PARLARSI ADDOSSO
  
di L. P.




Breviario dei nostri giorni – Ed. Mondadori, 2018” -  l’ultima impresa libraria, la 151a , del prolifico cardinal Gianfranco Ravasi, dallo stesso promossa con un paginone (La Verità, 24 gennaio 2019), in cui campeggia, nell’intervista rilasciata al redattore, il panorama culturale del presule del quale, in rapidi cenni,  indagheremo, al fine di una sana vaccinazione ‘pro fidelibus’, le tematiche e i relativi passi che le lumeggiano.
Andremo, pertanto, nella nostra ricognizione, seguendo l’ordine di esposizione delle domande e delle risposte – non tutte ché lungo assai sarebbe farlo -  dopo di che, porremo noi una domanda all’intervistatore, tanto per chiudere il cerchio di questa escursione.

Come da usanza, il redattore premette al catalogo delle domande il profilo riassuntivo dell’autore evidenziandone gli aspetti di maggiore presa e viepiù qualificanti.
Perciò: chi è il cardinale di Santa Cattolica Apostolica (Romana) Chiesa?
Ce lo presenta il giornalista: “Uomo di grande spiritualità, che non snobba le incursioni nei riti e nei linguaggi contemporanei (è una tweetstar con oltre 100.000 follower, e pur amando Bach, non disdegna di evocare John Lennon, Bob Dylan, Bruce Springsteen, Amy Winehouse, John Cage, il compositore estone Arvo Pärt, Claudio Baglioni, Ermal Meta con Fabrizio Moro e financo Rita Pavone)”.

Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, teologo, biblista, poliglotta  - parla più lingue e non solo ‘vive’: greco antico, latino, aramaico, siriano, samaritano, ugaritico. Una mente di vaste, rare e poderose conoscenze da cui ci saremmo, intanto, aspettati - quale uomo di Dio e di Chiesa - un timido cenno a P. L. da Palestrina, a Lorenzo Perosi, a Casimiri ad esempio e non l’adunata del becerume rockettaro i cui esponenti rappresentano quanto di più laico, trasgressivo e agnostico si possa dare.
John Lennon: colui che si vantò di essere più popolare di Cristo, colui che impeciato nel liquame induista di Rainesh predisse imminente la fine del Cristianesimo, colui che visse a pane, tantrismo e cocaina, colui che, nella giulebbosa trista nenia del brano “Imagine”, auspica un’umanità in pace ma senza Dio, senza un Paradiso e senza un Inferno;
Bob Dylan, abusivo Nobel, decorato dall’Accademia luterana di Stoccolma per il vuoto pneumatico di che si sostanziano le sue riflessioni, col sottofondo di un bordone chitarraiolo, del tipo: “Io accetto il caos ma non so se lui accetti me” o, ancora: “Mi piacerebbe fare qualcosa di cui valesse la pena, come piantare un albero nell’oceano. Ma sono solo un chitarrista”; 
Amy Winehouse, giovane cantante bruciata da alcol e droga a soli 28 anni;
John Cage, cerebrale sperimentatore di rumori e silenzî spacciati per colpi di genio;
Claudio Baglioni, la melassa della canzonetta italica.

E tanta è l’attrattiva che subisce dal mondo canzoniero che non può tralasciar di proporre al lettore di aver dedicato – dice l’intervistatore - “righe sentite alla cantante rock Janis Joplin, bianca dalla voce ‘nera’, morta a 27 anni per overdose di eroina”. Un esempio negativo, d’accordo, che si pone come monito severo ma che, incastonato nell’aura citazionistica, sa tanto di celebrazione dell’artista maledetto i modelli del quale gremiscono la necropoli del romanticismo superbo, ribelle e suicidario la cui lusinga di gloria ha già ingoiato nel baratro oscuro centinaia di giovani, e meno giovani, illusi di postare nel famedio degli dèi.





