Francesco a ruota libera… arrota tutto!
Anche la correctio filialis


di Belvecchio




Quando Francesco si ritrova a colloquiare in mezzo ad un qualche gruppo di persone, con le quali scambia impressioni stimolato dalle loro domande, accade che egli esprima il meglio di sé. Lasciandosi andare all’entusiasmo della comunicazione spontanea, apre il suo bagaglio di nozioni personali e sciorina una sequela di pensieri che danno l’impressione di riflettere una visione del mondo e della Chiesa maturata come intorno ad un tavolino da caffè.

Nel corso del suo viaggio in Colombia – 6-11 settembre 2017 – il 10 settembre ha incontrato, nel cortile della casa-santuario di San Pedro Claver, a Cartagena, un nutrito gruppo di suoi confratelli gesuiti.
La Civiltà Cattolica (Quaderno 4014 del 16 settembre 2017) ha pubblicato il resoconto di questo incontro, da esso abbiamo tratto le citazioni qui riportate.

Dopo i consueti applausi e saluti, Francesco ha dato inizio al solito scambio di domande e risposte.

Alla domanda sul significato dell’accoglienza ricevuta a Cartagena, Francesco ha approfittato per esporre il suo pensiero sul rapporto tra il “popolo” dei fedeli e i loro pastori.

«Quello che ho avvertito e che mi ha toccato di più è la spontaneità. Il popolo di Dio non ha posto limiti alla sua espressione calorosa. … era semplicemente il popolo di Dio in uscita per accogliere»

Abbiamo il sospetto che nel formulare questa risposta, Francesco avesse in mente l’ingresso di Gesù a Gerusalemme la Domenica delle Palme. Il popolo che spontaneamente si riversa nelle strade per salutare il suo Signore che arriva. Ovviamente, si tratta di una nostra supposizione, che non è stata la sola, perché a noi è anche venuta in mente un’altra scena, quella del popolo, questa volta poco numeroso, che si riversa nelle strade per salutare le truppe “alleate” che arrivano in città alla fine della Seconda Guerra Mondiale.
Il lettore si chiederà: ma che senso ha accostare l’arrivo di Gesù con l’arrivo delle truppe “alleate”. Nessuno. E’ solo un susseguirsi di immagini, stimolate dalla spiegazione enigmatica e magistrale che offre Francesco: «era semplicemente il popolo di Dio in uscita per accogliere». Frase che non significa un granché, ma che a piacimento può significare di tutto.
Si tratterebbe, dice Francesco, di «un chiaro segno che non era una cosa preparata… la cultura propria di quelle diverse parti del popolo di Dio, … si esprimeva, in tutta libertà, lodando Dio»
E’ quel “lodando Dio” che ha fatto nascere il nostro sospetto, anche perché non può certo convincerci l’idea che la gente per strada che gridava “viva Francesco”, così facendo stesse lodando Dio!
La spontaneità del popolo, passi, ma la “lode a Dio”, che è fuori luogo, ci sembra quantomeno sospetta.

E Francesco rimane così colpito e coinvolto dal popolo festante al suo passaggio, che germoglia in lui un’altra immagine: il popolo che è parte del suo viaggio o, se si vuole, che è parte del suo viaggio svolto in cerca del consenso “caloroso” del popolo.
Ed allora, ecco venirgli in mente qual è il vero significato dell’“evangelizzazione”:
«a volte noi abbiamo la tentazione di fare evangelizzazione per il popolo, verso il popolo, ma senza il popolo di Dio. Tutto per il popolo, ma niente con il popolo

E qui ci sono venute in mente le parole che Nostro Signore rivolge agli undici Apostoli rimasti «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt. 28, 19-20).

Queste parole, accostate alla maniera di evangelizzare proposta da Francesco, ci hanno ricordato certe pretese moderne, tutte di sinistra e alquanto sinistre, che hanno introdotto nelle nostre scuole l’insegnamento dei docenti supposto condiviso a priori dagli studenti e perfino dalle famiglie… i famosi “consigli di classe” in cui “democraticamente” ci si deve trovare d’accordo per insegnare, per valutare e perfino per promuovere.
“Bisogna evangelizzare - suggerisce Francesco - non solo per e verso, ma anche con il popolo».

