Con Roma, quale accordo?


di Don Philippe Nansenet, FSSPX


Pubblicato su Le petit eudiste, foglio del Priorato francese della Fraternità:  Saint-Jean Etudes, n. 203, giugno 2017





«Nessun accordo pratico senza accordo dottrinale», così si era detto nella Fraternità nel 2006, prima di abbandonare questo imperativo alcuni anni più tardi, a favore di un riconoscimento da parte delle autorità conciliari della Tradizione così com’essa è.
Ma Roma, alla sua maniera ci impone un ritorno alla questione di fondo, visto che Mons. Pozzo ha dichiarato che la riconciliazione si farà quando Mons. Fellay aderirà formalmente alla «dichiarazione dottrinale» che gli è stata presentata dalla Santa Sede. Roma vuole dunque un’intesa dottrinale prima di procedere ad una regolarizzazione canonica.
Ma l’espressione «intesa dottrinale» nasconde un’ambiguità. Infatti, essa può intendersi in due modi.
In un primo modo: lo scopo perseguito è che la Tradizione ritrovi i suoi diritti a Roma e che la Santa Sede corregga gli errori di fondo che sono all’origine della crisi nella Chiesa. Scopo questo che non è altro che il bene comune di tutta la Chiesa. In questo senso, Roma non deve intendersi con la Fraternità San Pio X, ma con la dottrina di sempre. E’ questo che noi intendevamo nel 2006 per accordo dottrinale previo ad un accordo pratico.
In un secondo modo, lo scopo perseguito sarebbe il riconoscimento della Fraternità, molto semplicemente, il suo bene particolare apparente, tramite un previo accordo su una formulazione dottrinale comune, accettabile dalle due parti e – si può supporre – esente da errori, ma che lascia in ombra quegli errori che devastano la Chiesa da cinquant’anni.
Roma intende l’accordo dottrinale in questo senso di puro mezzo e ha in vista una comunione fondata sul minimo comune denominatore. E’ in questo modo che trattano tra loro le sette protestanti da più di cinque secoli. E il Vaticano tratta ugualmente in questo modo con le sette protestanti, a partire dal Concilio, prova ne è l’accordo lutero-cattolico sulla giustificazione, del 1999.
Al contrario, – ci ricorda Don Gleize -  fino ad oggi gli eredi di Mons. Lefebvre hanno sentito il dovere di considerare le cose secondo il primo punto di vista.

Tra gli errori gravi che viziano tutte le verità parziali che si possono incontrare nel magistero conciliare e post-conciliare, le più note sono state messe fin dall’inizio in corrispondenza con la triade rivoluzionaria: libertà, uguaglianza, fraternità. E si intende subito che si tratta della diatriba sulla libertà religiosa, la collegialità e l’ecumenismo.

Cosa intende la dichiarazione conciliare Dignitatis Humanae per libertà religiosa?
Non la libertà della Chiesa cattolica, ma il fatto che chiunque non debba essere impedito, da qualsivoglia potere, a professare l’errore. E questo sarebbe un diritto naturale che il legislatore dovrebbe riconoscere. E questo contraddice l’insegnamento della Chiesa fino a Pio XII compreso, e favorisce oggi la sommersione dei nostri paesi da parte dell’islam.
Certo, non si tratta di esercitare la costrizione fisica per obbligare le persone adulte ad abbracciare il cristianesimo loro malgrado, ma lo Stato cristiano deve esercitare la sua autorità per favorire la vera religione: da una parte impedendo o dissuadendo dalla professione dell’errore, dall’altra facilitando la professione della verità.
Oggi notiamo Papa Francesco sviluppare le conseguenze di questa nuova dottrina, nel dominio familiare, con l’esortazione Amoris Laetitia. Sarebbe infatti illogico riservare l’immunità dalla costrizione alla sola professione di una fede religiosa e non estenderla a poco a poco a tutto l’ordine morale.

Quanto alla collegialità, essa riguarda il primato del successore di Pietro sul Soglio di Roma. Questo dibattito non deriva da una diatriba bizantina, poiché è in giuoco la Chiesa come l’ha istituita Nostro Signore Gesù Cristo, e cioè la sua costituzione divina. Ora, Lumen gentium afferma: 1° che il collegio episcopale è un soggetto ordinario e permanente del potere su tutta la Chiesa; 2° che questo stesso collegio che include il Papa, costituisce, oltre al Papa considerato da solo, un secondo soggetto permanente del potere su tutta la Chiesa; 3° che questo collegio episcopale trae il suo potere direttamente non dal Papa, ma da Cristo, e che il consenso del Papa è richiesto solo per il suo esercizio. La Chiesa, quindi, dev’essere sinodale – afferma Papa Francesco!

