:

Gentile Alessandro Gnocchi,

il 19 marzo si usa festeggiare i papà. Lo fanno anche i miei figli che hanno otto e dieci anni e io li lascio fare, ma ogni anno mi sento sempre più a disagio perché mi pare che anche l’affetto sincero dei piccoli sia utilizzato da una cosa finta. Mia moglie mi dice di lasciar perdere e di dare soddisfazione ai bambini. Penso che abbia ragione lei, ma solo fino a un certo punto. Mi sbaglio?

Un cordiale saluto

Goffredo Marini



 

Caro Goffredo, non si sbaglia. Partiamo dall’elemento comune a tutte le feste, il calendario. Sulla maggior parte di quelli in circolazione, assieme a Tutti i Santi, è stato eliminato anche San Giuseppe.
Il silenzioso falegname di Nazareth è stato il modello canonico al quale generazioni e generazioni di padri, fino a qualche tempo fa, si sono rivolte con fiducia ben riposta, senza bisogno della “giornata mondiale dei papà”, ridotta a fare il paio con la “giornata mondiale dei microrganismi”.
La pubblicità e la televisione non avevano ancora inventato la festa, ma i genitori di sesso maschile sposati con una genitrice di sesso femminile avevano già un patrono.

Poi, a forza di cioccolatini, cravatte, libri di Enzo Biagi e meditazioni del cardinale Martini, la musica è cambiata. Tratta dal nulla del tubo catodico al solo scopo di vendere, la figura del papà è diventata quello che i tempi moderni hanno voluto.
Tempi in cui fare la festa al padre significa farlo fuori, naturalmente porgendogli lo smartbox più trendy. Un vero e proprio delitto, con tanto di occultamento del cadavere, rimozione dell’arma del delitto e oblio del movente.

Un delitto quasi perfetto, se non fosse che col tempo qualcuno se ne è accorto e ha denunciato il fattaccio. Casi coraggiosi e isolati come quello di Claudio Risè, che ha dedicato studi, conferenze e articoli a questo tema. Penso, per esempio a libri come Il padre: l’assente inaccettabile, Il mestiere di padreIl maschio selvatico, Il padre: libertà e dono.
In un’intervista di una decina d’anni fa, Risè diceva per esempio:

In prima istanza il padre rappresenta la figura del creatore. Venendo meno la figura paterna viene a mancare l’esperienza di appartenenza all’origine che il padre assicura in quanto creatore, cioè la risposta alla domanda: ‘Da dove vengo?’. Se non siamo collegati con le radici non potremo neanche gettare i nostri rami nel cielo. Il padre è però anche il testimone della ferita. Rappresenta infatti, per l’individuo, la ferita iniziale che il padre infligge al figlio interrompendo la simbiosi con la madre. Questo si traduce in un rifiuto da parte dell’individuo dell’esperienza del dolore e della morte che invece rappresenta un momento insostituibile perché strutturante l’identità della persona. La mancanza di questo senso di appartenenza provoca una debolezza di identità. Molti individui oggi non sanno individuare una meta, un progetto e questo crea una sorta di stagnazione, visibile in fenomeni molto diffusi come la permanenza allungata presso la famiglia d’origine e l’incapacità di progettare il futuro”.

E poi ancora:

La figura del padre biologico, in quanto creatore, è la controfigura del Padre Celeste. L’uomo ha però rifiutato di appartenere al Padre Celeste: è la questione della secolarizzazione cui io faccio risalire il progressivo sbiadimento della figura paterna in Occidente. Da un certo punto in poi, e in maniera più evidente con l’Illuminismo, l’accento viene posto sull’acquisizione di cose, sugli oggetti, sulla vita sentimentale, eliminando la relazione dell’uomo con il sacro che viene così ad appartenere ad una dimensione separata dal quotidiano. La rimozione di questo legame paterno – quello con il padre naturale, ma anche con quello trascendente – priva l’uomo, ed anche il singolo individuo umano, della propria storia. E così facendo chiude ogni visione che illumini le sue possibilità di sviluppo, di direzione e di senso della propria esistenza. L’individuo perciò si arresta al livello materno, quello del soddisfacimento immediato dei bisogni. Un’altra tappa di questo processo è ravvisabile nella riforma di Lutero. È la riforma protestante che statalizza in qualche modo la paternità, cioè comincia a fare del padre un funzionario. Questo processo poi continua con la rivoluzione industriale, quando il padre diventa un amministratore perdendo i tratti del formatore di personalità. Altro passaggio chiave è quello delle due guerre mondiali, quando i padri, rimasti lontani da casa per lungo tempo, al ritorno si trovano di fronte alla società della grande madre che è la società dei consumi, quella che spinge l’individuo a consumare e a soddisfare solo i bisogni materiali”.