E non si creda nostra malevola intenzione attribuire siffatta attrazione al cardinal Ravasi ché, in verità, è lui stesso che, in un intervento, sostenne la tesi secondo cui “l’arte che dissacra cerca ancora l’assoluto” (Il Giornale, 26 maggio 2010), significando, ad esempio, che pure in quella blasfema, oscenografica, orgiastica e sodomitica “Ultima Cena” del pittore, l’ateo Alfred Hrdlicka - esposta nel Museo Diocesano di Vienna (Maggio 2008), col placet del cardinale Christoph Schōnborn – si annida una ricerca ansiosa dell’assoluto.
Ma quale? Noi, con lettera 28 agosto 2010, gli chiedemmo lumi perché, stando alla sua tesi, anche nei varî blasfemi spettacoli – il film “Hair”, il musical  “Godspell” - ove Gesù è un volgare lussurioso, c’è una tensione all’assoluto, ma quale? Rispose (sett. 2010), addossando la colpa al giornalista che aveva riportato il suo pensiero in modo grossolano e raffazzonato. Ma non chiarì.   

L’intervista rivela, nel cardinale, una compiacente propensione alla citazione, e ne saremmo ammirati se, nel cesto degli autori, vi trovassimo, tanto per tenerci ‘in partibus fidelium’, un San Paolo, un San Tommaso, un Pascal, un Dante, un Manzoni, autori le cui opere sono e saranno, nonostante la politica ipermodernista dell’attuale Pontefice, “lucernae pedibus nostris” (ex Ps. 118, 105); ammirati ‘se’, ma di tali e grandi autori non v’è la benché minima orma poiché la profluvie di detti, aforismi e sentenze, poste a corredo e a rinforzo del discorso, proviene dall’area laicista e gnostica e che Sua Eminenza definisce « ‘Spremute’ di autori, di epoche, culture, fedi diverse, perfino di nessuna fede, capaci di condensare in un lampo un precetto di vita, una personale esperienza, una verità universale».





L’intervista riporta, ovviamente, una rassegna a campione delle tematiche e delle citazioni esposte nel libro, ma siccome è questo il metodo per dare a un soggetto la proiezione della reale qualità, ne deriva che i 20 autori, con annessi i rispettivi pistolotti, rappresentano, in scala, la di loro reale quantità diffusa nel libro.
Vi si trovano schegge di A. Einstein, A. Kraus, O. Wilde, G. Papini, Platone, B. Chatwin, B. Brecht,  J. Green, W. Allen, H. de Balzac, Voltaire, J. Conrad, G. Ceronetti, S. Rodotà, Napoleone III, H. Küng, N. Gomez,  C. Baudelaire.
Sua Eminenza non tralascia, naturalmente, di farci notare le 67 citazioni di Gesù, così come si ricorda di allegare alla pletora degli aforismi anche uno di Sant’Agostino.
Non è nell’economìa di questo intervento riportare per esteso i detti dei 20 sapienti ché ne sortirebbe un saggio vero e proprio, ma di alcuno d’essi è necessario onde lumeggiare la tensione intellettuale che caratterizza il pensiero del cardinal Ravasi e ne determina la collocazione in area neomodernista. Nell’ordine:  
- Oscar Wilde: “Tutti coloro che sono incapaci di imparare si sono messi ad insegnare”. A rigor di logica, stando all’aforisma dell’irlandese – che non s’accorge di darsi la classica zappa sui piedi, lui che s’è posto come ‘maestro di pensiero’ – Sua Eminenza riduce Gesù, “Maestro, Via, Verità, Vita”, a figura di un abusivo e ignorante docente, nel quale la spocchiosa saccenza prevale sulla scienza. Il cardinale non lo penserà, ma intanto una citazione come questa, buttata là come orpello d’erudizione, può debordare nel vilipendio.