Al contrario, cosa dice la Tradizione?
Il corpo episcopale riunito in un concilio ecumenico è solo il soggetto temporaneo e straordinario di questo potere; il corpo episcopale non è un secondo soggetto di questo potere, ma, riunito in Concilio, è un secondo modo perché il Papa eserciti il suo potere, ed è la stessa autorità del Papa che viene comunicata a questo Concilio.
Ne deriva che noi oggi dobbiamo difendere il papato contro lo spesso Papa! La Chiesa è una monarchia e non una diarchia.

L’ecumenismo, come è presentato dai testi del conclio: Unitatis Redintegratio e Lumen Gentium, attacca l’unicità della salvezza nella Chiesa cattolica.
Cosa sostengono questi documenti?
1° La realtà di una comunione reale, benché imperfetta e parziale, fra la struttura visibile della Chiesa cattolica e la struttura visibile delle comunità non cattoliche separate.
2° La realtà di una presenza e di un’azione della Chiesa di Cristo, che sarebbe distinta dalla Chiesa cattolica, in queste stesse comunità.
3° La presenza di elementi di santificazione in queste comunità, tali che esse sarebbero dei mezzi per la salvezza.

Al contrario, cosa dice la Tradizione?
1° Che non sono queste comunità eretiche e scismatiche in quanto tali, ma solo certi dei loro membri che possono essere non esattamente in comunione con la Chiesa, ma ordinati alla Chiesa.
2° L’azione dello Spirito Santo al di fuori della Chiesa cattolica ha luogo in certe anime, ma non nelle comunità prigioniere dell’errore a cui esse appartengono.
3° Ciò che rimane della Chiesa nelle comunità separate – il dogma della Santa Trinità o il sacramento del battesimo, per esempio – non hanno in sé valore di salvezza, perché il valore salutare dei dogmi e dei sacramenti viene loro dal fatto che sono dispensati secondo l’ordine voluto da Cristo e cioè in dipendenza dal capo della Chiesa.

Nel corso degli anni, con la messa in opera del Concilio, è comparsa una nuova concezione del Magistero. In pratica, essa è falsificata, poiché i suoi titolari ne usano in senso contrario: imponendo gli errori contrari alle verità che devono essere il suo oggetto.
Essa è falsa anche in teoria, poiché pretende che il Magistero supremo della Chiesa sarebbe l’interprete autentico dei testi precedenti dello stesso Magistero. Questo è l’errore radicale del modernismo, i cui adepti sono imbevuti di mentalità evoluzionista.
Noi la ritroviamo nel discorso di Papa Benedetto XVI del 22 dicembre 2005, con l’ermeneutica «della riforma nella continuità». Errore, questo, che è all’origine della pretesa «Tradizione vivente» Ed è sulla base di una pretesa Tradizione vivente che nel 1988 è stato condannato Mons. Lefebvre col motu proprio «Ecclesia Dei adflicta». E non si può non notare che è la cosiddetta commissione «Ecclesia Dei» che è incaricata di trattare con la Fraternità!
In realtà, il Magistero è l’organo e l’interprete della Rivelazione. Il Magistero attuale deve interpretare non il magistero passato, ma la Rivelazione contenuta nelle sue fonti: La Scrittura e la Tradizione. Esso deve sottomettersi al magistero passato e interpretare i punti della Rivelazione non ancora interpretati dagli atti del magistero anteriore. Esso vi si deve sottomettere ed assumerlo. Tutto ciò che i papi del passato hanno insegnato in materia necessaria resta d’attualità. Se fosse la parola odierna a fare la verità, interpretando senza posa la parola di ieri, sarebbe il Papa odierno che farebbe la verità a suo piacimento, e la stessa nozione di Tradizione cattolica non esisterebbe più.
Ricordiamo che il Corpo mistico di Cristo è la Chiesa cattolica e non il Papa regnante!