Far fuori il padre, come sempre, è stata dunque una faccenda squisitamente rivoluzionaria. Bisognava abbattere l’ordine costituito, la tradizione e il principio di autorità al grido di “vietato vietare” e il padre era uno straordinario bersaglio perché era il simbolo incarnato di tutti questi princìpi. Operaio inchiodato alla catena di montaggio, artigiano senza sabati e ferie pagate o dirigente d’azienda sempre fuori casa, il padre era il nemico da eliminare. Questo per il semplice motivo che tocca a lui dare la norma ai figli e difenderla con l’autorità, e poi tramandare una tradizione difendibile perché ragionevole.
A rendere la “decapitazione” del pater familias più rapida, è stato poi il movimento femminista, che prese di mira il padre come simbolo del maschio oppressore e dell’odiata cultura patriarcale.

Questi eccessi furono guardati spesso con occhio benevolo dalla grande massa. Il movimento sessantottino e femminista furono scambiati per una sorta di febbrone stagionale che sarebbe passato sul corpo della società senza fare troppi danni. Effettivamente, la febbre rivoluzionaria passò. Ma sul terreno rimase una vittima: il padre. Che oggi è il grande assente della nostra società. Ma, attenzione: non nel senso che i papà attuali siano più latitanti e irresponsabili di un tempo. Al contrario. Spesso il padre contemporaneo si getta con generosità nella difficile sfida dell’educazione. Solo che non sa che cosa fare perché la modernità lo ha defraudato della sua identità istituzionale, riconosciuta dal senso comune. Così, se va bene, fa il mammo e quando deve dire “Sì” o deve dire “No” gli tremano i polsi.

I padri di qualche decennio fa, caro Goffredo, erano tutt’altra cosa: il loro semplice sguardo valeva più di mille discorsi. Il loro esserci, il loro tornare a casa era un atto domestico e formale allo stesso tempo. Un avvenimento paragonabile, nel piccolo stato che è la famiglia, al ritorno del sovrano. Se c’era il papà, tutto tornava al suo giusto posto. E magari non erano padri esaltanti sul piano emotivo ed erano pieni di difetti, ma erano solidi per un semplice motivo: erano fedeli al loro ruolo.

Oggi, invece, il padre deve riconquistarsi una credibilità, lottando centimetro su centimetro. È diventato come un allenatore che, se non sta attento, si fa esonerare dallo spogliatoio in rivolta. O come un professore che, entrando al mattino a scuola, deve votarsi a qualche santo per sperare di uscirne indenne, senza essere brutalizzato dai suoi allievi.
Tragedia sublimata nel sacerdote che si “presenta alla comunità”, dice “buonasera” e spiega che lui è arrivato lì per imparare e non per insegnare: sottospecie del Grande Tradimento enunciato nel “Chi sono io per giudicare” ed evocato nell’immagine del pastore che deve avere lo stesso odore della pecora.

Qualche progressista superciglioso, qualche pedagogista di ultima generazione, qualche vecchia carretta del femminismo e anche qualche ermeneuta di un bergoglismo visto da destra (ci sono anche i tradizionalisti bergoglisti, caro Goffredo, che si nascondono dietro alla tautologia suicidaria: il Papa è il Papa) strillerà che qui si fa del maschilismo a buon mercato, e che così si alimentano solo inutili nostalgie per modelli educativi condannati dalla storia.
Ma questa è la realtà: ogni cucciolo della nostra specie che si affaccia alla vita porta con sé le stesse, umanissime domande che noi adulti abbiamo espresso, nel silenzio, ai nostri genitori di un tempo. I nostri figli cercano qualcuno che gli dica “Sì, perché lo dico io” o “No, perché lo dico io”, certi che quel “perché lo dico io” in realtà è un “perché lo dico io che ti voglio bene”.
Solo allora si fermeranno a capire e rispettare le ragioni di un “Sì” o di un “No”. Perché ogni figlio che nasce va cercando un po’ di amore, e una roccia su cui appoggiare il proprio futuro.

Insomma, caro Goffredo, cerca un papà, proprio come Telemaco nell’Odissea: “Se quello che i mortali desiderano, potesse avverarsi, per prima cosa vorrei il ritorno del padre”.


Alessandro Gnocchi

Sia lodato Gesù Cristo



marzo 2017
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