IL MATRIARCATO FEMMINISTA

Liquidare l’assurdo matriarcato femminista


di Francesco Lamendola


Articolo pubblicato sul sito Accademia Nuova Italia






La nostra riflessione sulla crisi che ci attanaglia e che sta mettendo in forse la nostra stessa sopravvivenza non sarebbe completa, non sarebbe del tutto sincera e quindi non sarebbe intellettualmente onesta, se non mettessimo in evidenza un fattore che svolge un ruolo decisivo all’interno di essa, sia come causa, sia come effetto - difficile stabilire dove finisca una cosa e cominci l’altra: il sistematico e stupido matriarcato femminile che impone sia all’uomo, sia alla donna stessa, un ruolo falso e deforme, nel quale né il maschio né la femmina riescono a esprimere le loro migliori potenzialità, e tanto meno a unire le loro energie in vista di uno scopo comune.
L’ideologia femminista, che è divenuta uno dei pilastri fondamentali della cultura dominante e perciò del politically correct, ha reso più infelici sia la donna che l’uomo e non ha contributo affatto a migliorare la condizione della donna, se non sul piano strettamente materiale e formale, nonché su quello giuridico, spesso andando oltre il segno e stabilendo una sorta di principio insindacabile per cui, nelle controversie fra uomo e donna, ad esempio in caso di separazione dei beni dopo un divorzio, e di fissazione delle quote di partecipazione economica per il mantenimento dei figli, la donna riesce spesso a estorcere un reddito fisso dall’ex marito, che le consente, se costui è ricco, una vita agiata senza dover lavorare, semplicemente facendosi mantenere per sempre. Se l’ex marito, poi, non è ricco, molti giudici fissano comunque delle quote di mantenimento superiori alle sue possibilità oggettive, riducendolo in povertà e facendogli scontare per tutta la vita l’errore di aver sposato la donna sbagliata.




Smania di dominio? Liquidare l’assurdo matriarcato femminista. Il problema principale per chi vuole uscire dal vicolo cieco della modernità: la difficoltà di ammettere l’errore.
Ciò richiede umiltà; e chi ne ha di questi tempi?


L’ideologia femminista - perché di un’ideologia si tratta, non di una verità oggettiva - parte dal presupposto dell’assoluta equivalenza fra uomo e donna e pretende di far valere tale uguaglianza anche per mezzo di interventi dall’esterno, ad esempio fissando le “quote rosa” in politica, in modo da andare verso la parità numerica della rappresentanza parlamentare.
Non occorre una particolare acutezza per vedere che, in tal modo, si opera una sostanziale alterazione degli equilibri naturali nei rapporti fra uomo e donna: non si accetta l’idea che le donne possano ricevere meno voti degli uomini perché giudicate, meditatamente, meno idonee a quel genere di attività; si pretende di sapere che, se gli elettori votano più per gli uomini che per le donne (in realtà, anche e soprattutto le elettrici), ciò è dovuto a un pregiudizio e quindi a una valutazione irrazionale, che deve essere “corretta” stabilendo una normativa ad hoc.
Si direbbe che le femministe non vedano, o non vogliamo vedere, la contraddittorietà della loro posizione: da un lato rivendicano l’assoluta eguaglianza “naturale” fra uomini e donne, dall’altra invocano interventi legislativi per far sì che ci siano tante donne in parlamento quanti sono gli uomini (o, almeno, che non ce ne siano al di sotto di una certa soglia “sindacale”, da loro stesse stabilita), il che equivale a un trattamento privilegiato. Sarebbe come se un liberista convinto invocasse l'intervento dello Stato nell’economia quando si accorge che le imprese private, dei cui interessi si è fatto portavoce, non riescono a decollare e soprattutto non riescono a reggere la sfida della concorrenza. In realtà, o si è liberisti o si è protezionisti.
Se le femministe sono davvero convinte che la donna ha le stesse identiche capacità del maschio in ogni ambito della vita pubblica e privata, fisico e intellettuale, perché non si affidano al giudizio dei fatti? Saranno i fatti a dimostrare se ciò corrisponde al vero o se è, appunto, solo “ideologia”, nel significato più artificiale dell’espressione.

