QUALCUNO NELLA CHIESA SI È ACCORTO

CHE NELL’ENCICLICA SPE SALVI

PAPA RATZINGER HA CANCELLATO L’INFERNO?

Come pure il Purgatorio
e il concetto di peccato come ‘offesa a Dio’.
Per il Paradiso, basta un surrogato.



di Enrico Maria Radaelli






1. La teodicea deviata di Papa Ratzinger in Spe Salvi: vorrebbe essere “inclusivista”, ma, fondata com'è su tre niente, è solo nichilista, anzi “nientista”


Sono passati poco più di dieci anni dalla promulgazione della Lettera enciclica Spe salvi pubblicata da Benedetto XVI il 30 novembre 2007, ma sono dieci anni passati inutilmente, anzi, più che inutilmente: rovinosamente, perché, non avendo alcun Pastore, ossia teologo, accademico, monsignore, vescovo, arcivescovo, cardinale, prefetto di Congregazione, capo di istituto religioso, insomma un qualche conduttore in qualche modo e ambito della vita e della dottrina della Chiesa dato un minimo cenno di riscontro al problema della Teodicea, al grave problema della Teodicea annidato ai numeri 45-6-7 di quell’Enciclica e denunciati dal sottoscritto almeno nel loro principio eversivo di base in La Chiesa ribaltata, Gondolin, Verona 2014, è successo che questa sviante Teodicea imperniata su tre niente: niente Inferno, niente Purgatorio e niente peccato come ‘offesa a Dio’, è dilagata nella Chiesa come la più subdola e nascosta delle infezioni, ma anche la più dannosa, e ora tutti ne sono contagiati.

La Spe salvi, in quanto Lettera enciclica papale, è da considerarsi ‘magistero ordinario e autentico’, e, come tale, pur non dogmatico, dunque pur di per sé fallibile, è magistero ‘vero e sicuro’, sicché magistero cui è dovuto, non ‘l’obedientia de fide’ che si dà unicamente al magistero dogmatico, ma, insegna il Catechismo, un ‘religioso ossequio’, giacché tale magistero, anche se non irriformabile e infallibile, desiderando chi lo esercita essere sempre e comunque moralmente e logicamente in linea con la verità del magistero irriformabile e infallibile di cui è il pastorale e casuistico sviluppo, segue la direttrice che regola ogni magistero ‘ordinario e autentico’, segue dunque, e in sé stesso e nell’insegnamento fuori da sé stesso, la direttrice che regola le ‘verità connesse’ (si intende ‘connesse al dogma’), ossia le ‘verità certe e sicure’, che in qualche misura non possono non essere fallibili come sono, proprio per i presupposti storicistici, culturali e linguistici da cui in parte non possono non originare, v. il Codex Iuris Canonici, il ministero della canonizzazione dei santi, lo stesso Catechismo della Chiesa Cattolica e altro.

In altre parole, e qui si consiglia vivamente il lettore di tenere ben a mente la cosa per saperne vedere poi le inaspettate e non ovvie conclusioni, la Spe salvi si pone, come ogni papale Enciclica, a un livello magisteriale di pretesa oggettiva natura sua altamente veritativo, pur se non il sommo, chiamato dai teologi ‘vero e sicuro’, tanto da rasentare la perfezione aletica del dogma, così da poter pretendere dai fedeli – dal più indotto al più sapiente, dal più umile al prefetto del Sant’Uffizio – il ‘religioso ossequio’ da porgere a ogni parola che vuole avere una eco universale di persuasione forte, ferma, totale, pacifica e immediata.

Ne era consapevole, di tutto ciò, il Papa che l’ha promulgata? Certo che ne era consapevole, eccome. Ma si vedrà il motivo per cui mai, e ripeto mai, nella bimillenaria storia della Chiesa, un’Enciclica papale sia stata più funestamente immeritevole di tanto altissimo diritto, pur datogli da Dio.

Ricordato in breve tutto ciò, si vedrà ora invece come, attraverso una personale e del tutto impropria esegesi della Prima Lettera di san Paolo ai Corinzi (3,12-5), l’antico Teologo di Tubinga, pur nell’esercizio di un magistero alto ed esigente come quello di una Lettera enciclica papale, si sia voluto mantenere abbarbicato alle davvero pessime dottrine teilhardesche di gioventù, che noi si credeva e si sperava abbandonate con la maturità, almeno per le responsabilità pastorali via via assunte e per l’utilizzo della più piena elargizione di grazia concessa da Dio a un Sommo Pastore.

L’Enciclica, proprio per questi suoi punti dirompenti riscontrati dal sottoscritto, aveva costituito uno dei temi centrali del mio La Chiesa ribaltata (Gondolin, Verona 2014), nel quale segnalavo come anche in quell’alto magistero il già Teologo di Tubinga insistesse nel suo sviante insegnamento intorno a Teodicea e Novissimi, anche allora però senza suscitare
in alcun vescovo, cardinale, prefetto di santa romana Chiesa una qualche anche minima perplessità: nessuna perplessità da nessuno, e dunque anche nessuna consonanza sui rilievi critici che facevo in quel mio libro, di cui riporto qui i brani che riguardano la Spe salvi sul punto dei Novissimi a proposito della Teodicea, ossia della destinazione che Benedetto XVI crede sia riservata agli uomini post mortem.

2. La grave deviazione teologica di Papa Ratzinger con la falsa teodicea insegnata nella sua Spe salvi

Al n. 45 dell’Enciclica Papa Ratzinger-Benedetto XVI insegna che dopo il Giudizio universale gli uomini si trovano in due grandi categorie: la prima costituita da
persone che hanno distrutto totalmente in se stesse il desiderio della verità e la disponibilità all’amore. Persone in cui tutto è diventato menzogna; persone che hanno vissuto per l’odio e hanno calpestato in se stesse l’amore. […] In simili individui non ci sarebbe più niente di rimediabile e la distruzione del bene sarebbe irrevocabile: è questo che si indica con la parola ‘inferno’.

Anche qui, come già nel 1968 nel suo Introduzione al cristianesimo, libro analizzato nel mio recente Al cuore di Ratzinger. Al cuore del mondo, Aurea Domus, Milano 2017, di peccato come ‘offesa a Dio’ non se ne parla mai, e lo stesso lemma ‘peccato’ viene nascosto tra pieghe e circonlocuzioni di cui chi ne afferra il senso vince un premio.

