Beato Paolo VI !

di Don Philippe Toulza, FSSPX

18 ottobre 2014


Pubblicato sul sito della Fraternità in Francia: La Porte Latine


Il 19 ottobre rimarrà nella storia come il giorno in cui Giovanni Battista Montini venne beatificato da Papa Francesco.
All’annuncio della beatificazione di colui che governò la Chiesa nella tormenta degli anni sessanta e settanta, certe persone sono rimaste sorprese, forse commosse, ma i pratica molte sono rimaste in silenzio. Che si può dire infatti contro una beatificazione? Non si tratta del compimento di un processo in forma canonica, nel corso del quale sono state esaminate le virtù del «servitore di Dio» e sono state trovate eroiche?

Ma ci sono processi le cui sentenze sono ingiuste. Nessuna beatificazione può smentire la realtà e la memoria degli “anni di Paolo VI” non scomparirà presto.
Per giustificare il rifiuto di questa beatificazione, ricordiamo dunque i fatti ostinati che formano il tessuto della vita di Giovanni Battista Montini.

Innanzi tutto, fissiamo un principio: né qui né altrove si tratta di giudicare l’anima del Papa; ci si accontenterà di ricordare alcuni esempi, tra mille, idonei a sostenere il seguente apprezzamento: le azioni di Paolo VI non sono quelle di un papa da proporre come modello di vita cristiana.
Non neghiamo inoltre che questo Papa abbia mostrato certe qualità molto al di sopra della media; senza di che come comprendere il fatto che sia giunto al sommo Pontificato?
Per spiegarlo è il caso di sottolineare che le idee di Giovanni Battista Montini erano in aria già da tempo. La sua adesione alle idee progressiste non fu qualcosa che interessò solo lui: all’epoca egli non era il solo ad essere impregnato di quell’atmosfera. Il cardinale Lercaro, arcivescovo di Bologna, per esempio, ne era parimenti posseduto.

Le biografie di Paolo VI, sia quelle favorevoli (Huber, Guitton, Macchi…), sia quelle critiche (Yves Chiron), non hanno mancato di rilevare le qualità di Giovanni Battista Montini.
Lavoratore, organizzatore, intelligente, oratore di talento, egli entusiasmò gli studenti italiani quand’era il loro cappellano a Roma. Piuttosto defilato e affidabile, rispettoso e fedele all’amicizia, egli compì dei gesti di segnalata generosità, in diverse occasioni. Se non si può essere certi del grado della sua pietà, di certo egli desiderò tanto una vita consacrata da sognare di entrare in monastero e, ordinato sacerdote, si ritirava spesso per dei brevi soggiorni presso i Benedettini.

Noi non contesteremo neanche che Paolo VI abbia affermato più volte di voler essere al servizio della verità e della fede cattolica: egli voleva che si sapesse che era consapevole del suo dovere di difendere l’una e l’altra. In un’epoca di eresia, egli faceva eccezione e riteneva per certa la soddisfazione per sostituzione realizzata nel mistero della Passione.
Egli giunse a vantare i meriti del tomismo, senza tuttavia essere stato impregnato degli insegnamenti del Dottore Angelico. Basta ricordare la sua professione di fede del 1968 e l’enciclica Humanae vitae, da ascrivere entrambe in suo onore.
Tuttavia, è nel dominio della fede, e più in generale nella dottrina, che egli dimostrò di venir meno. Le tendenze novatrici in teologia, portate avanti da personaggi come Rahner, Schillebeeckx o Chenu, non datano dal Concilio, e l’interesse di Giovanni Battista Montini per queste deprecabili novità è anch’esso anteriore al Vaticano II. Anche quando fu al servizio di Pio XII, nella Curia romana, egli fu il principale sostenitore dei teologi “in difficoltà” col Vaticano e col Sant’Uffizio. Egli considerava “valida” la filosofia di Blondel, e difese più volte Congar, de Lubac, Guitton, Mazzolari, dalle severità e dalle minacce di sanzioni. Quando i libri di Karl Adam stavano per essere messi “all’indice”, Mons. Montini, uno degli uomini di fiducia del Papa, li nascose nel suo alloggio e in seguito li diffuse di nascosto.
Ci troviamo al cospetto di una virtù eroica?

