Il “migrante”:
un nuovo idolo cui sacrificare
la civiltà cristiana

di Guido Vignelli


Articolo pubblicato sul sito Riscossa Cristiana







Una strana parola della neo-lingua

Com’è noto, la neo-lingua mass-mediatica, ormai usata anche dalla politica, dal diritto e dal mondo ecclesiastico, suole lanciare parole nuove, oppure vecchie ma usandole in un senso fuorviante, che poi vengono imposte all’opinione pubblica al fine di giustificare una ideologia o un progetto sovversivi.

Fra le neo-parole oggi in voga spicca quella di “migrante”, che sembra costituire una specifica categoria di persone. Infatti, tale qualifica non identifica più l’emigrato, ossia chi ha lasciato la propria patria, né l’immigrato, ossia chi si è inserito in una nuova patria per viverci stabilmente; qui si tratta del “migrante”, di colui che alimenta il conseguente fenomeno epocale delle “migrazioni”.

Chi è mai questo “migrante”? Secondo i dizionari di lingua italiana, “migrante” è “l’animale che periodicamente abbandona il luogo in cui vive per trasferirsi in altri più convenienti”, come l’uccello migratore. Ma qui si tratta non di animali ma di uomini, per cui il “migrante” è l’esule che abbandona la propria patria, spesso definitivamente, per trasferirsi in un’altra, nella quale non è detto che voglia inserirsi né rimanere definitivamente.

Essendo participio presente del verbo migrare, la parola “migrante” suggerisce una qualifica provvisoria, precaria, non solo riguardo la dimora, la patria e la cittadinanza, ma anche riguardo la cultura, la civiltà, l’identità stessa dell’esule. Per definizione, il “migrante” è uomo in perenne ricerca e in continua evoluzione, che cambia periodicamente sede, un camaleonte che prende il colore – ma solo quello – dell’ambiente in cui vive. Egli quindi è nomade, ossia senza radici né dimora né patria stabile, un apolide che ha per motto “la mia patria è dove sto bene”; non di rado, egli rifiuta perfino di essere identificato e a questo scopo spesso cambia nome e patria di provenienza.

Insomma il “migrante” coerente e consapevole si pone come il diverso, l’estraneo, che paradossalmente vuole restare tale ed essere accettato e accolto come tale. Pertanto, agli occhi della patria che lo ospita, egli si pone in una condizione indefinibile, molto difficile da regolarizzare e ancor più da inserire.

Un nuovo modello ideale

Non meraviglia quindi che questa condizione di “migrante” sia oggi elevata a modello ideale, da parte di una cultura postmoderna che odia tutto quanto riguarda l’identità, la stabilità, il radicamento, la continuità, l’eredità, la tradizione. Tale cultura infatti oppone al patriota l’apolide, al radicato lo sradicato, allo stanziale il nomade, al lavoratore stabile quello precario, al coniuge il partner temporaneo, alla famiglia la convivenza provvisoria. Si tratta di un modello d’uomo privato non solo del tempo, ossia della eredità storica, ma anche dello spazio, ossia del radicamento territoriale; un uomo che fa parte di una civiltà senza identità né certezze né sicurezze, quindi fluida, manipolabile e in perenne evoluzione.

Questo vale anche nel campo sessuale. Le “migrazioni” inseriscono nella nostra società usanze e modelli sessuali molto vari, labili e permissivi. Il “migrante” coerente dovrebbe praticare il nomadismo sessuale alla maniera del trans-gender, ossia passando periodicamente da un gender all’altro, assumendo varie e provvisorie identità sessuali, praticando il cosiddetto poliamore, secondo il modello del “perverso polimorfo” inventato da Freud. Non meraviglia quindi che la cultura dominante tenti oggi d’imporre nella nostra scuola un programma (dis)educativo che abitui le nuove generazioni all’idolatria del “diverso”, del “migrante” e del “nomade”, anche in campo sessuale.

