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La mia posizione entro la “Correctio” di Pietro De Marco
Pubblicato sul sito Settimo Cielo di Sandro Magister Disputatio 1. Tra i contenuti della “Correctio” ciò che mi ha convinto a sottoscriverla è stato certamente il suo nucleo dottrinale, ovvero la messa in chiaro delle “proposizioni false ed eretiche, propagate [da papa Francesco] nella Chiesa tanto con pubblico ufficio quanto con atto privato”. Il livello formale della denuncia e il rigore della formulazione delle proposizioni censurate avevano, infatti, il pregio di andare al cuore delle cose, sia riguardo ai modi e ai contenuti propri dell’eloquio papale, sia riguardo a un complesso di opinioni e atteggiamenti intellettuali di rilevanza teologico-dogmatica diffusi da decenni nella “koinè” intellettuale cattolica. Di tale “koinè” papa Bergoglio partecipa spontaneamente: essa è un portato di ciò che si chiama correntemente “spirito del Concilio” [il Concilio costruito dall’intelligencija ai bordi dell’aula conciliare e affermato nel dopo concilio; intere generazioni, in particolare quelle oggi anziane, ne sono impregnate e se ne fanno ancora portatrici senza autocritica, come se la Chiesa non avesse trascorso oltre mezzo secolo di travaglio per gli errori e di effetti perversi indotti proprio da quello “spirito”. Con l’attuale pontificato una visione “conciliare” consistente di poche formule, per lo più liquidatorie di ciò che è l’essenza del Cattolicesimo (ragione e istituzione, dogma e liturgia, sacramenti e morale), viene dilagando e imponendosi come opinione pubblica della Chiesa, sicura dell’appoggio personale del papa, colma di certezza (senza discernimento delle implicazioni) e non senza sufficienza o disprezzo contro chi vi si oppone – così come appunto opera ogni ideologia. In effetti se ne coglie un aspetto argomentativo e retorico tipico, non solo nelle esternazioni continue del pontefice, ma in documenti ufficiali come “Amoris laetitia”: la banalizzazione o ridicolizzazione della posizioni avverse (tradizionali o meno) e della Tradizione stessa. Così, per esemplificare dalla materia stessa della “Correctio”, la distinzione tra regolare e irregolare è naturalmente “artificiosa ed esteriore”, le rigorose posizioni avverse banalmente ritengono che “tutto sia bianco o nero”, il giudizio secolare sul protestantesimo (Lutero) era “dovuto a paura e pregiudizio sulla fede dell’altro”; recentemente, tra le tantissime “boutade” del papa abbiamo: il rispetto della tradizione non significa “tenere sotto naftalina qualcosa, come una coperta contro i parassiti”, la legittimazione della pena di morte (da parte della Chiesa) fu dovuta alla “preoccupazione di conservate integri poteri e ricchezze”, ecc. Atteggiamento liquidatorio e tipiche retoriche “di base” oltre che del repertorio anticlericale, che hanno infestato gli anni Sessanta e Settanta (ne ho memoria precisa e copiosa, tra Firenze e Bologna) e da cui il “momentum” conciliare militante non si è mai liberato, ma che erano in declino, finché l’elezione di Jorge M. Bergoglio non li ha paradossalmente rilegittimati addirittura ai vertici. Premesse ed effetti di questa cultura sono, invece, limpidamente còlti, almeno per una parte, dalle proposizioni definite “false ed eretiche” nella “Correctio”. Tali proposizioni indicate sulla base di alcune formulazioni (tra le moltissime) di papa Francesco, devono essere intese come gli assunti impliciti, ovvero come le premesse maggiori, di quanto correntemente quella visione “conciliare” da anni afferma o propone a credere e mette in atto nel cosiddetto terreno pastorale. Quando parola e stile (pratico) vengono portati alla loro oggettiva premessa, consapevole o meno ma sempre, in ultimo, di natura dottrinale, ne appare il potere