Fu quando Giovanni Battista Montini era arcivescovo di Milano che Giovanni XXIII convocò il Vaticano II. Tra la prima e la seconda sessione, il Sommo pontefice cedette alla malattia; ed allora venne eletto Montini, che prese il nome di Paolo VI. Egli aveva risposto grandi speranze in questo Concilio e ne confermò la direzione. Fu lui che con la sua autorità appoggiò indiscutibilmente nel Vaticano II la presa di potere dell’ala liberale dei cardinali Döpfner, Lercaro, Koenig, Liénart, Suenens, Alfrink, Frings e Léger, a scapito della linea tradizionale rappresentata dai cardinali Ottaviani, Siri, Agagianian e da Mons. Carli, che non avevano dimenticato l’eredità multisecolare di cui Pio XII si era dimostrato essere il vero depositario.
Sessione dopo sessione, dichiarazione dopo dichiarazione, Paolo VI, usando una certa moderazione, appoggiò la “rivoluzione in tiara e cappa” che si svolgeva sotto gli occhi atterriti dei vescovi rimasti con gli occhi aperti.
Resterà nella storia la sua firma di documenti disastrosi come Lumen Gentium, Gaudium et Spes, Nostra Ætate, Unitatis Redintegratio; e soprattutto Paolo VI  aveva fatto suo già prima del Concilio il principio della libertà religiosa, affermato nella dichiarazione Dignitatis humanae, che proclama senza ambiguità quello che i suoi predecessori avevano stigmatizzato come contrario alla dottrina cattolica.
Com’è possibile concepire che la proclamazione del diritto civile ai culti erronei e le pressioni fatte in seguito nei confronti dei governanti cattolici del mondo intero perché adottassero la laicità, possano derivare dalla virtù e dalla santità di vita?
Si pensi alle tante anime che, trasportate dalla corrente della nuova laicità e dall’apostasia delle leggi, hanno perduto la religione dei loro padri.
Di questo, nessuno porta una qualche parte di responsabilità?

Se Paolo VI amava tanto questo Concilio è perché l’andamento generale dell’assemblea episcopale corrispondeva alla sue intime aspirazioni. Il Concilio fu uno slancio degli uomini di Chiesa verso il mondo. Ora, Paolo VI amava il mondo, anche questo moderno, e desiderava immergersi in esso e sentire con esso. Interessato a tutte le realtà umane, egli correggeva un temperamento pessimista con l’ottimismo delle decisioni, coltivando una visione benevola dello stesso pensiero moderno e dei paesi e delle culture lontane; egli apprezzava l’arte contemporanea al punto da arredare in questa ottica i suoi appartamenti in Vaticano!