E notare, per prima cosa, i due condizionali: “non ci ‘sarebbe’ più niente di rimediabile”, e “la distruzione ‘sarebbe’ irrevocabile”. Perché il condizionale e non un deciso indicativo? “Non c’è più niente di rimediabile”, “La distruzione del bene è irrevocabile”: siamo dopo il Giudizio universale, non prima; cos’ha frenato ancora una volta Papa Ratzinger dal dare a
quei concetti la certezza di realtà definitive e sempiterne?

Secondo: forse che l’Inferno è lo status, se pur irrevocabile, e ciò solo in ipotesi, in cui si trovano “alcune persone”? “alcune”? tutto qui? è questa la Teodicea di Papa Ratzinger?
E anche per la seconda categoria, quella delle « persone purissime, che si sono lasciate interamente penetrare da Dio », l’augusto Autore resta nel vago: non dice che le attende il Regno dei Cieli, o Paradiso, come ci si aspetterebbe, ma compie solo una vaga e vaporosa perifrasi. Eccola: « il cui andare verso Dio conduce solo a compimento ciò che ormai [esse] sono ».
E anche qui: perché questa indeterminatezza? a che dobbiamo questa immeritevole nebulosità? Il Paradiso, o Regno dei Cieli, non sarebbe altro che “il compimento di ciò che ormai (esse) sono”: nient’altro che un miserabile e comunque tutto umano stato d’animo, parrebbe. Tutto qui?

Ma le cose si fanno ancora più oscure al n. 46 dell’Enciclica, dove il suo Autore prende in considerazione una terza categoria di persone:
Nella gran parte degli uomini [siamo sempre post mortem, ndA] rimane presente nel più profondo della loro essenza un’ultima apertura interiore per la verità, per l’amore, per Dio. Nelle concrete scelte di vita, però, essa è ricoperta da sempre nuovi compromessi col male – molta sporcizia copre la purezza, di cui, tuttavia, è rimasta la sete e che, ciononostante, riemerge sempre di nuovo da tutta la bassezza e rimane presente nell’anima. Che cosa avviene di simili individui quando compaiono davanti al Giudice? Tutte le cose sporche che hanno accumulate nella loro vita diverranno forse di colpo irrilevanti? O che cosa d’altro accadrà?

La cosa, in tutta l’Enciclica, rimane senza risposta. Infatti di Purgatorio, sia in Introduzione per la mente del Prof di Tubinga, sia ora in quella dell’augusto Autore di Spe salvi, non c’è traccia. Il che, per un tenace assertore della imperitura persistenza di un po’ di bene nel monte del male e di un po’ di male nel monte del bene, e dunque del riconoscimento di trovarsi alla presenza di uomini bisognosi di quella purificazione o detersione finale che costituisce precisamente
il munus, o mission del Purgatorio, parrebbe davvero contraddittorio. Ma una ragione c’è, e la si vedrà presto.

Fin qui la citazione da La Chiesa ribaltata. Dalla quale si vede come, sotto velluti e labirinti, comunque si poteva ben cogliere una teologia del nulla, tant’è che persino un nulla come chi scrive la colse, e ciò dovrebbe bastare a quei Pastori che volessero, finalmente, cimentarsi in tanto ardire.

Qui il Theologus parla genericamente di «compromessi col male», di « sporcizia » che «copre la purezza», di « cose sporche che hanno accumulate nella loro vita», guardandosi bene dal distinguere, in tali indifferenziati cumuli, come invece fa persino la società civile, tra nefandezze e nefandezze, ossia tra quelle leggere, o veniali, e quelle mortali. “Non distinzione” grave, però, il cui principio forsennatamente e ostinatamente inclusivista sarà proprio ciò che permetterà al suo molto accorto Autore di giungere agli esiti paradossali, innovatori e perciò del tutto erratici che vedremo fra poco, dopo aver raccolto le ancor più gravi nozioni giacenti ai nn. 46-7.

La faccio anch’io, comunque, una domanda, e la faccio a lui: al già augusto e ora non più augusto ma solo eminente Autore di domande fatte apposta per lasciare nelle nebbie le greggi affidategli, e la faccio a tutti i vescovi, cardinali, prefetti e Papi nel frattempo comunque doppiamente silenti: silenti cioè sia dopo la divulgazione di quell’Enciclica piena di affermazioni e domande vane, sia dopo la pubblicazione del mio saggio critico su di essa: forse che avremmo avuto le stesse parole, le stesse indeterminatezze, le stesse circonlocuzioni insipienti ed erratiche, se il Sommo Pastore si fosse espresso nella plenitudo potestatis di cui lui e solo lui possiede il Munus Clavium, ossia si fosse espresso nel regime di massima entelechia consentitagli, il pronunciamento ex cathedra cui sistematicamente si stanno sottraendo tutti i Papi succedutisi sul Trono di Pietro dal concilio Vaticano II a oggi, anche allorché era richiesto loro il giudizio più fermo, infallibile e sicuro su punti cardinali del dogma in fide et moribus?
Secondo me no, non le avremmo avute, ma avendo finalmente le risposte e certezze che tutti aspettiamo, pretese da Dio, di cui tutti hanno urgente bisogno, e che le dottrine elaborate e insegnate dall’Autore di Introduzione stanno contribuendo a disperdere come pochi altri Pastori oggi, aumentando lo sdegno di Dio verso una Sposa che sta sempre meno corrispondendo alle Sue direttive, indicazioni e leggi.

