La nuova soluzione finale

di Patrizia Fermani

Pubblicato sul sito Riscossa Cristiana


La nostra c.d. democrazia si vende anche come antidoto contro quella follia totalitaria che arrivò ad eliminare tante vite umane perché considerate indegne.

Eppure non dissimili nella sostanza sono le idee eutanasiche propagandate oggi in nome della libertà, dei diritti e dell’amore universale che vedono in prima fila i radicali nostrani, votati al giusto per disposizione naturale, lungimiranti per dotazione intellettuale e dediti in ogni tempo alle cause più elevate.

Anarchici per vocazione, portarono in Parlamento una pornografa professionista in spregio alle istituzioni, pur continuando a tenere un occhio puntato sulla Presidenza della Repubblica. Non per nulla, passati, dopo tanto combattere per l’aborto e la pederastia, dalle pompe di bicicletta alle pompe funebri, nella lotta per arrivare alla morte di Stato hanno trovato autorevoli referenti nelle magistrature superiori.

Ecco da ultimo che la Corte Costituzionale, preannunciando alla stampa il rinvio del giudizio di costituzionalità per il reato di aiuto al suicidio, sollecita il Parlamento a legiferare nel frattempo sulla materia. Il che suona più o meno: «se non lo depenalizzate voi, lo faremo noi. Dunque fatelo e alla svelta».




Pizzino o raccomandazione fraterna che sia, ora il legislatore è avvertito: aiutare qualcuno a suicidarsi è cosa buona e giusta, che s’ha da fare, cioè è da legalizzare perché il monopolio del settore non sia lasciato alla imprenditoria elvetica, e la stessa Corte non si debba arrampicare sugli specchi per evitare la galera a quel brav’uomo di Cappato, che ha accompagnato a farsi uccidere dagli svizzeri chi avrebbe potuto suicidarsi tranquillamente e gratuitamente a casa propria. Ma c’erano esigenze di copione che prevedono una dose di pornografia per ogni forma di spettacolo.

Resta il fatto che, abituati come siamo ormai alla disinvolta sovversione dei compiti istituzionali, questo modo di procedere della Corte non desta per nulla scandalo, anzi viene tranquillamente accettato come una qualunque prassi del tutto innocua. Non per nulla essa è presieduta da chi tenne a informarci che i trattati europei risultavano a buon diritto inintelligibili perché questo avrebbe impedito ai sudditi di metterli in discussione. C’è un giudice a Roma e il pudore non lo turba inutilmente.

Ora, l’importanza per tutti i piazzisti della buona morte di questo nuovo traguardo da raggiungere è evidente, e il terreno è già preparato a dovere.

Con le Disposizioni anticipate di trattamento [Dat], la legge ha legittimato una sorta di suicidio per interposta persona prevedendo l’intervento di un terzo, sia pure autorizzato, sulla vita altrui, in nome della autodeterminazione e della dignità che nobilitano la rinuncia alle cure e quindi alla vita diventata indegna di essere vissuta.

Poi ha preso in considerazione chi, essendo naturalmente incapace, non ha potuto né può esprimere tuttora alcuna volontà sul proprio destino. Così, messa da parte per ovvi motivi la retorica dell’autodeterminazione, la decisione sulla sopravvivenza dell’incapace è rimessa a chi, avendo un compito di tutela, dovrà salvaguardarne la dignità, magari condannandolo alla morte per fame e per sete. Come è stato per Alfie Evans.

Di qui, il passaggio per intervenire sulla vita a prescindere dalla volontà e dalle ragioni esistenziali del soggetto interessato, cioè per arrivare dritti all’omicidio legalizzato degli individui scomodi e incapaci di difendersi, è dunque già tracciato, e sta nella legge.

Ma l’abolizione del divieto di aiuto al suicidio andrebbe ancora più in là, perché cancellerebbe apertamente il principio di indisponibilità della vita, e senza quel punto fermo si toglie ogni ostacolo ideale e culturale ad ogni possibile aggressione contro l’individuo che rimane totalmente indifeso di fronte all’arbitrio pubblico o privato, mascherato o meno dalle buone intenzioni.