- Woody Allen: “Non ho niente contro Dio, è il suo fan club che mi preoccupa” a cui affianca, per affinità tematica, H. de  Balzac: “La malattìa del nostro tempo è la superiorità, ci sono più santi che nicchie”. Il cardinale copre la sua avversione alla Tradizione spostando il tiro con l’argomento del clericalismo quale causa, ad esempio, della non ancora raggiunta concordia col ‘mondo’. L’aforisma di De Balzac sarà ripreso, nel ’68 rivoluzionario nella variante “Meno santi, più preservativi” di cui, la recente esortazione bergogliana all’educazione sessuale nelle scuole, sembra il compimento del cammino.
La Chiesa di Cristo, Cattolica, Apostolica, Romana è, dogmaticamente, superiore a tutto, sia per la titolarità divina del Fondatore, sia per l’esclusivo potere salvifico – Extra Ecclesiam nulla salus - che per la sua indefettibilità. Ma a sua Eminenza piace una Chiesa di dignità e valore pari a tutte le confessioni, come, peraltro, dimostra la sua lettera “Cari fratelli massoni”, pubblicata su ll Sole 24 Ore, in data 14 febbraio 2018 – festa degli… innamorati – in cui auspica il superamento delle reciproche divergenze, ritenendo più proficuo un accordo, senza dubbio foriero di benefica fecondità. Più massoni e meno Chiesa.





- Voltaire: “Dio di tutti gli esseri, fa’ che coloro che accendono ceri per celebrarti non disprezzino coloro che si accontentano della luce del tuo sole”. Come possa, il cardinale, inserire il tristo Voltaire - spregiatore di Dio, negriero confesso e praticante, sodomita, parassita a spese di damazze, morto disperato ingurgitando le proprie feci - tra gli esemplari di un ateismo che cerca Dio, ci riesce difficile. Consentendo al lamento del filosofo, Sua Eminenza dà del superbo a quel credente – sottinteso: cattolico – che non distingue l’errore dall’errante così come esortava Giovanni XXIII il quale riteneva inutile applicare il rigore preferendo la medicina della misericordia. Noi pensiamo che non è possibile, e lecito, separare l’individuo dalle proprie opzioni storiche tali che, ad esempio, l’arianesimo o qualsiasi altra eresìa possano e debbano esser posti in categorìe a parte e, di conseguenza, non poter perseguire, riprendere, correggere, recuperare Ario e chi altri.
Ma se non è sufficiente questa nostra riflessione, è bene ascoltare un’autorità, il defunto cardinale Giacomo Biffi che, al riguardo, così afferma: “Bisogna distinguere tra l’errore e l’errante… Il principio è giustissimo e attinge la sua forza dallo stesso insegnamento evangelico: l’errore non può che essere deprecato, odiato, combattuto dai discepoli di Colui che è la Verità, mentre l’errante – nella sua inalienabile umanità – è sempre un’immagine viva, pur se incoativa, del Figlio di Dio incarnato, e pertanto va rispettato, amato, aiutato per quel che è possibile. Io però non potevo dimenticare, riflettendo su questa sentenza, che la storica saggezza della Chiesa non ha mai ridotto la condanna dell’errore a una pura e inefficace astrazione. Il popolo cristiano va messo in guardia e difeso da colui che di fatto semina l’errore… Gesù a questo proposito ha dato ai capi della Chiesa una direttiva precisa: colui che scandalizza col suo comportamento e con la sua dottrina, e non si lascia persuadere né dalle ammonizioni personali, né dalla  più solenne riprovazione  della ‘Ecclesìa’, “sia per te come un pagano e un pubblicano” (Mt. 18, 17), prevedendo e prescrivendo l’istituto della scomunica” (Giacomo Biffi: Memorie e digressioni di un italiano cardinale – Ed Cantagalli 2007, pag. 179).
Esibire Voltaire, come rinforzino alle 67 citazioni dei “loghia” evangelici, non è stato, Eminenza, un bel servigio a Cristo ma, diciamolo schietto, uno sputo.