3. Niente dannati, per Papa Ratzinger: l'Inferno, infatti, non solo è vuoto, ma neppure c'è.

Ai nn. 46-7 Benedetto XVI affronta e risolve il “problema dannati” escludendone l’esistenza, con una tutta nuova esegesi di I Cor 3,12-5, di cui qui si propongono due ampie pericopi per darne la più completa visione. Qui dal n. 46:
Paolo dice dell’esistenza cristiana innanzitutto che essa è costruita su un fondamento comune: Gesù Cristo. Questo fondamento resiste. Se siamo rimasti saldi su questo fondamento e  abbiamo costruito su di esso la nostra vita, sappiamo che questo fondamento non ci può più essere sottratto neppure nella morte. Poi Paolo continua: « Se, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, l’opera di ciascuno sarà ben visibile: la farà conoscere quel giorno che si manifesterà col fuoco, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno. Se l’opera che uno costruì sul fondamento resisterà, costui ne riceverà una ricompensa; ma se l’opera finirà bruciata, sarà punito: tuttavia egli si salverà, però come attraverso il fuoco » (3,12-5). In questo testo, in ogni caso, diventa evidente che il salvamento degli uomini può avere forme diverse; che alcune cose edificate possono bruciare fino in fondo; che per salvarsi bisogna attraversare in prima persona il « fuoco » per diventare definitivamente capaci di Dio e poter prendere posto alla tavola dell’eterno banchetto nuziale.

E si noti: nel testo evidenziato il Papa si limita a dire che il « salvamento » è, molto genericamente, « degli uomini », anche qui togliendo ogni specifica che in qualche modo si richiami a Mt 25,31-46, p. es. “delle pecore e non dei capretti”, o “dei giusti e non dei reprobi”, o “delle persone pie e non degli empi”, oppure, richiamandosi precisamente alle
precedenti espressioni dell’Apostolo, “di chi è rimasto saldo sul fondamento di Cristo e non di chi non vi è rimasto”.
Ma sostenere che il salvamento è indistintamente « degli uomini », senza alcuna specifica, significa non fare alcuna distinzione tra empi e pii, ma parlare “di tutti gli uomini”, e da qui, ancor più grave, allorché, appena prima, il Teologo cita quelle parole che paiono dire proprio così, senza nessuna ombra di dubbio: « tuttavia egli si salverà, però come attraverso il fuoco», dare anche per scontato che sia lo stesso Apostolo, ossia le Sacre Scritture, ossia Dio, a stabilire la cosa. C’è poco da fare: san Paolo dice proprio così: « tuttavia egli si salverà ».
Ma se si ritiene che attraverso il fuoco si possa salvare l’empio come il pio, allora significa che Papa Ratzinger attribuisce all’Apostolo l’insegnamento che tutti si salvino: empi e pii, che è a dire la totalità degli uomini, e il gioco è fatto.
La totalità degli uomini è infatti l’unica categoria, come si è visto e ancor più si vedrà con la prossima citazione, cui si vuole riferire Benedetto XVI quando parla di salvezza eterna. E il Teologo si appropria persino delle parole di san Paolo, piegandole alla propria ermeneutica indistinta e inclusivista, pur di dimostrare la verità della propria esegesi, che però è invece del tutto falsa, e ora se ne vedranno i motivi.

Infatti san Tommaso ricorda che tutto ciò è un’eresia, giacché egli rileva che, in primo luogo, nelle Sacre Scritture si distinguono due tipi di peccati, non uno solo, e se un tipo di peccato – peccato che Papa Ratzinger ritiene invece essere di una sola specie – permette la salvezza, l’altro – per nulla da quegli considerato – conduce invece alla morte: infatti « – precisa l’Aquinate – si paragonano più col ferro, i peccati mortalicol piombo e con la pietra, per il loro peso, e anche perché non sono rinnovati dal fuoco, ma rimangono sempre quali sono, mentre i peccati veniali si paragonano col legno, col fieno e con la paglia sia per la loro leggerezza, sia perché da essi ci si può facilmente purgare col fuoco » (Expositio et lectura super epistolas Pauli apostoli, Prima Lettera ai Corinzi, 155), e ciò significa che, se il fuoco non può niente contro i peccati mortali, perché il fuoco non ha alcun effetto su materiali come ferro, piombo e pietra, tutto può sui veniali, perché li può distruggere, come il fuoco può distruggere legno, fieno e paglia.

Questa netta divisione dei peccati in mortali e veniali, fatta, si noti, non da un Dottore della Chiesa, ma dall’Apostolo, dunque dalle Sacre Scritture, e da un Dottore della Chiesa unicamente ben rilevato e ancor meglio commentato, è fondamentale e decisiva: è la distinzione la cui distruzione nell’unica indistinzione genericissima si rivelerà essere il cardine
della nuova Soteriologia ratzingeriana, così da potersi facilmente e abbondantemente spargere a macchia d’olio per tutta la Chiesa odierna, perché essa permette di cancellare per sempre l’Inferno, e con esso tante altre essenze non da poco, anzi necessarie, anzi primarie, anzi somme, come si può capire: Dio, la Chiesa, la religione, la morale. Tutto.

In secondo, l’Aquinate dimostra che per la Sacra Scrittura (ossia per Dio attraverso l’Apostolo) è un’eresia ritenere che il soggetto “egli” della proposizione « tuttavia egli si salverà, però come attraverso il fuoco » sia anche l’empio, se con tale pronome si intende che lo sia non solo chi cade in peccati veniali, per quanto numerosi, ma pure un uomo che  volutamente permane e muore in stato di peccato mortale, perché ne seguirebbe, fa notare l’Angelico, che anche « chi muore in peccato mortale, purché conservi la fede – il “fondamento” –, 5,21 ripete: “Chi compie tutte queste cose non erediterà il alla fine conseguirebbe la salvezza, sebbene prima debba sostenere qualche pena. Ma ciò contrasta chiaramente con la sentenza dello stesso Apostolo, che più avanti, nella stessa Lettera, dice: “Né immorali, né idolatri erediteranno il Regno dei Cieli” (6,9) e in Gal 5,21 ripete: “Chi compie tutte queste cose non erediterà il Regno di Dio”. Infatti coloro che ne sono esclusi sono inviati nel fuoco eterno, come si dice in Mt 25,41 » (Ibidem).
Altro è il fuoco eterno di Mt 25,41, altro il fuoco temporaneo di I Cor 3,15-8. Il primo è il fuoco dell’Inferno, il secondo è quello del Purgatorio. Papa Benedetto XVI confonde arbitrariamente l’uno con l’altro, facendo passare il primo per il secondo, ossia “diseternizzando”, se si può dir così, l’eternità dell’Inferno, ma, oltre a tale gravissimo arbitrio, anche togliendo al Locus horribillimum tutto il resto: consistenza di realtà anche materiale, presenza di satana e dei diavoli suoi scherani, terribilità di pena, assenza assoluta di Dio e di ogni grazia, per dire le più conosciute. Questo non è un trattato di Teodicea, ma è evidente che le Sacre Scritture, sia in quei due passi che in tutti gli altri che si riferiscono a Inferno e Purgatorio, definiscono e illustrano due realtà agli antipodi, una dove per sempre è ricacciato ogni vivente che odia Dio, l’altra dove l’amore di Dio deterge delle ultime scorie quelle anime comunque morte in grazia di Dio.