E lo stesso discorso che facciamo qui in riferimento alla politica, lo si potrebbe fare in tanti altri ambiti, a cominciare dallo sport. Se una donna vale quanto un uomo e se le differenze tra i due generi sono dovute unicamente all’educazione, perché, in tutte le discipline sportive, gli standard fissati per le gare olimpiche sono diversi per gli uomini e per le donne? Eppure - basta scendere in strada per sincerarsene - ci sono donne più grandi e più forti di certi uomini; non è vero che la donna è piccola e fragile in confronto all'uomo, o meglio, questo non è sempre vero. Se le differenze fra i due generi, anatomiche in questo caso, dipendessero solo dalla diversa educazione che è stata loro impartita, basterebbe abituare le donne, fin da piccole, a fare lavori pesanti, ad allenarsi in palestra tanto quanto gli uomini più robusti,  e alla fine, nel giro di un paio di generazioni, avremmo delle donne capaci di gareggiare con i maschi su un terreno di perfetta parità: nel nuoto, nel lancio del disco, nella corsa, eccetera.
Invece non è così, e si vede.




L'uomo e la donna possono darsi il meglio l'uno dell'altra, se la società riconosce che le differenze di genere esistono, e che è completamente errato volerle cancellare a colpi di decreto.


Ebbene: così come ci sono le differenze anatomiche, ci sono le differenze intellettuali: negarlo è una follia, eppure tutta la società odierna è costruita su questa menzogna e su questa ipocrisia.
Attenzione: non stiamo dicendo che la donna è inferiore all’uomo; ma che, come il suo organismo fisico, così la sua intelligenza è diversa, funziona in maniera diversa, risponde a una logica diversa. “Diversa” non vuol dire né inferiore, né superiore: significa solamente che non è uguale. Ci sono cose che una donna capisce prima, e meglio, di un uomo; e altre in cui l’intelligenza dell’uomo è più pronta e più lucida.
Anche la rispettiva attitudine psicologica è improntata ad un modo di sentire e di reagire che è profondamente differente nei due generi. Chiunque abbia lavorato in un ambiente solo maschile o solo femminile avrà notato, dopo cinque minuti, questa profonda differenza; e, sia detto fra parentesi, le donne ne sono così consapevoli, come pure sono tanto consapevoli dei difetti del carattere femminile, che, nella stragrande maggioranza dei casi, se potessero scegliere, preferirebbero lavorare in un ambiente a maggioranza maschile, o almeno con un capoufficio maschio.
Equivale a fare un torto alle donne, dire queste cose? Non lo crediamo: la verità non fa torto ad alcuno, tranne a quelli che non accettano la realtà delle cose e vorrebbero sostituirla con la realtà, fittizia, delle ideologie. Anche l’ubriacatura comunista, che ha imperversato per oltre un secolo nella cultura e nella società europea, nasceva da una mancata accettazione del principio di realtà e pretendeva che tutti gli uomini, se liberati non solo dallo sfruttamento economico, ma anche da qualsiasi differenza sociale, mediante l’abolizione delle classi, avrebbero manifestato la stessa voglia di lavorare e di concorrere al bene del corpo sociale. Ma la verità non è affatto questa: la verità è che molti esseri umani, se si vedono assicurata l’esistenza mediante l’abolizione per decreto della proprietà privata e della libera iniziativa, si accontentano di lavorare solo nella misura del minimo indispensabile, e non si preoccupano affatto del bene comune.

Ora, il riconoscimento delle diverse qualità e caratteristiche dell’uomo e della donna è importante proprio al fine di una buona intesa fra i due generi. L’uomo e la donna possono darsi il meglio l’uno dell’altra, se la società riconosce che le differenze di genere esistono, e che è completamente errato volerle cancellare a colpi di decreto.