- Napoleone III – Rispondendo all’intervistatore che gli cita Stefano Rodotà – scomparso nel 2017  - il quale argomenta circa gli “imprenditori della paura” - e su cui il cardinale ha, nel suo libro, chiosato: “Certi politici con la bava alla bocca costruiscono le loro fortune di sequele proprio sul seminare paura” - testualmente dice: “Napoleone III sosteneva: ‘In politica bisogna guarire i mali, non vendicarli”.  Ecco un altro campione del tenerume ippocrateo, Carlo Luigi Napoleone Bonaparte, detto Napoleone III, che Sua Eminenza estrae dal cilindro della sua erudizione! Intanto non si comprende dove sia il nesso logico tra l’osservazione di Rodotà e la massima del francese esibita dal cardinale, ma non è ciò che interessa perché quello che ci preme far notare è la  totale estraneità del Bonaparte all’idealità espressa dal suo detto. Sappiamo, infatti, con quale cinismo costui promosse una cruenta politica imperialistica in Nord Africa e nel Centro America – vedi la tragica avventura messicana di Ferdinando Massimiliano d’Asburgo, dolosamente spinto dal Bonaparte a imporsi quale re di quella nazione, fucilato a Queretaro (1867) - ma, soprattutto, conosciamo con quale e quanta dose d’ignominia si rese partecipe, in una con l’italiano Cavour, della dissoluzione morale e fisica di Virginia Oldoini – la contessa di Castiglione –, giocattolo sessuale finalizzato a un’alleanza militare italo/francese.
Sale ironico il sorriso davanti a chi, a chiacchiere, si propone come buon samaritano ma nei fatti si dimostra un sadico.

Eminenza, ma non aveva, nel suo sì vasto repertorio aforistico, qualcuno più vicino al nostro sentire cristiano? Cos’è questa pulsione che la spinge a corredare i suoi lavori cogliendo spunti e tematiche dagli orti ove si coltiva  la mala verdura dell’ipocrisìa, dell’ateismo, della gnosi spuria, del paradosso fine a sé stesso?
Lei ci risponderà che “Fas est et ab hoste doceri” – È lecito essere istruiti anche da un nemico (Ovidio: Metamorfosi, 4, 428) – sul che concordiamo quando tràttasi di questioni umane ma non di quelle divine per le quali, a fronte della Verità Rivelata, non c’è nemico che possa aggiungere un che di positivo.

Concludiamo riferendoci a una sua precisazione laddove afferma di doversi attenere alla necessità di esser brevi, specialmente in un libro dove si tratta di schegge di pensiero fulminanti, perché, come giustamente scrive, “la brevitas dei latini è felice sintesi di concisione e pregnanza… come dice un proverbio popolare tedesco ‘in der kurze liegt die würze’, nella brevità sta il succo”.
Noi non disdegniamo la cultura paremiologica – id est: del proverbio – sì da accoglierne anche uno germanico ma, visto l’accenno alla “brevitas” latina, ci saremmo aspettati che proprio dalla nostra materna saggezza avesse pescato - che so? – il bellissimo aforisma di Catone che, con agile distico, dice: “Miraris versus nudis me scribere verbis / hoc brevitas fecit, sensu uno iungere binos” – Ti stupisci che io scriva versi con nude parole / brevità ne congiunse due in un solo significato. (Dist. IV, 49).




Ci proponemmo, all’inizio, di indirizzare all’intervistatore, una domandina, questa: “Perché non ha chiesto al cardinal Ravasi le ragioni di quella sua partecipazione - novembre 2014 – sulle Ande argentine, al pagano rito della “Pachamama”, versione locale della antropofaga “Grande Madre” siro-fenicia, lieto e danzante – lui e una suora - come moderno coribante?”.

Alla prossima intervista.




febbraio 2019

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