Il nuovo Codice di Diritto Canonico veicola gli errori che abbiamo appena denunciato ed anche molti altri: sul matrimonio, per esempio, di cui diremo più avanti. Questo Codice, secondo l’avviso dello stesso Giovanni Paolo II, presenta un nuovo volto della Chiesa. Esso, tra le altre cose, mette sotto forma di canoni o articoli la nuova ecclesiologia; e pecca dunque contro la stessa finalità della legge. Esso si allontana tanto nell’insieme quanto nel particolare dalla protezione dovuta alla fede e ai costumi. La sua promulgazione resta dubbia. Esso non ha valore in sé. Ecco perché la sua ricezione pone ai cattolici un reale problema di coscienza. In questa situazione inedita, la nuova legislazione dev’essere ricondotta alla precedente, quella del 1917, e se possibile conciliata con essa.
Tale è la posizione adottata dalla Fraternità fin dal 1983.

Il nostro scopo, quindi, è che la Tradizione ritrovi i suoi diritti a Roma. Ma per questo è necessario accettare un accordo nelle condizioni presenti?
Come ragionerebbe su questo punto un moralista?
L’accettazione di un riconoscimento canonico è un atto moralmente indifferente dal doppio effetto.
L’effetto buono consiste nel ritrovare la normalità giuridica, “le carte in regola”, e di aprire forse nuovi spazi per l’apostolato. E sarebbe stato così nel Libano vent’anni fa; e forse sarebbe ancora così in certi paesi dell’Africa o dell’Asia.
L’effetto cattivo è anch’esso duplice: esso consiste nel rischio di relativizzare la Tradizione, che rischierebbe molto di apparire come un’opinione tra le altre; e consiste anche nel rischio di tradire la Tradizione e di far propria la visione conciliare.

Io ho per le mani il n. 67 de La Cloche d’Ecône. Siamo nel 1994; da due anni era apparso il Catechismo detto della Chiesa cattolica. I nostri lo demolivano, mentre i monaci di Le Barroux ne prendevano la difesa: «Cinque anni fa non potevamo neanche immaginare che saremmo stati capaci di farlo. Oggi che siamo riconciliati, facciamo l’esperienza di rinascere nel senso della cattolicità e quindi della comprensione dell’insegnamento della Chiesa odierna». E il direttore del seminario commentava: «E’ chiaro? E questa volta non sono io che lo dico; loro stessi sono meravigliati di essere capaci di difendere il nuovo Catechismo! In termini chiari, cos’è che significa, se non che dopo il ricongiungimento canonico, il ricongiungimento dottrinale è stato consumato? Viva il Concilio, il suo Diritto Canonico e il suo Catechismo».

Don Schaeffer, poco prima della sua morte aveva scritto su Le Chardonnet un articolo intitolato: «Dal genocidio al memoricidio», riprendendo il titolo di un libro di Reynald Secher. Egli paragonava la sorte che potrebbe toccare all’epopea della nostra difesa e illustrazione della Tradizione alla sorte toccata all’epopea vandeana. Quelli che abbandonano la Tradizione finiscono col dimenticare o col voler fare dimenticare ciò che essa è stata. Essi si rivoltano perfino contro di essa. Basta guardare ai discepoli per tanto tempo così valorosi di Mons. de Castro Mayer, nella diocesi di Campos! Al momento del loro ricongiungimento, nel 2001, certi progressisti levarono alte proteste. Il cardinale Cottier li rassicurò: «non vi preoccupate, essi si sono impegnati in una dinamica!» E difatti non si dovette aspettare un granché per constatare gli stupefacenti rinnegamenti dottrinali e liturgici.

La soluzione dipende, da un lato dalla proporzione da stabilire tra l’effetto buono e l’effetto cattivo, e dall’altro dalla valutazione delle circostanze.
E’ chiaro che la cosa più importante è evitare il doppio effetto cattivo (la relativizzazione e il tradimento della Tradizione) piuttosto che ottenere il doppio effetto buono (il ritorno alla stretta legalità e il nuovo spazio per l’apostolato).
Ma le circostanze sono veramente tali che si possa sperare di evitare il doppio effetto cattivo, il doppio rischio?
Mons. Lefebvre scriveva: «Non ci si pone in un contesto, e sotto dei superiori, dicendo che si regolerà tutto quando si sarà dentro, mentre costoro hanno tutto in mano per bloccarci! Sono loro che hanno tutta l’autorità».
E noi sappiamo come sono stati trattati anche recentemente quelli che si trovavano nel contesto e che si sforzavano di ritornare alla Tradizione. La disavventura dei Francescani dell’Immacolata dovrebbe insegnarci qualcosa!



giugno 2017
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