Venendo su un terreno più concreto, ci sembra di poter affermare che l’uomo, in generale, possiede più chiarezza, concettuale e pratica, rispetto al progetto della propria vita, che non la donna. L’uomo, di solito, sa quel che vuole e come lo vuole ottenere; la donna, molto spesso, si lascia portare dall’uomo, oppure ondeggia irresoluta fra strade diverse e obiettivi contrastanti. Finché tra i due esisteva una certa gerarchia, cioè fino a quando la donna riconosceva all’uomo questa superiore capacità di progettazione e di volontà, essi operavano in armonia e contribuivamo entrambi al raggiungimento del fine: il buon andamento della vita familiare, e specialmente dell’educazione da impartire ai figli. Ma da quando la cultura femminista ha detto alla donna: Ebbene, ora sei libera, le tue catene sono stare infrante, puoi fare finalmente ciò che vuoi della tua vita, ecco che moltissime donne sono andate in crisi, perché non erano, e non sono, preparate ad assumersi in piena autonomia una tale responsabilità.
Ciò si vede anche dalla difficoltà che hanno moltissime donne sia a scegliersi l’uomo giusto (perché nel 99% dei casi è la donna che sceglie l’uomo, salvo poi lasciargli credere di essere stata scelta da lui), sia nel tenere unita la propria famiglia e nel considerarla come un bene fondamentale e irrinunciabile. Parliamo, s’intende, specialmente della donna moderna, che è un prodotto degenerativo di quella malattia che è la modernità, così come lo è l’uomo moderno.
Dunque, la donna moderna sembra avere un fiuto pressoché infallibile nello scegliere l’uomo sbagliato: fra un bravo pretendente e un pretendente dal dubbio valore, moltissime donne preferiscono il secondo, se solo è ammantato dall’alone romantico del ribelle o, quanto meno, del trasgressivo. Salvo poi chiedere aiuto ai genitori, ai fratelli, ai carabinieri, al giudice e perfino all’ambasciatore e alla Farnesina, se quella perla d’uomo, per amore del quale ha sfidato i consigli del mondo intero, si rivela per ciò che è e che è sempre stato, e che lei sola non aveva saputo o voluto vedere: un fannullone, un violento, un egoista e uno sfruttatore.
La stessa difficoltà si nota nel tenere unita la famiglia. La donna moderna sente questa responsabilità meno dell’uomo, così come sente meno dell’uomo la serietà del legame di coppia. È più pronta e a rompere una relazione e anche a mandare all’aria un matrimonio che durava da trent’anni; difficilmente il pensiero dei figli la trattiene. Non stiamo dicendo che la donna faccia con leggerezza una simile scelta; stiamo dicendo che, una volta che ha deciso di farla, in genere giustificandola con l’amore o con la libertà, tira dritto per la sua strada senza alcun ripensamento e senza il minimo rimorso, in una maniera che raramente ha l’eguale nell’uomo.
L’uomo, specialmente dopo essersi sposato, non è incline a mandare all’aria la propria famiglia, nemmeno se s’innamora di un’altra donna. Si dirà che ciò nasce da un atteggiamento opportunistico, in quanto gli va bene di avere l’amante per le emozioni forti, e la moglie affinché qualcuno gli lavi e gli stiri le camicie. Senza dubbio, può essere così per molti uomini. Tuttavia, crediamo vi sia anche qualcos’altro: e cioè che l’uomo sente più della donna la sacralità del matrimonio e il valore della famiglia. In questo senso, l’uomo moderno è meno moderno della donna moderna; si è modernizzato con più fatica e con maggiori scrupoli. Se rompe un matrimonio dopo molti anni di legame coniugale e se lascia i figli, lo fa, il più delle volte, con molti sensi di colpa; la donna, quando decide di farlo, la fa senza voltarsi indietro e si giustifica dicendo a se stessa di non aver mai amato quell’uomo, e di non togliere nulla ai propri figli se spezza il vincolo coniugale.
Anche quando la donna  tradisce l’uomo – lo testimoniano abbondantemente psicologi e psicoterapeuti – lo fa accampando un suo “diritto” e asserendo che si tratta di una legittima rivalsa sul marito, che non la capisce e che non meritava la sua devozione; mentre l’uomo che tradisce la moglie non se ne vanta affatto, salvo in rari casi, anzi se ne vergogna, ma non può farne a meno, o almeno così dice.
Si rilegga la novella di Verga La lupa e si vedrà chi dei due, fra il genero che tradisce la moglie e la suocera che oltraggia la figlia andando a letto col genero, ha scrupoli e senso di vergogna. Del resto, la letteratura testimonia ampiamente la verità della nostra asserzione. Anna Karenina, quando s’innamora di Vrosnskij, lascia il marito e lascia anche il figlio: soffrendo, ma senza esitare. Il guaio è che non è felice neanche dopo; tutt’altro. Come non è felice Madame Bovary dopo aver tradito suo marito, e averlo tradito con uomini da nulla, con dei buoni a niente che lei, però, aveva scambiato per dei meravigliosi Principi Azzurri.
Colpa del destino, dunque? Niente affatto: colpa della donna.