erosivo, distruttivo. Le proposizioni di cui propriamente si compone la “Correctio” per la sua parte tecnica, diciamo, colgono (come spetta ad una correzione) le voragini dottrinali che rendono possibile da decenni un galleggiamento della pastorale su note formule, liberanti, accostanti, generose, accompagnate da semplificazioni (che si vogliono rassicuranti per il fedele) relative al loro fondamento “evangelico”: fondamento che sarebbe in sé evidente, data la conformità di Gesù (un Gesù debole e “peccatore”) e della legge evangelica all’umano ordinariamente sperimentato! Di fronte a tutto questo la “Correctio” è un piccola “Pascendi”, centodieci anni dopo, che però, e drammaticamente, non proviene da un pontefice ma è rivolta a lui come censura. 2. Si è notato acutamente come, proprio nelle culture teologiche e pastorali “critiche” (che oggi favoriscono l’azione del papa) sempre volte a declassare la legge canonica, la congiuntura Sinodo e “Amoris laetitia” abbia stimolato un’attenzione inedita verso la norma. Perché? Perché la sensibilità pastorale, vuota di ragioni teologiche, è divenuta una corsa a alleggerire, esonerare, scriminare. Le preoccupazioni “pastorali” (se tali si possono ancora chiamare), che guidano cleri e episcopati, consistono oggi nel cercare di garantire una sorta di trattamento egualitario ai fedeli, di gratificarli con un pubblico riconoscimento di parità di diritti (di cui l’accesso all’eucaristia è solo la parte emergente), quale che sia la loro situazione di fronte a teologia morale e diritto canonico. La prassi pastorale della misericordia (non molti sembrano accorgersene, nemmeno il papa) rincorre, in particolare nelle società urbane e secolarizzanti di tutto il mondo, nelle “periferie esistenziali” piccolo borghesi dunque (non nelle “favelas”), la macchina perversa dell’ipertrofia dei diritti individuali. Diritti e vantaggi, dunque: la pastorale tende ad assomigliare ad un’opera aziendale di fidelizzazione dei clienti. Non è raro sentire parroci che si considerano dei professionisti stipendiati da un’organizzazione. Tra i diritti di quarta generazione (o forse ne costituiranno una quinta) la chiesa cattolica introdurrà quelli alla legittimazione, in foro esterno, dell’accesso ai sacramenti dei membri oggettivamente non idonei, senza memoria (spesso) all’ordine proprio, e non surrogabile, della vita soprannaturale del cristiano? Oggi l’accesso a richiesta all’eucaristia, domani molto oltre. Infatti al di là della teologia morale e del diritto, è la dissoluzione della teologia della Grazia e della vita soprannaturale, è la riduzione della teologia sacramentaria ad antropologia ed etica sociale, a divenire palesi. Per affermare e predicare nuove gerarchie di peccato nell’ambito delle etiche pubbliche, che sono sulla bocca di tutti ma di cui nessuno si fa carico se non declamatorio. Ora, va detto fermamente, che tale pratica di alleggerimento e de-regolazione rispetto al diritto divino e ecclesiastico in cui, come dicevamo, la pastorale è immersa da qualche decennio, che si tratti dell’obbligatorietà del “credendum” (il dogma) o della morale personale, vulnera nei fondamenti quel primato della comunicazione dell’anima con Cristo, entro la “complexio” sacramentale, che è patrimonio della verità cattolica. Sono inaccettabili, senza fondamento cattolico, le idee di un autodiscernimento con valore di giudizio sufficiente, di foro interno autoamministrato, come quelle di una giustificazione soggettiva che si fa Giustificazione. Vi è dietro a queste pretese individuali (e alle relative concessioni ecclesiastiche) una serie di equivoci ed errori non solo riguardo alla natura della coscienza, della sua autorità e verità, ma a tutto l’ordine della vita cristiana. La loro portata è dogmatica. L’esito è immediatamente un tipo di paradossale pelagianesimo senza norme se non quelle individuali, intuitive, emozionali, di situazione. Che è la linea da secoli percorsa da protestantesimi modernizzanti e da cristianesimi “senza chiesa”. Contemporaneamente, senza ordine, si attinge ad una teologia per la quale la Grazia è già tutta data nella costituzione dell’uomo “simul iustus et peccator” dopo l’Incarnazione. Si capisce quella sorta di scoperta (quasi entusiastica) di Lutero che rivelano le parole di Bergoglio e che, non senza sbigottimento, la “Correctio” denuncia. 