Dai loro riti li riconoscerete.
Il sangue dei martiri e l’inchiostro degli scrivani   


di Alessandro Gnocchi

Pubblicato su Riscossa Cristiana

I neretti sono nostri





Mons. Edoardo Viganò al Centro Televisivo Vaticano


Non si loderà mai abbastanza il povero Karl Marx, che ne ha sbagliate tante, ma ci ha lasciato quel saggio monito secondo cui la storia si presenta una prima volta in tragedia e la seconda si ripete in farsa. Va sempre a finire così quando ci sono di mezzo gli uomini che fornicano con il potere in amoris laetitia e si esibiscono gaiamente sotto i riflettori del mondo. Dunque il giallo, pallidissimo per la verità, della mezza lettera di Benedetto XVI sui saggi dedicati alla teologia di Francesco I non ha fatto eccezione, ed è arrivato in una sola settimana alla comica finale con le dimissioni di monsignor Dario Edoardo Viganò da Prefetto della Segreteria per la Comunicazione.
L’evangelizzatore dei massmedia, il faro morale delle news che piacciono alla chiesa che piace ha lasciato la sua carica per aver spacciato una notizia semivera. O semifalsa, se si preferisce, che è la stessa cosa.
Naturalmente, monsignore è uscito dalla porta della Segreteria come Prefetto per rientrarvi dal portone come Assessore, cioè come garante della continuità massmediatica secondo Bergoglio. Un’operazione, si sarebbe tentati di dire, all’italiana, o anche all’argentina, e invece tocca ammettere alla vaticana.

Il succo della vicenda è tutto qua, una piccola scaramuccia di potere dopo cui tutto cambia perché tutto rimanga uguale. Il gattopardo che si aggira dentro le mura leonine è di gran lunga più abile e vorace di quello siculo. Così abile e vorace da alimentarsi di tutto quanto propagano sul suo conto, in bene e in male, quei massmedia con i quali volentieri si apparta dietro i divani dei salotti perbene e che monsignor Viganò avrebbe dovuto educare al vero con le sue maldestre bugie.
Neanche il genio di un Tomasi di Lampedusa riuscirebbe da solo a cartografare la geografia di un potere sempre uguale a se stesso in virtù, o meglio in vizio, di oscuri e insondabili labirinti delle anime e dei corpi.

In ragione di questo gattopardismo, ancor più che i vari Melloni, Rodari & Tornielli affannati nel mostrare come e qualmente tutto vada bene madama la marchesa, sono patetici i presunti trionfatori della tenzone. Non hanno capito, i poveri megafoni del ratzingerismo, che tutto finisce qui, anzi era finito prima di cominciare per emerito volere. Sono convinti di aver vinto una battaglia e non si sono accorti che non c’è la guerra.
Intanto, sopraffatti da un incontenibile conservatorismo di ritorno, fanno scorrere inchiostro vittorioso con la baldanza di un novantenne prostatico. Nei giornali si definirebbe sbrigativamente l’increscioso fenomeno con una formula più concisa, ma meno elegante.

Più che nelle dimissioni di monsignore, il gran finale della farsa sta in questo continuare a raccontare ignobili vicende condite con il gusto pruriginoso per il lato B del potere, in questo sentirsi cronisti di epocali cambiamenti sbirciando dalla serratura, tra l’altro della porta sbagliata.
Uno spettacolino che ricorda veramente Marx, Groucho, ancor più di Karl. Richiama alla memoria il Marx newyorkese che ammoniva “Questi sono i miei principi, se non vi piacciono ne ho degli altri” e poi spiegava che “il segreto della vita comprende l’onestà e un comportamento corretto: se riesci a fingerli, ce l’hai fatta”.

Per la cronachetta di tali epiche giornate, varrebbe come conclusione quest’altro pensierino  grouchiste “La commedia non mi è piaciuta, però l’ho vista in condizioni sfavorevoli: il sipario era alzato”. Ma, a volerne trarre qualche considerazione, bisogna tornare all’altro Marx, quello di Treviri, perché prima della farsa è andata in scena la tragedia.

Per quanto in sessantaquattresimo, bagatelle di tal fatta sono eco di cronache tremende provenienti da una chiesa che ha trasunstanziato il sangue dei martiri nell’inchiostro degli scrivani. Una chiesa venuta a patti scellerati con il mondo e ha rinunciato all’unica arma che lo possa convertire, il martirio. Una chiesa che teme il proprio sangue, ancor prima che per le ferite mortali da cui solo può sgorgare, per l’efficacia che gli è consustanziale. Più che il proprio dolore e il proprio male, questi similcristiani temono il bene del prossimo. Hanno cominciato a tacere l’inferno e hanno finito per chiudere le porte del paradiso. Una chiesa atea non può permettere che dal cuore ferito delle creature sgorghi il desiderio di Dio a testimonianza del suo tradimento del Vangelo. Così, alla Parola di Dio sostituisce il gossip degli uomini, alla Buona Novella preferisce “Novella 2000”, entra in comunione con le sue pecorelle attraverso il pettegolezzo sulle beghe di palazzo.

Non è data differenza tra chi sta da una parte e chi sta dall’altra, fra progressisti e conservatori, partecipano tutti della stessa fede nell’uomo e praticano tutti la stessa religione della parola vana e vanitosa. Dunque, mettono tutti in scena lo stesso rito. Le redazioni sono le loro chiese, lo scoop è il loro sacramento, che ha come materia l’inchiostro e come forma un titolo. E i lettori cibano le loro anime con i sacramenti mondani persino più piamente e con più fede di quando si mettono in piedi a ricevere sulle mani il Corpo di Nostro Signore, ammesso che lo sia veramente.

Tutti, ministri e fedeli, sono in adorazione dello stesso dio, che fa la sua epifania sotto la forma dei mezzi di comunicazione. Si illudono di trasmettere e ricevere un messaggio, ma, come aveva previsto McLuhan, non fanno che diffondere il mezzo, ormai assurto al rango di divinità.
E il potere curiale spezza il pane della notizia nelle mani di tutti i ministri del culto, a qualunque parrocchia appartengano, perché arrivi al popolo frazionato nelle giuste proporzioni fra progressismo e conservazione e poi, una volta goduto e ruminato, venga archiviato tutto intero, senza che nulla sia cambiato. Che è il vero miracolo prodotto da queste orribili celebrazioni.

La malattia dell’animo umano su cui riposano tali riti è la vanagloria, così ben descritto da San Giovanni Climaco nella Scala del Paradiso: “La vanagloria è, quanto al genere, stravolgimento della natura, perversione dei costumi, attenzione continua al biasimo; quanto alla qualità è dispersione delle fatiche, spreco dei sudori, travisamento del tesoro, figlia della mancanza di fede, precorritrice della superbia, naufragio in porto, formica nell’aia”. E il ministro del culto, sempre seguendo l’autore della Scala, è “il vanaglorioso (…) un idolatra credente, che in apparenza venera Dio, ma vuole piacere agli uomini e non a Dio. Il vanaglorioso è, chiunque sia, un esibizionista”.

La prova sta nella considerazione tratta da una giornalista completamente estranea a simili liturgie una volta saputo che tutto ha avuto inizio con la lettura della mezza lettera di Benedetto XVI da parte di monsignor Viganò: “Ma non poteva evitare di leggerla?”. No, non poteva non leggerla, perché la vanità è più forte della prudenza. Ma soprattutto perché l’idea della divinità, per quanto falsa, instilla nel cuore dell’uomo che il suo rito venga celebrato.



marzo 2018
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