L’ideologia femminista - perché di un’ideologia si tratta, non di una verità oggettiva -
parte dal presupposto dell’assoluta equivalenza fra uomo e donna e pretende di far valere tale uguaglianza anche per mezzo di interventi dall’esterno,
ad esempio fissando le “quote rosa”.



E qui entra in gioco un altro aspetto dominante del carattere femminile: la smania di dominio. La donna vuol dominare, vuole esercitare il potere, non importa se in forma obliqua e non del tutto esplicita; vuole avere il controllo sull’uomo, sul marito e sui figli. Allo stesso tempo, si sente spinta a competere con tutte le altre donne, fossero pure sua madre, sua figlia o sua sorella. È frequentissimo che una donna si prenda come amante il marito della sua amica, non a dispetto di questa circostanza, che dovrebbe scoraggiarla, ma proprio a causa di essa: è una situazione che la stimola, perché si tratta di rubare l’uomo a un’altra e così dimostrare a tutti, anche e soprattutto a se stessa, di valere più di lei. In definitiva, sia il bisogno compulsivo di dominare gli altri, sia quello di portar via l’uomo alle altre donne, nascondo da una stessa causa: la malattia dell’ego.
Non importa se l’ego della donna è ipertrofico per narcisismo o per insicurezza; di fatto, è la stessa cosa: sono le due facce della stessa medaglia. Stando così le cose, la salvezza, cioè la stabilità del legame fra uomo e donna e la protezione della famiglia, ricade principalmente sulle spalle dell’uomo. Cioè, le cose funzionano quando la donna riconosce all’uomo un ruolo direttivo nell’orientamento della vita comune, e riesce a contenere le due spinte distruttive di cui si è detto, limitando la smania di controllare tutto e tutti e inibendosi la sfida di soffiare l’uomo alle altre donne.

Ma perché ciò accada bisogna che la donna faccia un passo indietro rispetto alle tanto decantate conquiste del femminismo, cosa difficilissima, dato che un’altra caratteristica femminile è l’ostinazione. D’altra parte, basta che la donna si guardi allo specchio e si chieda onestamente: sono più felice, più realizzata, più in pace con me e con gli altri, ora che ho conquistato l’assoluta parità con l’uomo, e forse qualcosa in più?
Ma qui emerge il problema principale per chi vuole uscire dal vicolo cieco della modernità: la difficoltà di ammettere l’errore.
Ciò richiede umiltà; e chi ne ha, di questi tempi?





novembre 2018
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