«Ammaestrate, battezzate, insegnate loro», dice il Signore, delineando chiaramente il rapporto tra l’evangelizzatore e l’evangelizzato: l’azione attiva del primo e la corrispondente azione passiva del secondo. Il primo che “insegna”, il secondo che “apprende”. Il primo che dà e il secondo che prende.
Solo in questo senso si può parlare di “evangelizzazione con il popolo”, ma è un senso che si basa non sull’azione “democratica” ventilata da Francesco, ma sull’azione gerarchica dell’evangelizzare, che è tale per la sua stessa natura.

Ma nonostante Francesco proponga una concezione “democratica” dell’evangelizzazione, tiene a precisare che la stessa evangelizzazione condotta solo per e verso il popolo, sarebbe una “concezione liberale e illuminista”.
E qui va in frantumi ogni minimo senso della logica, perché la concezione liberale e illuminista da lui rigettata è tutt’uno con la concezione democratica da lui propugnata.

Ma Francesco si appoggia subito al Vaticano II e alla Lumen gentium, che parlano della Chiesa come “santo popolo di Dio” «Per questo – dice Francesco - dobbiamo sentire il popolo di Dio».
Una confusione incredibile, che mischia il popolo da evangelizzare col popolo evangelizzato, senza la minima giustificazione e contro ogni logica elementare.
E Francesco sa di cosa parla, perché previene subito l’obiezione che, come abbiamo appena notato, l’evangelizzazione concepita da lui si ridurrebbe ad un’azione demo-cratica, un’azione “populista”, come la chiama lui.
Non è così – dice Francesco – perché quando si tratta di popolo non si può usare la logica, che ridurrebbe tutto ad un’ideologia illuminista, ma si deve tenere presente che il popolo che non è una “categoria logica”, ma una “categoria mitica”: «per comprendere il popolo bisogna starci immersi, bisogna accompagnarlo dall’intero».
Che cosa Francesco intenda per “categoria mitica” non è facile da capire, ma non è la prima volta che ne parla, già da vescovo argentino aveva l’abitudine di farsi intervistare e in uno di questi colloqui ha spiegato che il popolo è una categoria “storica e mitica” perché il popolo di fa da sé «in un processo, con l’impegno in vista di un obiettivo… un processo di generazioni che si succedono… ci vuole un mito per capire il popolo… essere parte del popolo è far parte di una identità comune fatta di legami sociali e culturali.… Per predicare al popolo bisogna guardare e saper ascoltare, entrare nel processo che vive, immergersi» (Nei tuoi occhi è la mia parola. Omelie e discorsi di Buenos Aires, 1999 2013, a cura di Padre Antonio Spadaro e G. Romano. Ed. Rizzoli, 2016).
Insomma, per Francesco si tratta ancora una volta di compenetrarsi nella realtà attuale, per accompagnarla, non per correggerla e guidarla. L’istanza di Francesco è sempre quella di accettare la realtà così com’è e in essa calare l’evangelizzazione, per ottenere una sorta di continuo compromesso, esimendosi dal pretendere di dare alla realtà attuale un indirizzo che riconduca e che conduca a Dio, assumendo invece tale realtà come avente in sé un valore positivo…
Il risultato è inevitabilmente un processo inverso in cui non è più il comando del Signore - «insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato» - che informa il popolo nella sua realtà, ma è questa realtà che informa il comando e l’insegnamento del Signore.

Il Vaticano II aveva già delineato l’esigenza della “inculturazione”, cioè dell’adattamento della dottrina e della liturgia cattoliche agli usi e costumi dei popoli, riducendo l’evangelizzazione ad una mera operazione di “integrazione” reciproca.
Mentre l’“ammaestrare… insegnando ad osservare” portava alla trans-formazione della realtà attuale, oggi questa nuova concezione dell’evangelizzazione porta alla trans-formazione di “tutto ciò che vi ho comandato”.