3. La perversa dialettica ricostruita nelle proposizioni censurate 3 e 4 appartiene a questo quadro. La piena conoscenza della legge potrebbe coesistere con la sua non osservanza in materia grave senza peccato – in quanto questa inosservanza è una scelta libera da parte di una coscienza che discerne validamente e validamente decide contro la norma. Non è, si badi, l’umile riconoscimento nell’anima del “video meliora proboque, deteriora sequor”. È, da parte di fedeli e di clero, il non volersi “catalogati e rinchiusi in affermazioni troppo rigide” che non lascerebbero spazio “ad un adeguato discernimento personale e pastorale”. Il paradosso del quarto enunciato (attribuibile a papa Bergoglio) è, anzi, che proprio obbedendo alla legge divina si può peccare in virtù dell’obbedienza. Questo ordine di ritorsioni non è una novità, appartiene alle retoriche riformistiche e anti-istituzionali, in ogni ambito: una scelta “irregolare” (dal divorzio a ogni recente estremismo nelle materie bioetiche) sarà certo accompagnata dalla felicità, mentre quanta disonestà accompagna sicuramente le situazioni ‘regolari’! È vero che molti testi di papa Bergoglio sono tipici della conversazione leggera e del paradosso; ma il retroterra, ovvero il convincimento soggiacente, che si intravedono sono in sé pesanti. Sono convincimenti che negano rilevanza tanto alla nostra conformità sincera alla disciplina della Chiesa quanto alla nostra leale accettazione delle conseguenze di scelte devianti. In questo clima papale (e dintorni) di “boutade” educative noi impariamo che i discernimenti privati non avvengono nell’ordine della Grazia santificante che li nutrirebbe e rafforzerebbe, ma restano sotto il segno di una pretesa del fedele alla giustificazione nei confronti di Dio e della chiesa. La conformità alla norma oggettiva, la conformità onerosa, in questa prospettiva di auto-esonero non vale niente; non può valere perché se appena valesse – come la Chiesa sotto la garanzia di Cristo afferma invece da sempre – non si potrebbe sostenere che, nell’ordine del peccato e della Grazia, “vale” anche e quasi indifferentemente la scelta deviante. L’accondiscendenza (che mi appare superficiale e fidelizzante) diviene un attacco al discernimento del peccato e, ancora di più, alla coscienza delle “meraviglie della grazia divina”. Se il peccato, non solo nelle fattispecie considerate da “Amoris laetitia” e dal dibattito attorno ad essa, viene considerato in principio di incerta determinazione, poco rilevante o opinabile, non vi è bisogno della Grazia né attuale e nemmeno abituale. Per questo la prima formulazione censurata dalla “Correctio” (“Homo iustificatus iis caret viribus…”) è, nella sua tecnicità, la più profonda, nel senso che va di più al cuore del dramma pluridecennale della teologia cattolica recente: essa denuncia nella “pastoralità” (nella teologia) corrente la vanificazione della cognizione della Grazia, in particolare della grazia santificante. La giustificazione del singolo, giustificazione sia in accezione generica (morale) sia in accezione teologica, almeno vagamente, appare nelle espressioni di “Amoris laetitia” come in innumerevoli parole del pontefice piuttosto fondata sulle debolezze, sulle incapacità, che agirebbero come