Benedetto XVI, con un’esegesi che definire inadeguata, visto il Trono da cui la dispensa e diffonde con Munus universale, è troppo poco, fa dire a san Paolo che tutti gli uomini si salverebbero: “pecore e capretti”, “giusti e reprobi”, “pii ed empi”, perché tutti passerebbero attraverso «un fuoco». Chi glielo dice, all’antico der Professor, che Dio stesso, allorché lui si presenterà davanti al Suo Trono, potrebbe trovare questa sua esegesi, che in un sol colpo ha annientato Giustizia di Dio, Inferno, Purgatorio, e in ultimo persino Dio stesso, rozza, goffa, maldestra, a meno di non considerarla poi, tutt’al contrario, fin troppo astuta? Certo, non sarà
un miserabile ipo-anellide come il sottoscritto a farlo, e si spera che un santo Pastore, prima o poi, glielo faccia notare.

Ma intanto andiamo avanti: infatti, che fuoco è mai, ci si deve chiedere, che brucia così indistintamente tutti?
Lo vediamo ora, sempre in Spe salvi, al n. 47:
Alcuni teologi recenti [non altri che lui stesso, ma sotto mentite spoglie, ndA] sono dell’avviso che il fuoco che brucia e insieme salva sia Cristo stesso, il Giudice e Salvatore. L’incontro con Lui è l’atto decisivo del Giudizio. Davanti al suo sguardo si fonde ogni falsità. È l’incontro con Lui che, bruciandoci, ci trasforma e ci libera per farci diventare veramente noi stessi. Le cose edificate durante la vita possono allora rivelarsi paglia secca, vuota millanteria e crollare. Ma nel dolore di questo incontro, in cui l’impuro ed il malsano del nostro essere si rendono a noi evidenti, sta la salvezza. Il suo sguardo, il tocco del suo cuore ci risana mediante una trasformazione certamente dolorosa « come attraverso il fuoco ». È, tuttavia, un dolore beato, in cui il potere santo del suo amore ci penetra come fiamma, consentendoci alla fine di essere totalmente noi stessi e con ciò totalmente di Dio.

Chiaro? « L’incontro con Lui » ci brucia, e, così bruciandoci, « ci trasforma », « ci libera », così da « farci diventare veramente noi stessi »: il Cristo, così, non sarebbe altro che un detergente, un ripulitore di orpelli, che come la candeggina deterge gli uomini dalle macchie del peccato, quale che sia, e ciò fa con tutti, grandi peccatori e piccoli peccatori, perché il fuoco del Giudice divino brucia come paglia secca tutte le impurità, fossero le più atroci, devastanti e inguardabili.

4. Per Papa Ratzinger Dio ha creato uomini o automi?

<>Ma poi: cosa significa « farci diventare veramente noi stessi »?
Qui non entriamo nel merito di quello che si presenta come un tema da gran trattato di antropologia religiosa, ma non si può non ricusare un’espressione che, se qualcuno credeva di aver raggiunto l’ipogeo – l’ipogeo, non l’apogeo, l’abisso, non il sommo – della gravità della dottrina che chiameremo Ratzingerismo, ebbene: essa va ben oltre, perché con quest’espressione, secondo der Theologe, finalmente “il fuoco vivo e incendiario di Cristo, con la sua fiamma ardente, ci infiammerebbe tanto da bruciare tutte e tutte le nostre immondizie, brutture, orrori, ossia tutte quelle impurità che hanno attecchito alle nostre povere anime come sgradevoli ma del tutto accidentali incrostazioni”, giacché se fosse per noi invece esse sarebbero anime tanto belle buone e sante che neanche te le immagini.
L’espressione « farci diventare veramente noi stessi » significa che noi, nelle nostre scelte, nei nostri atti di raziocinio e volontà, non eravamo affatto noi, ma automi, robot, o magari forse preda di qualcosa o di qualcuno che ci obnubilava la mente, drogati, alieni a noi stessi, posseduti, come minimo schizofrenici. Ma Dio, post mortem, dopo una vita da scellerati, dopo una vita da ubriachi, gli occhi annebbiati e i sensi stravolti, ci fa tornare in noi, ci riporta alla realtà.
Post mortem? e perché post mortem? a che ci serve, post mortem, « diventare veramente noistessi »? e poi, specialmente, se noi non eravamo “veramente noi stessi”, si possono ancora
considerare peccati tutti quegli atti più o meno scellerati che si è compiuti, posto che per peccare sono richieste le condizioni di piena avvertenza e deliberato consenso?

E questa parrebbe domanda ben sensata, visto che il Papa, in quel punto, dice proprio che «l’incontro con Lui …, bruciandoci, … ci libera ». Ci libera?

Domanda: ma se nella vita allora eravamo imprigionati, tanto da non essere più noi stessi, e solo ora finalmente veniamo trasformati o riportati in noi, il gioco non vale, è tutto da rifare: è una presa in giro, va a monte tutto! Come si permette, Dio, di farci questo brutto scherzo, per cui prima ci abbrutiamo in una prigione di incrostazioni e di falsità sempre più impure e sciagurate, e soltanto post mortem ci fa diventare quelli che avremmo dovuto fin dall’inizio essere?
Infatti si noti il verbo usato: “diventare”; non “ri-diventare”, che son due verbi ben diversi, perché se il Papa avesse scritto “ri-diventare” si sarebbe ancora potuto cercar di trovare una traccia di sensatezza, ma così, col puro “diventare”, non c’è storia: si diventa ciò che prima non si era, e si ridiventa ciò che già si era stati ma non si era più: sicché la cosa, pur cercandola di salvare in tutti i modi, resta come si è presentata: dissennata.