Per altro verso, il ragionamento di Francesco, logico a suo modo, non può non riprendere l’esigenza pratica della evangelizzazione, la quale esige che per evangelizzare il popolo occorre stare in mezzo al popolo, poiché, ovviamente, non si può evangelizzarlo stando lontani o discosti da esso. Ma Francesco la riprende a suo modo, complicando ad arte il ragionamento per poter giungere al superamento – come dice lui – della evangelizzazione liberale e illuminista e, passando per una evangelizzazione “democratica”,  sfociare in una evangelizzazione “progressista”; quella stessa che concettualmente pratica l’ideologo marxista che si ritiene essere l’unica guida illuminata del popolo; al punto che se il popolo non si rende conto dell’importanza primaria dell’ideologo istruttore e del suo illuminato insegnamento, finisce col diventare “nemico del popolo” e come tale da correggere forzatamente e, se necessario, da eliminare.
Chi ha dimestichezza col cinico metodo di governo usato da Francesco in questi quattro anni, alla luce di questa sua dichiarazione riuscirà a comprendere meglio i suoi atti d’imperio apparentemente ingiustificati.

E la valenza progressista della sua concezione Francesco la spiega quando precisa che
«Il popolo di Dio ha olfatto. E a volte il nostro compito di pastori consiste nel metterci dietro al popolo. Il pastore deve assumere tutti e tre gli atteggiamenti: avanti, a segnare la strada; in mezzo, per conoscerlo; e dietro, perché nessuno resti indietro e per lasciare che sia il gregge a cercare la strada… e le pecore annusano il pastore buono. Il pastore deve muoversi continuamente con questi tre atteggiamenti

Questa immagine è ricorrente nei discorsi di Francesco, ma ogni volta che la ripropone lascia stupiti il fatto che lui venga dall’Argentina, dove i gauchos che conducono per la pampas le mandrie fanno esattamente quello che suggerisce Francesco, ma non per “mettersi dietro alla mandria”, “lasciando che la mandria cerchi la strada”, ma per far andare la mandria nella direzione giusta fino alla destinazione giusta, direzione e destinazione che la mandria non conosce da sola, ma che apprende con la guida dei gauchos, dei mandriani che hanno il compito e il dovere di guidarla, proteggerla ed accompagnarla.
I pastori di cui parla Francesco, invece, finiscono col condurre il gregge fuori strada, come è accaduto da cinquant’anni e come sta accadendo ancora peggio da quando il capo è diventato Francesco.

In seguito ad una domanda sulle sue aspettative riguardo la “riflessione filosofica e teologica” nella Chiesa, Francesco incomincia dicendo:
«Direi, per cominciare, che non sia una riflessione di laboratorio» che ha fatto decadere la scolastica, che « è diventata una scolastica da manuale, senza vita, mera idea, e si è tradotta in una proposta pastorale casuistica», ma una riflessione «nella vita, nel dialogo col reale».

Si tratta di un’altra idea chiave di Francesco, che concepisce la comprensione e la riflessione religiose come aride e infruttuose se non coniugate col “dialogo col reale”, e cioè se non mediate da un continuo confronto con la realtà che ci circonda. Realtà che, ancora una volta, non viene assunta in senso critico, ma viene considerata come avente valore di per sé, al punto che attraverso il “dialogo” si potranno cogliere da essa quegli insegnamenti e quelle valenze capaci di aiutare la riflessione religiosa e di arricchirne la comprensione.
Ovviamente, non si può non considerare che questa attitudine di Francesco ad attingere insegnamenti e valori dal mondo, si colloca su un piano totalmente antagonista a quello della Sacra Scrittura. San Giovanni, nella sua prima lettera scrive: «Non amate né il mondo, né le cose del mondo! Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui» (I Gv. 2, 15); e San Paolo scrive ai Corinzi: «Non lasciatevi legare al giogo estraneo degli infedeli. Quale rapporto infatti ci può essere tra la giustizia e l’iniquità, o quale unione tra la luce e le tenebre? Quale intesa tra Cristo e Beliar, o quale collaborazione tra un fedele e un infedele? Quale accordo tra il tempio di Dio e gli idoli?» (II Corinzi, 6, 14-16).