Tutto il processo in atto è emerso con grande chiarezza a Liverpool, dove si sono definiti una volta per tutte anche i ruoli attivi che vengono ora ricoperti in questa guerra contro l’uomo, al netto di quelli che sono invece determinanti per omissione.

Lì, accanto al giudice, è entrato prepotentemente in scena anche il medico. Così, dopo essere stati costretti a considerare il giudice il più pericoloso alleato della ideologia eutanasica, ci accorgiamo che anche il medico ha ritagliato per sé un ruolo decisivo.

La legge sulle Dat ha concesso al medico largo spazio eleggendolo a protagonista della sacra rappresentazione, soprattutto proprio nella prospettiva delle scelte eutanasiche. Ed ecco che, dopo la soppressione di Alfie, passato il tempus lugendi minimo imposto dalle esigenze organizzative, è emerso tutto un proliferare di convegni, tavole rotonde e conferenze in cui sono ora i medici a definire le nuove frontiere della morale e della legge.

Essi riconoscono immancabilmente la bontà di una legge che è venuta a togliere loro le castagne dal fuoco, e non nascondono neppure la propria soddisfazione di fronte alla felice soluzione finale adottata dagli inglesi, per le ragioni evidenti di praticità che una medicina politicamente corretta non può non fare proprie.

In uno di questi prestigiosi convegni, ad esempio, l’elogio senza riserve della legge viene squadernato subito in apertura dei lavori, per bocca del presidente: «essa riesce ad interpretare bisogni realmente sentiti»; «intercetta le preoccupazioni indotte da una medicina che porta ad un prolungamento artificioso della vita»; «invita la medicina a ripensare il suo compito tradizionale che vuol dire continuare a sostenere la vita, ma la vita non intesa come assoluto morale, ma nel rispetto della dignità della persona»; «il bene della vita finisce dove entra in gioco la dignità della persona»; e infine «la legge è un invito a ripensare l’ethos della medicina, perché tenta di superare l’aspetto contrattualistico del consenso informato».
Quanto basta per capire l’aria che tira.

Ma che aria tiri ce lo fa capire a modo suo anche la prima relatrice che di questa legge tanto buona lamenta con rammarico le difficoltà di applicazione.

Presenta il caso del piccolo che sembra condannato da una malattia ritenuta incurabile e intorno al quale si è accesa una contesa. Da un lato ci sono le autorità sanitarie che vorrebbero perseguire il migliore interesse del minore, alla maniera degli inglesi, dall’altro la madre musulmana che chiede di continuare le cure perché nel proprio mondo la donna senza figli può essere ripudiata e dunque il proprio interesse pratico coincide con la sopravvivenza del figlio.

È dunque evidente, sempre secondo la relatrice, come interessi estranei a quello del minore ad essere soppresso vengano ad interferire sulla corretta applicazione della legge. Dove lo scontro di inciviltà appare indiscutibile.

Allora non può non venire in mente, per associazione di idee circa certi orizzonti culturali di certi medici senza le frontiere della ragione, il caso di quel Da Monte incaricatosi di assistere Eluana Englaro nel trasferimento in ambulanza da Lecco alla “Quiete” di Udine, tanto preoccupato per la sorte della poveretta da temere che il suo decesso avvenisse in itinere per cause diverse dalla fame e dalla sete programmate secondo il protocollo già concordato.

Dunque è ormai opinione consolidata che il miglior interesse dell’incapace considerato inutile a sé e agli altri, è quello di essere soppresso, e che il modo più economico e facile per sopprimere qualcuno incapace di difendersi è sottrargli cibo e acqua, un tipo di eutanasia veramente democratica, non invasiva, rispettosa perciò dell’uomo e dell’ambiente.