In subordine, anche la categoria del “meticciato” ha assunto un valore ideale al fine di soppiantare non tanto quello dell’appartenenza etnica o della eredità razziale, quanto quello della identità culturale. Il “meticciato” infatti s’impone quando il fenomeno delle “migrazioni” favorisce quello dei matrimoni misti, ossia tra persone che hanno diversa cultura, morale e religione. Col tempo, ciò assicurerebbe l’imporsi di generazioni “meticce” che permetterebbero alla nostra società di diventare finalmente davvero pluralistica ed egualitaria, rendendo quindi impossibile la xenofobia e il razzismo.

In concreto, le qualifiche di migrante, nomade, trans e meticcio sono ormai state elevate dal livello di fatti evitabili e discutibili a quello di valori inevitabili e indiscutibili, perché rappresentano concreti modelli del “diverso”, il quale va accettato, difeso e favorito proprio in quanto estraneo, anche se ostile e pericoloso. Ciò ha spinto alcuni sociologi fanatici delle “migrazioni” a lanciare lo slogan della “solidarietà tra estranei”, la quale dovrebbe costituire il cemento della futura società multi-, ossia multi-etnica, multi-culturale e multi-religiosa (e multi-sessuale).

Tali qualifiche costituiscono i nuovi “valori non negoziabili” da tutelare, promuovere e imporre in tutti i campi con gli strumenti non solo dei mass-media e della cultura, ma anche della politica e del diritto. In nome di un “amore per il lontano” che soppianta l’evangelico amore per il prossimo, tali qualifiche vengono ormai presentate come segni di superiorità che trasformano alcune categorie sociali o sessuali in classi elette degne di essere favorite e anzi privilegiate rispetto a quelle ordinarie.

Chi non apprezza tali valori e categorie viene presentato come un integrista, uno xenofobo e forse anche un razzista da condannare, multare e reprimere per legge, sospendendogli il godimento dei diritti civili, i quali finiscono con l’essere relativizzati rispetto ai diritti assoluti appartenenti alle privilegiate categorie dei “diversi”.

Una nuova categoria di privilegiati

Stando così le cose, la qualifica di “migrante” non indica più la mera constatazione di una realtà di fatto, dovuta al fenomeno della immigrazione di massa, ma manifesta la creazione di un valore assoluto che non ammette condizioni (“senza se e senza ma”), che non tollera alcuna “discriminazione”, che si arroga tutti i diritti ma rifiuta i rispettivi doveri.

In concreto, si pretende che famiglie, tribù e comunità ospitate abbiano il diritto di far valere le proprie identità, certezze e sicurezze, anche a danno di quelle delle patrie ospitanti; all’opposto, paradossalmente, le patrie ospitanti non possono difendere le loro identità, certezze e sicurezze, anzi hanno il dovere di metterle in crisi, per non offendere né ostacolare quelle dei “migranti”. Qui la tanto strombazzata regola della “reciprocità” non vale più; agli ospitati spettano tutti i diritti ma nessun dovere, agli ospitanti invece tutti i doveri e nessun diritto. Dalla vecchia politica che impediva le “discriminazioni” per assicurare l’eguaglianza, si passa alla nuova politica che favorisce “discriminazioni positive” per assicurare la primazia dell’“estraneo”.

Ne deriva il fatto, ormai ampiamente constatabile, che il “migrante” è ormai una categoria talmente privilegiata da avere la precedenza assoluta su tutte le altre categorie sociali, da poter pretendere diritti negati ai cittadini della patria ospitante, da essere esentata dal rispettare quei valori, doveri e leggi civili che assicurano il bene comune della patria ospitante. Ricordiamoci lo slogan ripetuto da anni durante le manifestazioni extracomunitarie di piazza: “Siamo migranti, abbiamo diritti, ne abbiamo tanti, li vogliamo tutti!