attenuanti, e su argomenti di “coscienza” volti inevitabilmente a scriminare atti e condotte propri. A tutto provvede già dall’inizio, e provvederà alla fine, la misericordia di Dio? Da un lato l’idea di giustificazione (o meglio l’opinione del papa che questa o quella persona siano giustificati o giustificabili nel loro agire) è colloquialmente imprecisa e confusa; dall’altro quando affiora un riferimento teologico (come nei cenni a Lutero) essa appare decisamente inesperta, tentata da una soluzione la cui inaccettabilità cattolica è stata valutata, con profondità, da tempo. Non sorprende che un severo rilievo, che nella “Correctio” si aggiunge alle sette proposizioni censurate, riguardi le affermazioni papali pubbliche su Lutero. Che papa Bergoglio abbia della millenaria tradizione docente della Chiesa, assistita dallo Spirito, l’immagine di una coperta vecchia che non andrebbe nemmeno tenuta sotto naftalina ma buttata, è palese. Palese dalle sue parole e da uno stile di governo noncurante e eversivo, radicati in una “personalità di base” condivisa nella Chiesa da oltre mezzo secolo nelle élite riformatrici antiromane e, come sostengo, da oltre mezzo secolo responsabile collettiva di errori, peripezie e false strade. Anche la più generosa delle ipotesi nei confronti di papa Bergoglio, che egli intenda (ri)guadagnare generale consenso a Roma nel mondo, per veicolare poi, con l’autorità conferitagli da una nuova legittimazione universale, un annuncio (quello eterno) oggi non ascoltato, anzi irricevibile – avrebbe senso se la fase di fidelizzazione oggi non si lasciasse dietro le macerie delle verità da proporre a credere domani. Ma la personalità culturale di base operante in Bergoglio, e già costruita sulla fine del Concilio, non partecipa più di questa ipotesi a due tempi (essere “accostanti” per essere nuovamente ascoltati, dopo, in una predicazione annuncio rigorosamente ortodossi) che ancora caratterizzava le rette intenzioni delle generazioni di papa Roncalli e dei padri conciliari. L’essere “accostanti” equivale oggi ad un poco critico essere “simili” per essere accetti, senza alcuna “metanoia” nell’altro. L’altro è, infatti, divenuto nel frattempo un canone, per di più liquido. La riconciliazione suppone, evidentemente, una condizione non conciliata ma ri-conciliabile. Una dinamica avversata da Lutero. Questa attrazione mimetica verso il “mondo” (cioè verso la laicità moderna, non altro), che in cinquant’anni ha prodotto nella Chiesa un drammatico dissanguamento di uomini (la Compagnia di Gesù fu tra le più colpite) verso questa o quella “piena conformità al mondo”, non può dunque non avere come retroterra un plesso di convinzioni false ed eretiche. A tali complessi mimetici, proposti con autorità da intellettuali innovatori, a tali affastellamenti di mezze verità e di errori, Roma si era sempre opposta, e di nuovo, con un certo vigore, nell’ultimo periodo del Concilio. È pressoché impossibile che un papa, che ora invece li rappresenta, innovativamente rispetto ai predecessori, che si fa per la prima volta garante e attore “in capite” del corrosivo magma postconciliare, non aderisca, per una sorta di automatismo, a un quadro di proposizioni indotte nelle culture cattoliche dalla anticattolica convinzione di un Concilio come svolta, che cancella, tra “ignoratio” e “damnatio”, la storia e la crescita santa della Chiesa nei secoli. È il quadro che sottende molto postconcilio “innovativo” e a mio avviso molto dell’infelice tentativo odierno di accontentare fedeli riottosi a spese della verità e profondità cristiana. Ma forse la pressione sociologica del mondo dei divorziati è, per molti teologi e moralisti, solo un pretesto. (torna
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novembre 2017 AL PONTIFICATO DI PAPA FRANCESCO |