Una santa Messa nel Sud dell’Italia rurale 

una lettera di Cesaremaria Glori


Pubblicato su Riscossa Cristiana






23 febbraio 2018

Caro direttore,

due domeniche or sono mi trovavo in un piccolo paese della Puglia non lontano da Bari e, fedele al precetto di santificare le feste, mi sono sentito in dovere di andare alla Santa Messa. In quella località non c’era alcuna possibilità di partecipare ad una Messa in rito antiquo, per cui anche quella in rito romano moderno poteva e doveva supplire.

Appena messo piede nell’ampia e bella chiesa sento la voce di una giovane donna che cantava con lo stesso stile con cui si canta una delle moderne canzonette tanto care ai giovani. Naturalmente era accompagnata dagli accordi di due chitarre e da una pianola elettrica. L’organo, bello ed imponente, era collocato sulla cella organaria posta al di sopra del portale d’ingresso ma, forse, doveva essere muto da molto tempo e chissà se funzionante ancora. Ebbene la voce di quella donna, amplificata oltre misura dagli altoparlanti, impediva qualsiasi raccoglimento e la gente che, numerosa (ciò va detto a riconoscimento del giovane parroco) partecipava alla celebrazione sembrava, per la maggior parte, per nulla incline ad accompagnare il canto. Infatti il canto riguardava più che gli adulti presenti quei pochi giovani e giovanissimi che occupavano i primi banchi e parte del presbiterio. Questa vicinanza dei giovani e giovanissimi non doveva essere sporadica, bensì sembrava essere la norma, giacché il celebrante si rivolgeva a loro in continuazione, quasi dialogando, sia durante l’omelia che nel corso della celebrazione eucaristica, interrompendo anche la sequela rigorosa del canone. Non entro nel contenuto dell’omelia infarcito di raccomandazioni su come relazionarsi col prossimo senza dare alcuna spiegazione delle prime due letture (quella tratta dal Levitico e l’altra dalla  prima lettera ai Corinzi) forse troppo impegnative per quei ragazzi ma non per gli adulti, ma prendendo lo spunto dal brano evangelico, il parroco si dilungava sull’accettazione non soltanto del  lebbroso ma di ogni diverso che si affaccia alla nostra presenza chiedendo l’aiuto umano da fratello a fratello.  E qui il dialogo tra celebrante e assemblea si faceva più fitto, sempre pungolato dal giovane sacerdote col porre domande o con l’invito a farle.

Su questo punto non è il caso di insistere, perché è ormai d’abitudine assistere a queste manifestazioni  di omiletica. Possono anche esse divenire efficaci e opportune, ma dipende dal contenuto non dalla modalità con cui sono attuate.  In questo caso l’interesse dei giovani e, forse, di qualche adulto, era evidente e ciò bastava a non rendere priva di interesse e di conformità allo scopo l’omelia. Ciò che  invece fu  inaccettabile e che appariva come indebita intrusione nella sacra liturgia fu l’interruzione del canone per l’interpolazione con aggiunte personali del celebrante.
Un’interruzione che violava la sacralità del rito, del suo mistero rievocante il sacrificio, in modo incruento, del Cristo.  Quella voce del celebrante, peraltro gradevole e calda, diveniva fastidiosa e urtante. In quel rito non c’era la ripetizione di un racconto ma la rievocazione quasi scenica di un fatto concreto, del sacrificio del Figlio di Dio sulla croce, la sua elevazione al Padre come vittima sacrificale, memoriale che esigeva raccoglimento nel silenzio più assoluto, perché si rievocava un dramma col quale il Figlio di Dio pagava il debito d’amore per l’intero genere umano. La sacralità del mistero svaniva sostituita dalla piatta rievocazione di un episodio, un episodio come un altro. E che fosse così lo dimostrava il seguito del rito che, senza almeno una pur breve pausa, proseguiva con elevato tono di voce sino al Padre Nostro.
Giunti a questo punto altra interruzione del rito con l’invito da parte del celebrante ad unirsi affratellati tutti insieme, tenendosi tutti per mano con le braccia alzate a recitare la preghiera insegnata da Gesù. Seguiva poi lo scambio della pace e a questo punto il sacerdote diventa il vero protagonista della cerimonia col dare la mano ai giovani e giovanissimi di ambo i sessi che erano nel presbiterio per poi scendere nella navata e fare lo stesso gesto con gli occupanti dei primi banchi, a destra i giovani del coro con il loro strumenti, a sinistra gli adulti. Il raccoglimento della consacrazione, ammesso che ci fosse stato, svaniva del tutto e del ricordo del sacrificio del Cristo non restava nell’aria nemmeno una traccia.
Questa Messa appariva come una rappresentazione scenica ove il protagonista era soltanto il celebrante. Lui solo agiva, muovendosi sulla scena. Lui solo si rivolgeva agli “spettatori”, spesso rivolgendosi a loro direttamente come se facessero parte della sceneggiatura. La musica rumorosa e il canto a voce squillante riempivano lo spazio e tutto sembrava assumere gli aspetti di una festa paesana, ove il momento solenne del sacrificio veniva appannato irrimediabilmente dal tono elevato del celebrante, la cui dizione somigliava sempre più a quella del recitativo di un’opera.  La sacralità dell’antica liturgia era svanita del tutto e a me, un sopravvissuto dell’antico rito, non restava che interiorizzare quanto veniva pronunciato sull’altare come se fosse, per incanto, riaccostato a quello di oltre cinquanta anni or sono.