Quello che egli amava nel mondo era l’uomo. L’umanità fu al centro della sua riflessione, nonostante arrivasse a denunciare l’antropocentrismo. Per motivi di compassione, era interessato soprattutto all’uomo povero, all’operaio, all’uomo allontanatosi dalla fede, all’uomo delle periferie.
«Noi, noi più di chiunque» - diceva - «abbiamo il culto dell’uomo!» Per avvicinarsi all’uomo – pensava – bisogna fare penitenza dei tanti comportamenti del passato della Chiesa, atti ad allontanare le anime, come le condanne (da cui la soppressione dell’“indice”), o le affermazioni dogmatiche troppo esclusive. Egli preferiva la suggestione al governo, l’esortazione alla sanzione. Il suo fu un regno di dialogo.
Accostarsi all’uomo comportava innanzi tutto accostarsi ai Protestanti. Paolo VI fu l’iniziatore pontificio dell’ecumenismo. Benché teoricamente concepisse quest’ultimo come un ritorno al cattolicesimo, in maniera contraddittoria esaltava i valori protestanti e moltiplicava le relazioni con Taizé.  Lo scandalo raggiunse il colmo quando invitò l’“arcivescovo” anglicano di Canterbury a benedire la folla al posto suo nel corso di un’assemblea ecumenica a San Paolo fuori le Mura, passandogli al dito il suo anello pastorale.
Ci viene forse chiesto di credere che i santi si comportino così?
Quale vero beato non sussulterebbe dal profondo della sua visione beatifica alla vista di tanta confusione?
Tuttavia, secondo Paolo VI, bisognava trasformare i nostri atteggiamenti cattolici.
«La Chiesa è entrata nel movimento della storia che evolve e cambia» spiegava. Ed infatti era questo il programma: evoluzione, cambiamento, aggiornamento.
D’altronde, fu per questo che procedette ad una riforma liturgica che col tempo si estese a tutti i domini della preghiera. La Messa, secondo i testi base di questa riforma, non è più sacrificio, ma “sinassi”. Tale rito, denunciarono i cardinali Ottaviani e Bacci, si allontana «tanto nell’insieme come nel dettaglio dalla teologia cattolica della Santa Messa».
Ma Paolo VI non fece alcunché.
Le liturgie con le chitarre elettriche, le comunioni sulla mano, le ragazze in pantaloncini corti a leggere l’epistola, le parole della consacrazione lasciate all’umore del celebrante, tutto ciò si diffuse con l’avallo dei vescovi. Certo, sarebbe ingiusto addossare la responsabilità di ogni disordine locale a colui che regge la Chiesa universale. Peraltro, il Papa deplorava talvolta il gran pasticcio liturgico del nuovo Ordo Missae. Ma che fece di efficace per impedirlo? Non fu proprio lui la prima causa? Non venne proposto Paolo VI come archetipo di perfezione?
Ora, la virtù non sta nel dovere? E il dovere del capo, non è di incoraggiare coloro che fanno il bene e di sanzionare coloro che violano la legge?
Mons. Lefebvre venne sanzionato senza essere ascoltato, castigato prima di essere ricevuto, e Paolo VI affermava che era tipo da ospedale psichiatrico. Ma i preti che celebravano la Messa col riso o che manifestavano insieme al partito comunista, godevano tranquillamente del loro confortevole presbiterio.
E tuttavia, Paolo VI non amava il comunismo, egli mise sempre in guardia dalla perniciosità del marxismo. Per quale paradosso, allora, sostenne una politica benevola verso i paesi comunisti (Ostpolitick), i cui frutti furono così amari per i cattolici dei paesi interessati, presi dal sentimento di essere stati abbandonati da Roma?
Nello stesso ordine di idee, Paolo VI riteneva che si potesse essere cattolici e insieme impegnarsi al servizio degli ideali socialisti, contrariamente agli insegnamenti di Leone XIII. Fu anche molto ostile al fascismo, le sue preferenze andavano alla Democrazia Cristiana.

Tutte queste prese di posizione fecero nascere in seno alla Curia romana un’opposizione a Montini. Pio XII conosceva le sue preferenze, ma diffidava del suo gusto per la modernità.
Durante il Concilio, Paolo VI conobbe l’opposizione di certi vescovi che paventavano la crisi a cui la Chiesa andava incontro. Essi non sbagliavano: la crisi fu terribile e dura ancora. Paolo VI ha saputo riconoscerla: «l’apertura al mondo è stata una vera invasione della Chiesa da parte dello spirito del mondo». Questo lo spinse allo scoraggiamento, con una tristezza che segnò gli ultimi anni del suo pontificato: «Forse siamo stati troppo deboli e imprudenti», confessò un giorno.
Se questa confessione fosse stata fatta pubblicamente, Paolo VI avrebbe dissuaso il suo successore dal proclamarlo beato.

In questo, noi seguiamo il suo esempio: non ci tenti alcuna animosità contro la sua persona; ci muova solo la coscienza dell’oggettività e della permanenza della virtù cristiana. Noi non abbiamo alcunché contro di lui, siamo mossi dalla giusta concezione di ciò che è veramente un beato.
Se Paolo VI è beato, allora è virtuoso che un papa contraddica i suoi predecessori sui fondamenti della dottrina, ed è lodevole l’aver abbandonato il cardinale Mindszenty alla triste sorte della persecuzione, e non è reprensibile coprire col manto del silenzio gli spaventosi abusi nella liturgia del sacrificio.
Se Paolo VI è beato, allora l’ingiustizia è una virtù, l’imprudenza una via di santità, la rivoluzione il frutto del Vangelo.

di Don Philippe Toulza
Direttore delle Editions Clovis della FSSPX – 18 ottobre 2014




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