Non ci abbandonare alla tentazione…?


di Elia


Articolo pubblicato sul sito dell'Autore: La scure di Elia

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… et ne nos inducas in tentationem, sed libera nos a malo (Mt 6, 13).


Padre santo, non lasciarci indifesi nelle prove suscitate dai nostri stessi Pastori. Non permetterci di cedere alla tentazione di ritenere infallibile e obbligante ogni loro decisione. Con la nuova versione del Pater noster non ci hanno imposto una semplice modifica della traduzione corrente, ma una vera e propria alterazione (nella lettera e nel senso) della preghiera insegnataci dal Tuo dilettissimo Figlio.
Potresti mai essere Tu ad abbandonarci, se non lo fai nemmeno quando Ti abbandoniamo noi?
Esiste forse la pura possibilità che Tu ti disinteressi di noi, quando siamo tentati?
Saresti dunque capace di una noncuranza tale da lasciarci soli alle prese col nemico?
No: è un pensiero blasfemo.
Tu non hai proprio nulla da spartire – se non il nome comune – con le divinità pagane e neppure con la cinica indifferenza di Allah per la sorte degli uomini, compresi quelli che gli rendono culto.
Sì, è pur vero: tutti i vescovi del mondo, mezzo secolo fa, sottoscrissero un testo in cui si afferma che i musulmani adorerebbero con noi un unico Dio (cf. Lumen gentium, 16), ma è evidente che chi lo aveva redatto fosse reo di peccato contro lo Spirito Santo e quanti lo firmarono non ebbero modo di discutere e correggere gli innumerevoli germi di errore sparsi qua e là in un testo lunghissimo, se non quelli che non poterono proprio passare inosservati.

Tu solo conosci le intenzioni dei cuori. Noi, pertanto, possiamo soltanto prender per buone quelle dichiarate a parole.
Ammettiamo allora che la frase non ci indurre in tentazione fosse di scandalo a qualcuno. A parte che non ricordo di essermi mai imbattuto, in quasi venticinque anni di ministero, in un’obiezione dei fedeli a tale proposito, il responsabile del problema – qualora sussistesse – sarebbe Tuo Figlio. La traduzione italiana cui siamo abituati, infatti, traduce alla lettera (come già quella latina: ne nos inducas in tentationem) il testo greco: mḕ eisenenkēᵢs hēmàs eis peirasmón (Mt 6, 13). Il verbo eisphérō (qui coniugato alla seconda persona singolare del congiuntivo aoristo attivo) significa proprio portare dentro. D’accordo, il Maestro avrà insegnato ai discepoli la Sua preghiera in aramaico; chi volse nella koiné dell’epoca l’originale del primo Vangelo, che secondo san Girolamo fu composto hebraice, avrà scelto quel verbo per rendere il modo causativo (hiphil) probabilmente soggiacente, che non esiste nelle lingue classiche ed è quindi espresso, come pure in quelle moderne, o con un verbo di significato equivalente o con una forma perifrastica (far entrare).

A questo punto si impone – non certo per Te, supremo Intelletto, ma per noi poveri mortali – una distinzione.
Quando, nelle lingue semitiche, una forma verbale causativa (come nel testo in esame) è preceduta da una negazione, quest’ultima può riferirsi a due cose: o alla causalità o all’azione causata. Nel primo caso, bisogna intendere: non farci entrare in tentazione; nel secondo: fa’ che non entriamo in tentazione. La prima possibilità, intesa nel senso che Tu sia autore della tentazione, non è ammissibile: Tu non inciti alcuno a peccare e nemmeno potresti, perché ciò sarebbe assolutamente incompatibile con la Tua infinita santità, nonché con il tuo stesso essere di Sommo Bene.
Questa non è una limitazione della Tua onnipotenza, giacché quest’ultima non si estende ad atti cattivi, i quali, in quanto concreta espressione del male, sono una privazione di bene e non aumentano quindi il reale potere di agire. Non è neppure una limitazione della Tua libertà, dato che in Te non esiste la libertas contrarietatis (la possibilità di scegliere tra i contrari, come bene e male), ma la libertas contradictionis (la possibilità di scegliere tra agire o non agire) e la libertas specificationis (la possibilità di scegliere tra questa o quella azione buona o indifferente).

«Nessuno, quando è tentato, dica “Sono tentato da Dio”, perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male» (Gc 1, 13).
La prima ipotesi, dunque, è scartata. La tentazione non può provenire da Dio, ma dal demonio (che in tal modo esercita il suo influsso ordinario su di noi), dal mondo (con le sue massime e le sue seduzioni) o dalla carne (ossia dalla concupiscenza, che segna la nostra natura umana ferita dal peccato originale e corrotta dai peccati personali).
Bisogna dunque orientarsi verso la seconda ipotesi; ma possiamo sperare che Dio ci preservi da ogni tentazione? In realtà la Scrittura e la dottrina spirituale insegnano che il Signore permette che siamo tentati, sia per mettere alla prova la nostra virtù, sia per santificarci indirettamente mediante la lotta contro il male (mentre ci santifica direttamente con la grazia che ci infonde nei Sacramenti), sia per accrescere il nostro grado di gloria in Paradiso (se ci arriveremo). Anche in questo caso, Egli permette un male in vista di un bene molto maggiore.