Ma lo strazio al vedere come veniva maltrattato il rito della Santa Messa non era finito. C’era ancora la comunione e qui arriva il culmine della sceneggiata. Salgono all’altare uomini e donne (quattro in tutto), prendono ciascuno una pisside con le particole e, accompagnati da un chierichetto con in mano la patena  distribuiscono l’Ostia consacrata. Osservo dal fondo della fila che tutti porgono la mano per ricevere la particola e tutti l’assumono in bocca. Arrivato al mio turno non porgo la mano ma mi avvicino e socchiudo le labbra porgendo la lingua quel che basta per depositarvi l’Ostia. L’uomo, una simpatica figura di anziano in carne, resta un attimo sconcertato e mi guarda negli occhi. Anch’io lo guardo e faccio un piccolo cenno col capo che è di riverenza verso l’Ostia e di intesa che lui procedesse ad offrirmi quel dono. Poveretto, doveva essere tanto emozionato che gli sfuggì la particola che cadde a terra con nostro reciproco sgomento, più quello del chierichetto che mi guardò come se avesse visto un marziano. Il povero ministrante fu però svelto, si chinò, raccolse l’Ostia e se la mise in bocca. Il corpo di Cristo era salvo, era caduto in terra ma Gesù alle cadute ci era abituato, non così il ministrante che era arrossito palesemente.

Al termine della distribuzione dell’Eucaristia vidi quel ministrante dirigersi verso il fondo della chiesa ove anch’io mi trovavo. Si accorse di me e mi lanciò uno sguardo storcendo le labbra e il capo in senso di dissenso lasciandomi intendere che voleva parlarmi. Terminata la Santa Messa, non prima di un seguito dell’omelia fatto di avvisi e raccomandazioni varie da parte del giovane parroco, l’uomo mi si avvicinò chiedendomi, peraltro in modo molto garbato, perché non avessi porto il palmo della mano, affermando che non si aspettava da me quell’evidente rifiuto  a comunicarmi con le mie mani.

Caro Signore – gli dissi – è vero che mi sono rifiutato e mi rifiuterò sempre di farlo. Soltanto i sacerdoti, nella normalità dei casi, hanno il potere di toccare con le loro mani il Corpo di Cristo, perché con quelle stesse mani hanno consentito alla particola di divenire il corpo del Signore Nostro. Soltanto loro hanno quest’onore (e quale responsabilità!), tanto è vero che una volta, non tanto tempo fa, a quelle mani ci si inchinava e, se il prete non  ritirava la mano, la si sfiorava con le labbra in segno di rispetto per quell’arto che aveva un sì grande compito. Quella mano che aveva ed ha tuttora il potere di trasmetterci le benedizioni del cielo. Non dimentichiamolo questo potere. Il sacerdote resta tale in ogni caso anche se erra. Non sta a noi giudicarlo ma, se necessario, soltanto ad ammonirlo se siamo certi del suo fallo.

Quel pover’uomo rimase a bocca aperta, mi scrutò profondamente negli occhi e disse: Lei è un tradizionalista, vero? La comprendo e la rispetto anche se non sono d’accordo. Arrivederci.

Qui  finisce la mia esperienza di assistere ad una Santa Messa nel sud dell’Italia rurale, ancora sana e non del tutto corrotta dalla modernità.  Sino a quando resisterà quella parte di tradizione che spinge la gente a non disertare, come altrove, la Chiesa cattolica e i suoi riti?  Alla domenica le Chiese del Sud dell’Italia sono ancora piene di gente,  sintomo che nelle famiglie c’è ancora una tradizione che richiama ad antiche abitudini e ad ancestrali devozioni, malgrado la povertà della liturgia attuale e la bruttezza di tutto ciò che l’accompagna, dai paramenti sacri, alla musica, alle forme di devozione popolare ed ecclesiale che contribuiscono non poco al mantenimento di una religiosità che non è soltanto formale, giacché i segni sono espressione di radicate convinzioni.
Ma sino a quando durerà? Forse sino a quando gli anziani e i vecchi riusciranno ancora a trattenere le giovani leve, ma quando queste prevarranno nel numero e nell’ascendente verrà a mancare l’ultimo Katekon verso la laicizzazione, anzi verso la scristianizzazione completa delle masse. A meno che, ma questo non dipende da noi, intervenga un fattore soprannaturale a modificare radicalmente la situazione.
Per questo motivo occorre continuare a pregare Dio e la Santissima Vergine Maria che non ci abbandonino all’azione pervertitrice del padrone di questo mondo. I fatti hanno dimostrato e dimostrano che questo padrone è invincibile senza l’aiuto divino, quell’aiuto divino che non è mancato per redimerci e che si farà sentire a tempo opportuno con inimmaginabile celerità ed efficacia per rinnovare la redenzione.

Cesaremaria Glori






febbraio 2018
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