Insomma, nella moderna civiltà della desacralizzazione, il “migrante” sta paradossalmente diventando talmente sacro da risultare indiscutibile, indiscriminabile, impunibile; e, notoriamente, l’impunità produce arroganza e prepotenza. Aggiornando un vecchio detto popolare, possiamo allora ammonire: “chi ospitante si fa, l’ospitato se lo mangia”.

Ernesto Galli della Loggia, intervistato da Il Giorno (15-8-2017), ha spiegato che il fanatismo della Sinistra radicale in favore della immigrazione illegale e delle ONG che la facilitano è dovuta al fatto che l’intera Sinistra, essendo svanito il mito del “proletariato” e della “coscienza operaia”, si è inventata altre categorie di oppressi da liberare, ossia altre clientele da sfruttare per la sua lotta di classe: abbiamo così in genere il “discriminato-emarginato”, in specie il “migrante”, il negro, la donna, l’handicappato, l’omosessuale. Tutta questa mitologia era già presente negli scritti di noti intellettuali progressisti post-sessantottini e nei programmi dei loro movimenti, i quali progettavano di trasferire la lotta di classe dal campo economico a quello scolastico, a quello familiare e sessuale e a quello geopolitico (la contrapposizione tra Nord e Sud del mondo).

Un modello per gli extra-comunitari o per i comunitari?

Qui però emerge una contraddizione lampante che svela un nuovo e più sconcertante paradosso.

Come abbiamo fatto notare, agl’immigrati ospitati in Europa non si chiede di diventare nomadi spirituali ripudiando la loro identità e le loro radici, né di diventare camaleonti sociali adeguandosi alla civiltà occidentale e cristiana; al contrario, essi vengono esortati a mantenere la loro identità, non solo quella etnica e razziale, il che è inevitabile, ma anche quella culturale, politica, giuridica, soprattutto religiosa. Invece, è proprio agli Europei ospitanti che si chiede di rinunciare alla loro identità e civiltà per fare spazio a quelle degli ospitati.

Quindi, paradossalmente, non sono gl’immigrati che dovrebbero evolversi adeguandosi alle patrie ospitanti, ma sono gli ospitanti che dovrebbero evolversi in senso “pluralista” e “inclusivo”, adeguandosi al calderone multi-culturale, multi-giuridico e multi-religioso provocato dalla indiscriminata accoglienza degl’immigrati di varia provenienza. Ciò significa che la cosiddetta integrazione delle comunità ospitate avverrebbe al caro prezzo della dis-integrazione delle patrie ospitanti.

A questo punto, viene il sospetto che il modello ideale del “migrante”, propagandato dalla Sinistra, sia proposto non tanto alla gente ospitata quanto a quella ospitante, ossia proprio agli Europei: sono essi a doversi adeguare a quel modello, sacrificando a quell’idolo la loro identità, storia e tradizione. Abbiamo quindi una propaganda settaria che mira principalmente a svellere le radici culturali e sociali dell’Europa, a dissolvere quel poco che resta dell’identità cristiana nella civiltà occidentale. Insomma, il fenomeno pilotato della invasione “migratoria” non mira a costruire una futura civiltà “pluralista ed ecumenica”, ma a dissolvere la passata civiltà cristiana per sostituirla con una non-civiltà a carattere scettico e immorale, tribale e caotico.

Allora, appare ancor più evidente la malafede di coloro che insistono nel paragonare le passate emigrazioni di alcune genti europee (italiani, irlandesi, polacchi…) verso il vasto continente americano con le attuali “migrazioni” di genti afro-asiatiche verso il piccolo continente europeo. Quegl’intellettuali, politici ed ecclesiastici, in cerca di nuove giustificazioni e clientele, che si ostinano a fare un tale paragone, mentono sapendo di mentire, ossia, per usare una dimenticata formula teologica, “impugnano la verità conosciuta”, commettendo un peccato contro lo Spirito Santo.
 





agosto 2017
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