RELIGIONE RIVELATA
O
“RELIGIONE DIALOGATA”?


di Cruce signatus


Articolo pubblicato su SISI NONO, anno XLIV, n° 16, 30 settembre 2018

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Il piano demolitore lucidamente architettato dal neomodernismo fin dai primordi del concilio Vaticano II è giunto a completa maturazione: il suo decisivo insediamento ai vertici della Cattolicità ne ha rafforzato il devastante influsso, concorrendo a squalificare come intollerabile disobbedienza alla Gerarchia e ai suoi decreti la doverosa negazione di una “pastorale” fondata su falsi princìpi teologici, implicanti l’innaturale riduzione delle verità del Depositum Fidei alle svariate inclinazioni psicologiche di fedeli vieppiù disorientati dalla disinvolta prassi innovatrice invalsa nella sedicente “chiesa conciliare”.

Non crediamo inopportuno insistere sulla necessità di sviscerare le insidie implicite nei reiterati richiami neomodernistici alla rassicurante predisposizione conciliatrice del dialogo, che contribuisce a radicare gli interlocutori nella persuasione ingiustificata dell’impossibilità di dedurre valutazioni e credenze da fonti superiori al preteso e indiscusso valore fondativo della coscienza individuale.

L’arma psicologica adibita con altezzosa spregiudicatezza dai fautori del falso presupposto della relatività di ogni affermazione e del conseguente divieto di violarne l’asserita rispettabilità è data dalla avvilente ripetizione del sofisma agnostico che reputa l’aspirazione alla conoscenza e al possesso della verità come il residuo di un dogmatismo contrario alla ragione; a tale riguardo, non si può non rilevare il curioso paradosso per cui il pensiero laico da un lato rivendica la presuntuosa autosufficienza della ragione, dall’altro si premura di affrancarla dal dovere di riconoscere la legge naturale e la Verità rivelatasi nel Cristo e nella Sua Chiesa.

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Nel “dialogo” celebrato dagli assertori dell’aggiornamento conciliare la verità religiosa patisce le distorsioni derivanti dalla forzata relativizzazione cui la razionalità moderna sottopone ogni proposizione di tipo dogmatico; se la philosofia perennis ravvisava nel dialogo un possibile approccio al perseguimento di una conoscenza più alta e più libera da preoccupazioni soggettivistiche, la cultura negatrice della nozione stessa di verità ha ambito a creare in sua vece un comodo succedaneo opportunamente predisposto per affermare la tanto strombazzata tolleranza che si attua come la più ampia apertura all’errore e il più rigoroso ostracismo alla Verità.

Il confronto, concepito in base ai termini appena descritti, determina la regressione della ragione a basso strumento capace di convalidare le torbide pulsioni che alimentano l’opinione pubblica, persuasa di rimpiazzare la colpevole diserzione della Fede con le piccole e grandi menzogne, sancite dal plauso democratico della maggioranza.

Queste considerazioni consentono d’intendere la direzione fondamentale del pontificato bergogliano che, a dispetto dei giudici tendenti a situarlo nella prosaica cornice dei toni dimessi e improvvisati di numerosi interventi papali, si rivela caratterizzato da una decisa e precisa volontà di superare le barriere e le incomprensioni tra le religioni, facilitando così la costituzione di quella “super Chiesa”, fortemente voluta dai secolari nemici del cattolicesimo.

In una conversazione risalente al giugno scorso, il Papa, commentando il passo biblico relativo al comando dato da Dio ai progenitori di astenersi dal mangiare il frutto dell’albero della conoscenza nel Paradiso terrestre, ha affermato che la Parola divina non possiede alcuna connotazione autoritativa, che la salverebbe dal rischio di cadere nella trappola di una prospettiva gradita a chi persevera disonestamente e contraddittoriamente nell’additare il relativismo come la sola verità incontrovertibile.

Risulta chiaro che, cedendo ai condizionamenti della perdurante mentalità illuministica, le istanze vincolanti e inderogabili della Fede e del Decalogo svaniscono nelle interpretazioni relativizzanti di un rinnovato quanto infruttuoso esercizio ermeneutico.

La preordinata e umiliante soggiacenza del Dogma e della morale ai dettami del sapere profano costringe a parlare di un adempimento degli auspici preludenti alla convocazione e agli sviluppi del concilio Vaticano II.

Durante una allocuzione tenuta al termine di quella storica assise e diretta a prospettare una globale ricognizione del suo svolgimento e dei suoi risultati, papa Paolo VI delineava il raccapricciante realizzarsi dell’auspicata convergenza tra la religione del Dio che si è fatto uomo e la contro-religione dell’uomo che si fa Dio; all’accennato e funesto accordo sono riconducibili le sconsiderate “aperture” e le desolanti capitolazioni che hanno preparato la situazione catastrofica in atto nella Chiesa.

Del pari lontano dalla raggelante avidità di malumori pessimistici e dalle puerili avventate euforie, il realismo cristiano ci esorta a vivere le presenti e dolorose vicende nella certezza che – come ammonivano financo i grandi pensatori anteriori alla Rivelazione Divina – la verità, in quanto eterna ed assoluta non può adeguarsi al variare dei tempi.




settembre 2018
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