Si è visto dunque che non è e non può essere così, e che l’Apostolo mai si sarebbe sognato di dare un quadro tanto grottesco di Redenzione, che, come cardine della sua irrealtà, cancella ogni traccia del concetto di peccato come ‘offesa a Dio, compiuta in odio a Lui Dio’, concetto che è alla base del motivo per cui satana, in odio eterno a Dio, è all’Inferno insieme alle schiere degli angeli ribelli, e lì vi sprofondano tutti i peccatori in peccato mortale, irredimibili perché hanno peccato – e per sempre ostinatamente e sempre più protervamente peccheranno – contro lo Spirito Santo.

Per ipotesi di Scuola, solo una mente malata di modernismo acuto avrebbe potuto elaborare un’esegesi di I Cor 3,15 come questa, ma, essendo questa mente invece quella di un Papa, ci si deve ben chiedere: com’è possibile ciò, senza che non uno, e sottolineo non uno, di tutti i teologi, gli accademici, i monsignori, i vescovi, gli arcivescovi, i cardinali e i prefetti di santa romana Chiesa abbia sollevato la benché minima obiezione, una larva di dubbio, la più timida, ritrosa e sussurrata radice cubica di perplessità su tali parole?
Allora mi sbaglio: se il malato fosse stato un singolo, per quanto sommo, passi. Ma se è tutti i Pastori, tutta l’odierna Chiesa, allora no, allora vuol dire che l’Inferno è effettivamente
un’invenzione di san Tommaso. Anzi, senza il “san”: un’invenzione di Tommaso.
È così, vero?

5. I conclusione: sul microcosmo dell'uomo Ratzinger.

La teodicea della Spe salvi conferma che il suo autore non ha abbandonato la dottrina che cancella l'Inferno e che fa della Redenzione un “tana libera tutti”

Però, se fosse così, in questi anni qualcuno, dopo la pubblicazione de La Chiesa ribaltata, avrebbe dovuto alzare la mano a dirmi: “Ma l’argomento, amico, è proprio questo: che nessuno, oltre a te che non sei nessuno: nessun Pastore, nessun teologo, nessun professore, e poi vescovo, arcivescovo, cardinale, prefetto o Papa, ha mai trovato niente da obiettare su nessuna delle parole della Spe salvi”.
Ma, anche qui, l’obiezione, come si può capire, è vuota come una brocca rotta, perché, se è pur vero che oggi sembra che sia il sottoscritto a viaggiare contromano, ciò è solo perché cinquant’anni fa i Pastori più alti della Chiesa hanno invertito il senso di marcia, chiamiamolo così, della strada della dottrina, giacché, fino alla presa del potere del Modernismo sulla Chiesa, le immense e univoche fiumane dei santi Padri e Dottori della Chiesa mai avrebbero ammesso, neppure per ipotesi di Scuola, anche uno solo dei concetti visti, valga per tutti san Tommaso, che spesso e volentieri si appoggia a sua volta a illustri precedenti, e il cui cattolico rigore evapora tutti i Prof di Tubinga come neve al sole.

Questo atroce ma subdolo testo di Spe salvi, che spiega, a chi riesce a decifrarlo, come non sia assolutamente rilevante quanto l’uomo possa presentarsi impuro o malsano, perché tanto poi fa tutto il Cristo, anima per anima, con un gran bel falò, a ciascuno il più appropriato, post mortem, è un testo che conferma e sancisce, purtroppo, e autorevolmente, l’intuizione basilare avuta a suo tempo da don Giussani, intuizione che sarà perno di tutta la sua cosiddetta dottrina.
Nel mio La Chiesa ribaltata, §§ 27-31, a proposito di Spe salvi e dell’ultima Enciclica di Benedetto XVI, ancor più diretta sul tema del Giussani, la Lumen Fidei, chiamo tal cosiddetta
dottrina, che Antonio Livi avrebbe definito, meglio, “filosofia religiosa”, col nome di “teologia dell’Esperienza”, o “della Persona”, o “dell’Incontro”, o “dell’Evento”, una teologia contrapposta che di più non si può all’unica dottrina cattolica possibile, di cui peraltro parla anche la Lumen Fidei e ne riconosce pure le qualità intrinseche senza però saperla ricondurre alla sua divina unicità, che è quella di essere la “teologia della Parola”, o “dell’Annuncio”. Ma attenzione: ieri Papa Benedetto XVI e don Giussani, oggi, tra i molti, tra i tutti, Papa Francesco, hanno oltrepassato il limite sacro tra pensiero e azione, tra Logos e amore, come denunciò nell’84 Romano Amerio riferendosi al Vaticano II, le cui dottrine seguivano quella che il Luganese definì « la dislocazione della divina Monotriade » (Iota unum, pp. 295-6 Lindau).
Questo oltrepassamento non doveva avvenire.

La Teodicea della Spe salvi e la dottrina che ne segue in Lumen Fidei sono le due cause principali per cui a milioni i cristiani, sempre più numerosi, confluirono nel molto ereticale
Comunione e liberazione e più in generale si ateizzarono direttamente. Esse sono state di recente, se pur di transenna, confermate da Papa Bergoglio, che rassicura tutti che, così come ritiene che si possa dire a un tale: « Che tu sia gay non importa. Dio ti ha fatto così e ti ama così », così a tutti noi egli ritiene si possa dire, superando a sinistra persino Lutero, “fai pure ciò che ti pare meglio, tanto comunque tu mai offendi Dio, perché qualsiasi cosa tu faccia, Egli così ti ha fatto: ladro, bugiardo, omosessuale, lussurioso, pigro, goloso, pervertito, avido, omicida, bugiardo, iracondo: comunque tu sia, Egli sempre e ancora sempre ti ama. E in più, post mortem, Lui stesso brucerà te e la tua anima in un gran falò, ripulendoti da tutte le tue corbellerie e malefatte, e ti farà diventare finalmente te stesso”.
Questa prospettiva senza peccati, colpe, tentazioni, diavoli, Inferno, grazia, Purgatorio e Giudizio è stata aperta da Papa Benedetto XVI-Joseph Ratzinger con la Spe salvi, in cui, specie con l’esegesi che si è vista della I Cor, sono precisate una o due lacune del suo testo di riferimento, Introduzione al cristianesimo, che andavano effettivamente colmate.