Il medico che ormai non legge più Ippocrate, ma non afferra neppure quale debba essere la funzione conservativa e di tutela della comunità umana della legge, plaude alla conquistata libertà di risolvere il problema dell’emicrania tagliando la testa al paziente. Non solo. Caduta ormai ogni inibizione, ora si gioca a tutto campo, e le attenzioni dei medici si spostano fatalmente dai bambini ai dementi, per allungare un altro passo decisivo sulla via della civiltà.

Ne è venuta una Delibera del Comitato Etico per la pratica clinica (ULSS 6 Euganea, Regione Veneto), intitolata «Nutrizione ed idratazione artificiale nella persona affetta da demenza: riflessioni etiche per un corretto impiego», che traccia le direttive sulla nutrizione artificiale dei pazienti affetti da demenza, perfettamente in armonia con gli orientamenti visti sopra.

La Delibera esordisce con il tributo, in sé abbastanza ozioso, ai valori innalzati dalla legge sulle Dat, quali l’autodeterminazione e la relazione di cura e fiducia tra paziente e medico. Poi, dopo una lunga disquisizione sugli inconvenienti tecnici della nutrizione artificiale applicata ai dementi, viene formulata una premessa che vale la pena riportare alla lettera per i cultori dei fenomeni linguistici: «mentre è impossibile sapere se i pazienti con demenza avanzata provano fame e sete, uno studio osservazionale non ha rilevato alcun aumento misurabile del disagio in seguito alla decisione di astenersi dalla nutrizione o dall’idratazione artificiali tra i pazienti con demenza avanzata».
Insomma, almeno sulla questione della eventuale sofferenza di chi è privato della alimentazione e della nutrizione, intanto possiamo stare tranquilli. Quindi, messa in pace la coscienza, anche per il trattamento di questi pazienti tornano buoni i criteri stabiliti dalla legge. Se il demente ha sottoscritto le Dat quando era ancora sano, non si pone alcun problema a farlo morire togliendogli il sostegno vitale, perché ha anche la fortuna di non soffrire come è accaduto invece alla povera Eluana che pare non abbia goduto affatto del vantaggio proprio dei dementi.

Se invece la demenza ha anche impedito la stesura delle disposizioni di trattamento, come nel caso dei minori si può ancora una volta ricorrere alla eliminazione della nutrizione artificiale, che abbiamo visto essere per lui indolore, se essa risponde «al bene complessivo del paziente», ovvero al suo interesse superiore. Questo sarà valutato da una «équipe ospedaliera e territoriale», che deve operare appunto «nel supremo interesse del paziente e non dell’organizzazione».

Apprezzabile la excusatio non petita, in cui i maligni non perderanno l’occasione di vedere una vistosa coda di paglia.

Alla fine. quello che segna in modo inquietante i nostri tempi stralunati, si riassume in un paradosso: la funzione della legge viene capovolta attraverso la sostituzione dell’interesse individuale a quello collettivo che spesso non coincide affatto col primo. Come la punizione del furto non coincide con l’interesse del ladro a rimanere impunito.
Sembra che quasi nessuno riesca più a comprendere che la legge piegata alle pretese del particolare sovverte l’etica e va a distruggere i fondamenti della convivenza umana, e di questo pare che nessuno si dia pena, né i giudici, né i medici, né tanto meno gli ideologi di regime che hanno guidato i politici alle leggi dissennate votate da un parlamento spensierato in senso letterale.

È l’appannamento di questa verità elementare a minacciare la vita del singolo e quindi la stessa coesistenza civile. Perché, una volta caduti i suoi limiti protettivi, la vita è un bene messo sul mercato alla mercé anche delle intenzioni più ignobili.

Per ironia della sorte, in nome dei propri sacri principi, la democrazia maneggia le armi che diceva di avere tolto al più disprezzabile dei nemici.

Spira purtroppo a suo favore lo spirito del tempo, che nel vuoto etico in cui la chiesa ha abbandonato il popolo di Dio, riconosce all’uomo faber la libertà di fare tutto quanto gli è materialmente possibile, perché la libertà è volontà di potenza, e disattiva la ragione che ci richiama costantemente alla coscienza del limite.




novembre 2018
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