Invece Francesco, per dirne solo una, il 6 luglio 2017 ha chiamato Eugenio Scalfari per uno scambio di vedute - era da un po’ che non si vedevano -, e a Santa Marta hanno parlato di diverse cose, ma soprattutto dell’arricchimento reciproco che più volte hanno confessato compiaciuti. Tenuto conto che Scalfari stesso, nel suo articolo scritto in proposito, precisa che “Il Papa naturalmente sa che io sono non credente, ma sa anche che apprezzo moltissimo la predicazione di Gesù di Nazareth che considero un uomo e non un Dio”, ne deriva che è scientemente che Francesco si arricchisce dei lumi apportati da questo vecchio signore che viene anche chiamato, rendendogli un onore immeritato, “il papa laico”.
Ora, la piena avvertenza è la disposizione aggravante negli errori che si commettono, quindi Francesco, non solo trascura interamente gli insegnamenti della Sacra Scrittura, ma lo fa in piena coscienza, consapevole della portata malefica del suo comportamento.

Ed è in questa ottica che va letto il seguito della risposta di prima:
«Approfitto di questa domanda per dire una cosa che credo vada detta per giustizia, e anche per carità. Infatti, sento molti commenti – rispettabili, perché detti da figli di Dio, ma sbagliati – sull’Esortazione apostolica post-sinodale. Per capire l’Amoris laetitia bisogna leggerla da cima a fondo. A cominciare dal primo capitolo, per continuare col secondo e così via… e riflettere. E leggere che cosa si è detto nel Sinodo.
Una seconda cosa: alcuni sostengono che sotto l’Amoris laetitia non c’è una morale cattolica o, quantomeno, non è una morale sicura. Su questo voglio ribadire con chiarezza che la morale dell’Amoris laetitia è tomista, quella del grande Tommaso. Potete parlarne con un grande teologo, tra i migliori di oggi e tra i più maturi, il cardinal Schönborn. Questo voglio dirlo perché aiutiate le persone che credono che la morale sia pura casistica. Aiutatele a rendersi conto che il grande Tommaso possiede una grandissima ricchezza, capace ancora oggi di ispirarci. Ma in ginocchio, sempre in ginocchio…»

Non è la prima volta che Francesco si compiace di strumentalizzare San Tommaso, l’ha fatto anche in Amoris laetitia, e quindi non stupisce questa sua nuova sparata, ma ciò che stupisce è la faccia tosta con cui insiste nel sostenere la sua personale ortodossia, quasi ingiungendo agli altri di considerarla come ortodossia cattolica.
Ora, non è questa la sede per soffermarci sul contenuto eterodosso di Amoris laetita, quindi ci limiteremo a segnalare l’altro paradosso espresso da Francesco: “Potete parlarne con un grande teologo, tra i migliori di oggi e tra i più maturi, il cardinal Schönborn.”.  Frase questa che essendo perfettamente fondata per Francesco, fornisce la controprova che l’esortazione postconcilare è tutto tranne che cattolica.
L’arcivescovo di Vienna, infatti, è un campione nel lavoro di demolizione della dottrina e della liturgia cattoliche, ed è proprio questo che gli conferisce i meriti che lo rendono esemplare agli occhi di Francesco, come del resto accadeva anche con Benedetto XVI.