«Figlio, se ti presenti per servire il Signore, prepàrati alla tentazione» (Sir 2, 1).
Perché allora Gesù ci ha insegnato a chiedere al Padre di fare in modo che non entriamo in tentazione? La grazia può agire in due maniere: o preservandoci dalle tentazioni o dandoci la grazia di superarle: «Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla» (1 Cor 10, 13).
Ecco dunque la soluzione: Egli può sia impedire che le cause seconde – cioè create – siano per noi origine di una tentazione, sia lasciare che lo siano (e in questo senso, nel linguaggio biblico, Egli vi induce), senza però abbandonarci ad essa, ma offrendoci l’aiuto necessario per vincerla, così che non superi le nostre forze sostenute dalla grazia.
Ovviamente è necessario che anche noi collaboriamo con quest’ultima, come il Signore stesso raccomandò ai tre Apostoli nell’Orto degli Ulivi: «Vegliate e pregate per non cadere in tentazione» (Mt 26, 41).
La preghiera non deve limitarsi a domandare la grazia di cui abbiamo bisogno per resistere, ma deve diventare il nostro ambiente vitale, uno stato permanente di unione con Dio che ci premunisca dagli assalti del maligno. La vigilanza, poi, consiste nell’evitare le occasioni e nel mantenersi attenti a tutte le possibili seduzioni.

Al momento della nostra morte vedremo distintamente da quali spaventose tentazioni saremo stati preservati e quante grazie ci saranno state concesse per vincere quelle che avremo sperimentato; ma quante ne avremo sprecate?
Sta qui il reale problema e la vera sfida. Pastori della Chiesa, ve ne supplico: anziché confonderci ulteriormente le idee, insegnateci ad accogliere la grazia e a farla fruttificare fino in fondo; il Signore ne chiederà conto a voi e a noi.
Oltretutto la vostra nuova traduzione del Pater inculca un’immagine di Dio falsata, equivoca, distorta… Ce n’era davvero bisogno? Ma vi rendete conto che la nostra società – compresi tanti dei vostri fedeli – è ormai perfettamente atea? Pensate di ricuperare terreno con queste “soluzioni” catastrofiche, imposte per decreto a clero e fedeli per costringerli ad obbedirvi?

Se poi vogliamo parlare di osservanza delle norme in materia di liturgia, quanti spaventosi abusi, da cinquant’anni, vengono da voi non soltanto tranquillamente tollerati, ma a volte anche incoraggiati, finché non diventano la regola?
Alla consacrazione – tanto per dirne una – anche il Messale di Paolo VI prescrive che i fedeli stiano in ginocchio: perché mai in tante chiese, allora, sono obbligati dal parroco a stare in piedi, al punto che, in un caso realmente accaduto, una parrocchiana che era giustamente rimasta inginocchiata è stata pubblicamente ripresa davanti a tutti nel bel mezzo del Canone? E poi, perché mai avete ritardato la terza edizione del Messale italiano per ben sedici anni? Non l’avete forse fatto in attesa di un cambio della guardia che vi desse carta bianca, dopo aver ostinatamente disobbedito a Benedetto XVI sulla questione del pro multis?
Non rispondete, per favore: avete già una pertica al posto del naso.

Cari fedeli, nobili figli del Padre celeste, non angustiatevi per nulla. Una versione del Messale non è Magistero ordinario che esiga il religioso ossequio dell’intelletto e della volontà; semmai – dato che le norme del culto hanno vigenza legale e fanno parte della legislazione ecclesiastica – è una legge liturgica, che di per sé andrebbe rispettata: ma un precetto in palese contrasto con la parola del Signore non obbliga nessuno.
Non so, ma ho la sensazione che ritoccare le traduzioni sia come cercar di puntellare le Torri gemelle con un paio di paletti di legno. Qualcuno, fra i nostri zelanti Pastori, ha mica notato l’immane crollo, nella Chiesa postconciliare, della fede, delle vocazioni, della pratica religiosa e del livello morale?
Padre santo, sei Tu che hai permesso una prova del genere, a nostro castigo e vantaggio. Siamo certi che non puoi abbandonarci in mezzo alla tempesta e che non ne saremo sommersi, se non per colpa nostra; ma – Ti supplichiamo – affréttane la fine. Amen.

Qui un’analisi esaustiva dell’aspetto grammaticale:
http://blog.messainlatino.it/2018/11/non-abbandonarli-alla-tentazione-di.html





dicembre 2018
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