Ma un conto è fare del magistero ‘privato’, come comunque resta ‘privato’ quello di un libro, per quanto di monsignore e professore universitario, già apprezzato e importante perito a un concilio ecumenico glamour come il Vaticano II (non a caso il libro andò subito a ruba in tutto il mondo), e altro conto è invece esercitare dalla Cattedra di Pietro il munus docendi pastorale ‘autentico e ordinario’ che si è visto inferiore solo a quello altissimo del dogma.
In più, si tenga conto che un Papa, nelle sue scelte, a qualsiasi ordine appartengano, è sempre circondato e coadiuvato da innumerevoli monsignori, suoi segretari, a loro volta collegati con i più disparati servizi di Curia, Accademie e Università Pontificie, così da poter assicurare al Sommo Pontefice quell’assistenza diuturna necessaria al suo ruolo.
E allora, quando da tanto ufficio esce un documento così gravemente avvelenato ab imis in punti fondamentali della dottrina cattolica come Spe salvi, quanti sono stati tra i suoi responsabili quelli che si sono resi conto della plateale, evidente e irriducibile opposizione deflagrata in quelle pagine tra verità e falsità, giusto e ingiusto, corretto e scorretto, cattolico
ed eretico, Cristo e Belial? Possibile che non ci sia stato nessuno non assoggettato alla personalità del Papa Regnante, e che tenesse ben visibile ai suoi occhi il principio paolino per il quale, come vedremo, la Parola divina è sempre e in ogni caso da più di qualsiasi parlante umano che la proferisce, fosse pure il proprio più alto Superiore (in terra)?

6. II: sul macrocosmo della Chiesa.

Se nessun Pastore della Chiesa si alza a sbugiardare la falsissima teodicea della Spe salvi, ciò significa che la Chiesa sta tradendo sé stessa, suicidandosi.

La Chiesa non si è mai trovata a un punto così vicino alla morte come in questi ultimi drammatici decenni seguiti al Vaticano II: senza ossigeno com’è, la Chiesa sta boccheggiando,
e non perché qualcuno le ha tolto le bombole, ma perché se le è tolte da sola, ossia si è tolta da sola il dogma, il magistero del dogma e la liturgia del dogma (quella del Rito cosiddetto “antico”, in realtà l’unico perenne e santo).
E tutto ciò la Chiesa (si intende sempre: i Pastori della Chiesa) ha fatto alla presenza piena di tutte e tre le condizioni che determinano la gravità della colpa commessa, in questo caso colpa di omissione, nelle persone dei Papi e dei loro consiglieri (i cardinali e i prefetti di Curia che si sono susseguiti negli anni) che l’hanno condotta a partire dall’origine della devianza, il concilio ecumenico Vaticano II appunto. E le tre condizioni sono i già visti “piena avvertenza”
e “deliberato consenso” a riguardo dei soggetti degli atti omessi, e la “materia grave” a riguardo dell’oggetto, appunto il nascondimento o aggiramento del dogma.

Se con ciò sembra che si accusi di colpe particolarmente gravi uomini che poi la Chiesa ha dichiarato santi, e dunque sembra che si cada in una contraddizione in cui l’autorità della Chiesa annienterebbe ogni minima possibilità di veridicità dell’accusa, si ricordi piuttosto che:
1), il magistero della canonizzazione è, come già visto, magistero fallibile, e non affatto infallibile, sicché, se la Chiesa dovesse far cadere un santo dai propri altari, certo lo scandalo sarebbe enorme, ma la cosa, dal punto di vista strettamente canonico, non sarebbe impossibile;
2), all’opposto – particolare importante –, il magistero infallibile e irriformabile della Chiesa, ossia il dogma, nelle Sacre Scritture, stabilisce: « Se anche noi stessi, o un Angelo del Cielo, venisse ad annunciarvi un Vangelo diverso daquello che vi abbiamo annunciato noi, sia egli anàtema » (Gal 1,8), e dunque per la Chiesa vale quel principio che si diceva, per il quale la Parola divina è sempre e in ogni caso da più di qualsiasi parlante umano che la proferisce, fosse anche un Papa, e persino un Papa canonizzato.

In altre parole, questo principio affisso da san Paolo – precisazione per gli storicisti, fossero pure il già Papa Joseph Ratzinger: affisso da Dio attraverso san Paolo –, è tanto superiore a qualsiasi altro, che se anche l’intera Chiesa insegnasse il contrario, come in effetti avvenne, p. es., con l’Arianesimo, l’intera Chiesa dovrebbe correggersi, fare ammenda, come anche allora in effetti avvenne, se pur con grandi lotte, difficoltà, incomprensioni, ma comunque avvenne,
ben condotta dal Sommo Pastore, Papa Liberio (che infatti, dopo esser tornato alla dottrina più cattolica, fu riconosciuto dalla Chiesa santo come meritava), e così tornare, prona e obbediente, al dogma originale tradito.

Il grave delitto di omissione della conferma del dogma, a mio avviso su questo frangente è stata perpetrata dai responsabili anche più alti della Chiesa in almeno cinque circostanze:

la prima, allorché nel 1968 il prof. mons. Joseph Ratzinger pubblicò il suo libro princeps, Introduzione al cristianesimo, in Germania e poi in tutto il mondo, e nessun Pastore sollevò le più dovute obiezioni e censure alla prima esposizione che si incontrava nella storia di ciò che ho chiamato Ratzingerismo, il mostruoso, inaspettato e del tutto inaccettabile ircocervo teologico denunciato nel 2017 da chi scrive con Al cuore di Ratzinger. Al cuore del mondo. Oltre al sottoscritto, che sfortunatamente se lo trovò di fronte solo dopo essersi imbattuto nelle due Encicliche viste, e dunque solo per aver voluto andare alle origini delle svianti e fuorvianti dottrine lì esposte, ossia cinquant’anni fa, nella Chiesa nessun Pastore si eresse a confutare l’orrore, così da porlo al più presto all’Indice dei libri proibiti, come ben avrebbe meritato, se solo quel santo organismo fosse stato ancora in vigore, ma purtroppo esso era stato già da due anni soppresso perché i censori, a partire da Papa Paolo VI appunto, erano già da tempo avvelenati dal Modernismo come i censurabili.