Questa dichiarazione di Francesco, ricca di appunti critici, che è seguita alla correctio filialis recapitatagli il precedente 11 agosto, si presenta, secondo lo stile proprio di Francesco, come una risposta formale ai firmatari del documento, che così vennero avvertiti fin da prima della diffusione pubblica del documento: dovevano andare a parlare con Schönborn per rendersi conto della infondatezza delle loro critiche.
In questa ottica, anche la giustificazione addotta dai firmatari, che erano stati indotti a rendere pubblica la correctio a causa del silenzio del Papa, si rivela non corretta, poiché Francesco ha risposto, e come, al documento, al punto tale che si deve ritenere che non risponderà ulteriormente, se non in qualche altra occasione estemporanea e con una nuova battuta.
Francesco è un gran furbacchione, e quando si trova a dover affrontare delle difficoltà, preferisce venirsene fuori con una battuta piuttosto che uno scritto che lo impegnerebbe come lui non vuole.
Si mettano il cuore in pace i chierici e i laici che hanno avuto il coraggio di esporsi, Francesco non è tipo da accettare di essere contraddetto o contrastato, e facciano attenzione… in nome di San Tommaso, Francesco è capace di attuare un generale repulisti.

Nel frattempo, tanto per chiarire bene cosa intenda Francesco e perché sia i firmatari della correctio, sia i nostri lettori possano darsi una regolata, vediamo in cosa consisterebbe la teologia del “grande teologo, tra i migliori di oggi e tra i più maturi”.

Il n° 3986 – 23 luglio 2016 - de La Civiltà Cattolica ha pubblicato, nelle pp. 130-152, una “Conversazione con il cardinale Schönborn sull’«Amoris laetitia»” condotta da Padre Antonio Spadaro.
In questa conversazione, il cardinale di Vienna si dilunga sui contenuti “teologici” di Amoris laetitia e sulla corretta dottrina espressa in essa da Papa Francesco.

Per inquadrare subito la disposizione mentale di Schönborn, citiamo per primo un passo illuminante:
« L’Amoris laetitia è un atto del magistero che rende attuale nel tempo presente l’insegnamento della Chiesa. Così come noi leggiamo il Concilio di Nicea [325] alla luce del Concilio di Costantinopoli [381], e il Vaticano I alla luce del Vaticano II, così ora dobbiamo leggere i precedenti interventi del magistero sulla famiglia alla luce del suo contributo [dell’Amoris laetitia]. Siamo portati in modo vitale a distinguere la continuità dei princìpi della dottrina nelle discontinuità di prospettive o di espressioni storicamente condizionate. È la funzione propria del magistero vivente: interpretare autenticamente la Parola di Dio, scritta o trasmessa.»

Così siamo tutti avvisati: duemila anni di insegnamento della Chiesa o si leggono alla luce dell’insegnamento attuale o non si interpreta autenticamente la Parola di Dio, scritta o trasmessa… È la funzione propria del magistero vivente.

Basta questo solo concetto per comprendere che la Tradizione della Chiesa non ha alcun valore né per Schönborn né per Francesco, dal primo correttamente interpretato.

Ora, nella correctio filialis si legge:
«La nostra correzione è necessitata dalla fedeltà agli insegnamenti papali infallibili che sono incompatibili con alcune dichiarazioni di Vostra Santità».
Errore! Dice Schönborn – anticipato e seguito da Francesco –, la verità è esattamente l’opposto: sono le “alcune dichiarazioni di Vostra Santità” che completano e “aggiornano”, secondo la “funzione propria del magistero vivente”, gli “insegnamenti papali infallibili”, i quali sono tali in sé e per il tempo in cui sono stati espressi, ma fino a quando un insegnamento magisteriale successivo non li inglobi e li attualizzi.
E “L’Amoris laetitia è un atto del magistero che rende attuale nel tempo presente l’insegnamento della Chiesa”.

E se una tale indiscriminata demolizione dell’insegnamento della Chiesa dovesse suscitare sorpresa, si sappia che il primo ad essere sorpreso … piacevolmente…, è proprio Schönborn:
«Sono stato felicemente sorpreso dalla metodologia. In questo ambito delle realtà umane, il Santo Padre ha fondamentalmente rinnovato il discorso della Chiesa, certamente nella linea della Evangelii gaudium, ma anche della Gaudium et spes, in cui i princìpi dottrinali e le considerazioni degli uomini del tempo presente sono in continua evoluzione. C’è una disponibilità profonda ad accogliere la realtà