La seconda circostanza in cui i Pastori anche più alti della Chiesa hanno commesso il delitto di omissione della difesa del dogma, si è verificata allorché lo stesso Autore, divenuto nel frattempo cardinale, ripubblicava il medesimo libro con l’esposizione del suo anticattolico ircocervo apponendogli un nuovo Saggio introduttivo alla nuova edizione del 2000, confermando tutto quanto ivi aveva trent’anni prima tanto erroneamente asserito. Anche in questa occasione nessun Pastore della Chiesa ritenne suo cattolico dovere sollevare la minima obiezione alla scellerata dottrina esposta per la millesima volta in tutti i seminari, istituti religiosi, università e accademie cattoliche e conventi di tutto il mondo.

La terza e quarta circostanza, e di gran lunga le più gravi, avvennero allorché, finalmente come Sommo Pastore, l’antico Teologo di Tubinga pubblicava le due sciagurate Lettere
encicliche ora viste: nel 2007 la Spe salvi e nel 2013 la Lumen Fidei, nelle quali sono ben riconoscibili, magari con l’ausilio dei miei La Chiesa ribaltata e Street Theology, due dei punti nodali più significativi di questa sua dottrina, da lui mai veramente abbandonata, pur se in qualche occasione può esserlo parso (v. Al cuore di Ratzinger, pp. 173-4), che chiamo della “Redenzione debole”, o “Redenziuncola” (i due punti sono: quello della Teodicea in Spe salvi e quello della sostituzione della fede con l’amore in Lumen Fidei), esposta per la prima volta dal suo Autore in Introduzione.

Infine una quinta volta, almeno: a mia conoscenza, allorché l’esimio Soggetto, ricusato il Trono di Pietro, dava ancora nel 2016, dunque dopo aver attraversato per esteso praticamente tutto l’arco della sua vita, un’importante intervista a padre Jacques Servais s.j., pubblicata anche su L’Osservatore Romano, in cui ancora una volta confermava apertamente il suo dissenso dall’insegnamento cattolico, peraltro manifestato cinquant’anni prima proprio a partire da quel suo famigerato ma mai censurato Introduzione al cristianesimo, attribuendo ancora una volta unicamente a un vescovo (peraltro santo) ben riconosciuto ufficialmente come Dottore della Chiesa, la dorsale della dottrina della Redenzione da lui così bellamente rigettata, ossia rigettata senza alcun argomento scientifico, dogmatico, scritturale, magisteriale, e derubricando a fatto linguistico ciò che invece è proprio un dissenso logico-dottrinale: «Quando Anselmo – sostiene – dice che il Cristo doveva morire in croce per riparare l’offesa infinita che era stata fatta a Dio e così restaurare l’ordine infranto, egli usa un linguaggio difficilmente accettabile dall’uomo moderno ».

In almeno una di queste cinque occasioni: la prima nel 1968, la seconda nel 2000, la terza nel 2007, la quarta nel 2013, la quinta nel 2016, i più alti responsabili della conduzione della Chiesa e della salvaguardia del dogma cattolico avrebbero dovuto censurare le dottrine svianti e fuorvianti insegnate da Joseph Ratzinger, in specie sulla Redenzione, ma non solo, e la mancanza di questa censura costituisce a mio avviso un grave delitto di omissione sia per il ravvedimento in primo luogo del loro Autore che per la difesa del dogma, e, a discendere, della fede di tutta la Chiesa.

Ma quel che più qui si vuole rilevare è che, mentre si è fatto e ancor si sta facendo da mesi in tutto il mondo un gran clamore intorno a quelle che peraltro son senz’altro importanti ma non fondative problematiche riscontrate in un significativo ma non affatto decisivo documento papale pubblicato da Papa Francesco, posto che matrimonio e sacramenti sono ambiti morali, dunque dipendenti e non causanti la fede, e posto poi che l’Esortazione Apostolica Amoris
Lætitia è comunque soltanto magistero ‘privato’, dunque che non possiede neppure la prerogativa di essere magistero ‘vero e sicuro’, ecco: posto tutto ciò, nessun Pastore ha mai
sollevato alcuna eccezione sulle due Lettere encicliche Spe salvi e Lumen Fidei, e ciò non ha fatto neppure dopo la pubblicazione di quei miei pur miserabili ma pubblici libri che le discutono denunciandone la pericolosità, libri fatti avere peraltro anche a decine di vescovi e cardinali tra i più ortodossi, eppure quelle Encicliche costituiscono a pieno diritto magistero ‘ordinario e autentico’, e come tali va loro riconosciuto che il loro insegnamento è ‘vero e sicuro’, tale che possono a buon diritto pretendere da tutti i fedeli, a qualsiasi grado di responsabilità nella Chiesa essi appartengano, quel ‘religioso ossequio’ ricevuto anche da Encicliche ben più importanti e decisive, v. l’Æterni Patris di Leone XIII o la Mystici Corporis di Pio XII.

Ed è proprio questo che qui si vuole con forza ancora una volta denunciare: ancora una volta, perché è dai tempi della mia Postfazione (pp. 698-9 Lindau) allo Iota unum di Romano Amerio, pubblicata nel 2009, e poi in ogni mio lavoro successivo, che segnalo con ogni mezzo proprio ciò che solo Amerio permise di riconoscere: il temerario e sciagurato escamotage elaborato dai Pastori modernisti per aprirsi il varco al potere suggerito da Ernesto Buonaiuti («Non contro Roma né senza Roma, ma con Roma e in Roma »), e non chiediamoci come mai delle migliaia di teologi, accademici, tomisti, monsignori, vescovi e cardinali che lessero il libro (ne furono stampate 7.000 copie, oltre alle sette traduzioni nelle principali lingue dell’Occidente), nessuno rilevò la cosa e le furbissime conseguenze che permetteva.
Nessuno rilevò la cosa e le conseguenze che permetteva, perché tutti l’una e le altre conoscevano, ma nessuno doveva pubblicamente rilevarle: esse sono il mezzo sordido, nascosto, machiavellico, astutissimo, attraverso cui i Pastori perversi saliti al Trono di Pietro dopo il rigoroso Pio XII hanno trovato il modo di inondare la Chiesa del « fumo di satana »,
cioè del Modernismo, senza che nessuno se ne accorgesse.

Infatti, la legge che il Luganese, in Iota unum, pp. 27-8 Lindau, aveva definito « conservazione storica della la legge dellaChiesa », permetteva di distinguere con sicurezza e precisione che « La Chiesa non va perduta nel caso non pareggiasse la verità, ma nel caso perdesse la verità [marcature dell’Autore] ».
Attraverso la biforcazione individuata da Amerio nella distinzione tra “non pareggiare” e “perdere”, in realtà i Pastori più accorti della Chiesa, e mi riferisco in specie al cardinale Tisserant e a Papa Giovanni XXIII, il primo per averglielo suggerito, il secondo per averlo attuato, realizzarono il « colpo da maestro di satana », imprimendo al Vaticano II la forma
magisteriale di secondo grado invece che di primo, ossia‘pastorale’ invece che ‘dogmatica’, come avrebbe dovuto invece essere per la presenza di un Papa e dunque per poter dar modo a un Papa di potersi esprimere, se ne avesse trovato necessità, al massimo di pienezza o entelechia di pronunciamento, come infatti era avvenuto in tutti e venti i Concili ecumenici precedenti, ex lege, anche se poi in due di essi il dogma non era stato espresso, perché non se ne era presentata la necessità.
In tal modo però, ossia con tale escamotage, il Papa poteva usufruire di una libertà d’espressione che il pronunciamento dogmatico mai gli avrebbe permesso. Sicché Amerio poteva riscontrare nelle formule utilizzate dal Concilio quella « equivocità » che lo caratterizzarono e che ne denunciarono inequivocabilmente il carattere modernista e autodistruttivo.

Ed è così che oltre al delitto di omissione, tutti i Papi che si sono susseguiti sul Trono di Pietro dopo Pio XII hanno compiuto in piena coscienza un secondo peccato, correlato a quello, che è di aver utilizzato appositamente, e non affatto casualmente, ma con un disegno machiavellico, il grado di insegnamento appena inferiore al dogmatico, quello di ‘magistero pastorale’, o ‘ordinario e autentico’, e di averlo utilizzato proprio per le sue due precise caratteristiche:
1), di non essere dogmatico, ossia di non essere punto infallibile e irriformabile, e con ciò di avere la prerogativa di non chiamare in causa Dio, la qual cosa rassicura i suoi utilizzatori sulla propria vita, ben sapendo che non si chiama impunemente Dio a controfirmare una propria asserzione se quell’asserzione non è più che vera (nel pronunciamento dogmatico Dio è chiamato direttamente in causa con l’uso del plurale maiestatico papale, il “Noi” dei due Soggetti: il Soggetto papale e il Soggetto divino);

2), però di essere ancora esigente, di fronte a tutta la Chiesa e a ogni singolo fedele, di una obbedienza forte, qual è in ogni caso quella del ‘religioso ossequio’ di fronte ad affermazioni e insegnamenti che comunemente vengono ritenuti nella Chiesa ‘verità connesse’, ovvero verità direttamente discendenti dal dogma, come in effetti sono sempre state le verità insegnate prima che il Modernismo fosse riuscito a intronizzarsi dove mai avrebbe potuto con mezzi leciti.

La sintesi di queste due caratteristiche permette di affermare infatti ciò che tutti quei Papi seguiti a Pio XII, che per il loro Modernismo camuffato avrebbero dovuto essere radiati dalla Chiesa, altro che canonizzati, ben sapevano: e la sintesi è che mai essi sarebbero potuti cadere in contraddizione col dogma dell’infallibilità pontificia proclamato da Pio IX, perché ciò sarebbe potuto avvenire solo e unicamente se si fossero esposti al massimo dell’entelechia a loro e solo a loro possibile, che è quella del livello dogmatico, o ex cathedra, dove risiede il Munus Clavium, cui essi però per l’appunto si son sempre guardati bene d’accedere, per l’inghippo così astutamente trovato, quei vigliacchi.

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7. III conclusione: dal sovracosmo di Dio.

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La vittoria del dogma è nella parola. Dunque parleremo:
non vince il modernismo. Vince il Logos, Vince il Cristo.

Vincerà la vita, nella Chiesa, non l'autodistruzione.

Ecco dunque: si chiude con una domanda. E la domanda è: come mai, in particolare, di fronte a un documento papale della gravità di Spe salvi, che qui si è visto annientare realtà decisive e fondamentali quali il concetto di peccato come ‘offesa a Dio’, l’Inferno, il Purgatorio, la grazia eccetera, e nessun responsabile della Congregazione per la Dottrina della fede, nessun organo di stampa cattolico – L’Osservatore Romano, Civiltà Cattolica, L’Avvenire… –, posto di non aver trovato gli estremi per confutare, correggere e censurare l’esimio Autore di tali e tanto gravi dottrine, e il metodo stesso con cui sono state proposte e illustrate, storicistico, antimetafisico e anticattolico al massimo, ecco: come mai, dicevo, non hanno però nemmeno preso in considerazione, allora, di confutare, correggere e censurare cattolicamente gli argomenti portati dal sottoscritto nei suoi libri contro quelle tesi aberranti, specie in La Chiesa ribaltata, in Street Theology e ora in Al cuore di Ratzinger. Al cuore del mondo?
È così che si difende, nell’ordine, Dio, la Rivelazione, la Chiesa, e un suo già sommo e tanto benemerito Pastore?
Non sbugiardiamo niente e nessuno – rispondono –, così nessuno si accorgerà che c’è qualcosa e qualcuno da sbugiardare, e tutto va avanti nella pace e nella serena ignavia di tutti.
Ed è qui che si decidono le sorti della Chiesa: o il silenzio o la parola. Ma chi crede di vincere la Parola, il Logos, col suo silenzio, io dico che la sottovaluta, v. I Ts 5,2: « Il giorno del Signore verrà come un ladro nella notte ». Ed è li che li frega.

* * *




Al cuore di Ratzinger. Al cuore del mondo, pro manuscripto, Aurea Domus, Milano 2017, pp. 370, è disponibile nelle librerie Àncora (Milano e Roma), Coletti (Roma), Hoepli (Milano),
Leoniana (Roma), oppure può essere richiesto attraverso Aurea Domus (http://enricomariaradaelli.it/emr/aureadomus/aureadomus.html).



giugno 2018
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