Un’accoglienza della realtà che è un’intromissione del mondo nella Chiesa con la conseguente “salutare” evoluzione dei suoi principi dottrinali. Cosa sulla quale non può avanzarsi alcuna correctio filialis, poiché
«il Papa qui esercita il suo ruolo di pastore, di maestro e di dottore della fede, dopo avere beneficiato della consultazione dei due Sinodi. Penso che — senza dubbio alcuno — si debba parlare di un documento pontificio di grande qualità, di un’autentica lezione di sacra doctrina, che ci riconduce all’attualità della Parola di Dio

Nessuna scomposta innovazione, quindi, né tampoco alcun sospetto di eresia, poiché
«La complessità delle situazioni familiari, che supera di gran lunga ciò che era abituale nelle nostre società occidentali ancora qualche decennio fa, ha reso necessario uno sguardo più sfumato sulla complessità di queste situazioni. Ancora meno di prima la situazione oggettiva di una persona non racconta tutto di una persona davanti a Dio e davanti alla Chiesa. Questa evoluzione ci conduce in modo vitale a ripensare ciò a cui noi miravamo quando parlavamo delle situazioni oggettive di peccato. E ciò implicitamente comporta un’omogenea evoluzione nella comprensione e nell’espressione della dottrina. Francesco ha fatto un passo importante obbligandoci a chiarire qualcosa che era rimasto implicito nella Familiaris consortio, sul legame tra l’oggettività di una situazione di peccato e la vita di grazia di fronte a Dio e alla sua Chiesa e, come logica conseguenza, l’imputabilità concreta del peccato. Il cardinal Ratzinger ce lo aveva spiegato negli anni Novanta: non si parla più automaticamente di situazione di peccato mortale in casi di nuova unione. Mi ricordo che nel 1994, quando la Congregazione per la Dottrina della Fede aveva pubblicato il suo documento sui divorziati risposati, avevo domandato al cardinal Ratzinger: «Forse che la vecchia prassi data per scontata e che ho conosciuto prima del Concilio, quella di vedere in foro interno con il proprio confessore la possibilità di ricevere i sacramenti a condizione di non creare scandalo, è sempre valida?». La sua risposta fu molto chiara, come le affermazioni di Papa Francesco: non esiste una norma generale che possa coprire tutti i casi particolari. Tanto è chiara la norma generale, quanto è chiaro che essa non può coprire tutti i casi in modo esaustivo

Il lettore ci scuserà per la lunghezza della citazione, ma essa aiuta a comprendere che ci troviamo in piena attuazione del Vaticano II, secondo una logica progressiva che partendo dai tentennamenti di Paolo VI, passa per gli sviluppi della “teologia del corpo” di Giovanni Paolo II e, appoggiandosi all’“ermeneutica della riforma nella continuità” di Benedetto XVI, giunge fino a Francesco, che si rivela essere l’ultimo stadio di un processo che intende condurre la Chiesa cattolica fino all’identificazione col mondo.

E Schönborn infatti non esita a dichiararlo:
«Noi qui tocchiamo alcune delle questioni profonde che ruotano intorno all’«ermeneutica della riforma nella continuità». Per trasmettere la dottrina, approfondirla e presentarla in una maniera che corrisponda alle esigenze del nostro tempo, esiste tutto uno sforzo per contestualizzarla, distinguendo tra le verità contenute nel deposito della fede e il modo di enunciarle. Questo è particolarmente rilevante nel campo dell’antropologia e del rapporto della Chiesa con il mondo di oggi in cui, a prima vista, può apparire una certa discontinuità. … la Chiesa ha rivisitato e talvolta corretto alcune decisioni storiche per approfondire, attraverso questa apparente discontinuità, la verità che le è affidata. «È proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma», aveva detto Benedetto XVI.»

E così il cerchio si chiude, fissando incontestabilmente il concetto che non è Francesco che può essere sospettato di eresia, ma sono i firmatari della correctio filialis e i loro sodali che non hanno ancora capito che «È proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma», … Ratzinger docet!




settembre 2017
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