L'eutanasia della Fede

Cosa non deve fare un consacrato se perde la fede


di Francesco Lamendola


Articolo pubblicato su sul sito Accademia Nuova Italia

Impaginazione e neretti sono nostri






Se un uomo di Dio perde la fede, che cosa deve fare? Questa domanda è stata affrontata, da svariati punti di vista, da scrittori e registi, specialmente in ambito protestante, probabilmente perché la perdita della fede, come fenomeno diffuso, è partita proprio da lì, e poi si è estesa ai Paesi di tradizione cattolica (mentre ancora non è giunta in quelli ortodossi, che pure hanno subito dure persecuzioni, e nei quali anzi si assiste a un rifiorire del sentimento religioso e delle vocazioni sacerdotali: cosa che dovrebbe far riflettere, specialmente i cosiddetti cattolici progressisti).
Fra i primi ricordiamo la scrittrice svedese Selma Lagerlöf, premio Nobel per la Letteratura, col romanzo La saga di Gösta Berling, del 1891, che prende le mosse dalle disavventure di un prete spretato, rovinato dal vizio del bere e perciò cacciato dalla sua parrocchia.
Fra i secondi, ricordiamo Ingmar Bergman, altro svedese, con la trilogia del Silenzio di Dio e specialmente col film Luci d’inverno, del 1963, che segue una giornata di ordinaria disperazione di un pastore che non riesce a risollevarsi dal trauma della morte della moglie e che, scivolando verso la depressione, nonostante l’amore di una donna, che però non corrisponde, soffre e si tormenta vedendosi impotente ad aiutare moralmente i suoi pochi e tristi parrocchiani, uno dei quali, marito e padre di famiglia, sceglierà il suicidio a causa dell’angoscia esistenziale che lo divora.



Il film Luci d’inverno, del 1963 di Ingmar Bergman


Un tempo, se un ministro di Dio perdeva la fede, aveva molte spalle sulle quali appoggiarsi per trovare conforto. Prima di tutto, il confessore e il direttore spirituale; poi il suo parroco, se era un semplice cappellano; se era un parroco, il suo vescovo; se era un membro di un ordine religioso, il suo abate; senza contare le figure autorevoli di sacerdoti anziani e circondati da fama di saggezza, qualche volta di santità, cui egli poteva rivolgersi, anche al di fuori della sua diocesi o del suo ordine religioso. Poteva chiedere di ritirarsi, per un periodo di meditazione e preghiera, in qualche parrocchia di montagna, o in qualche convento, dove sarebbe stato seguito con affetto da un direttore esperto, dove avrebbe trovato orecchi paterni ad ascoltarlo, e labbra paterne a consigliarlo, consolarlo, spronarlo, orientarlo nuovamente nel labirinto delle sue confusioni. Ma soprattutto, più che parole, dovunque avesse volto lo sguardo, in qualsiasi libreria cattolica fosse entrato, qualsiasi rivista cattolica avesse sfogliato, qualunque documento del Magistero straordinario fosse andato a rileggersi e a meditare, sempre avrebbe trovato concetti chiari, positivi, privi di ogni ambiguità; indicazioni precise, suggerimenti preziosi, ispirazioni benefiche. Il rischio d’inciampare in qualcuno che gli fosse di scandalo; in qualcuno che, invece di consigliarlo ed edificarlo, lo sprofondasse ulteriormente nei suoi dubbi e nel suo scoraggiamento; in qualche teologo, in qualche sacerdote, in qualche vescovo che prendesse sottogamba le sue difficoltà, che ridesse dei suoi scrupoli, che banalizzasse i suoi tormenti, che minimizzasse le sue angosce e le sue preoccupazioni, era assai remoto.
In ogni caso, se anche fosse incorso in una tale disavventura, per una esperienza negativa di quel tipo, avrebbe potuto farne dieci di segno diverso. Non è detto che tutti coloro ai quali si fosse rivolto lo avrebbero saputo ascoltare nella maniera giusta e consigliare nella maniera migliore; ma è assai probabile che, pur deficienti sul piano umano, nessuno, o quasi nessuno, gli sarebbe stato d’inciampo sul piano della fede, nessuno avrebbe agito in maniera negativa su di lui, aggravando il suo malessere e sospingendolo verso una incredulità totale e definitiva.
Al di fuori della chiesa, poi, avrebbe potuto contare sulla simpatia e sulla comprensione di un certo numero di laici. Certo, non si sarebbe mai permesso di spiattellare in faccia ai suoi parrocchiani la propria crisi interiore, né, se lo avesse fatto, avrebbe potuto aspettarsi altro che porte chiuse, irritazione e fastidio. Tuttavia avrebbe potuto contare su alcune persone fidate, amici e conoscenti, e soprattutto i suoi stessi familiari, i suoi genitori che lo avevano fatto studiare in seminario, magari con grande sacrificio personale, i suoi fratelli o le sue sorelle, alcuni dei quali, forse, avevano avuto la sua stessa vocazione ed erano entrati a loro volta in seminario o in convento.




Con la scusa dei poveri, si uccide dolcemente la fede: un’eutanasia!


Non vogliamo dire, con questo, che la posizione di un sacerdote che si accorgesse di aver perso la fede fosse tutta rose e fiori; tutt’altro; vogliamo solo dire che egli non si sarebbe visto abbandonato a se stesso, o che, quanto meno, nella Chiesa non avrebbe trovato ulteriori ragioni d’incredulità e allontanamento da Dio, ma al contrario, persone disposte ad aiutarlo e ad assisterlo. Certo, avrebbe avuto dei forti sensi di colpa, verso la Chiesa e verso i fedeli: e questo, forse, sarebbe stato un fattore di sofferenza non meno grave dell’altro, la perdita della relazione di fede con Dio. Se poi si fosse trattato di un sacerdote scrupoloso e ben conscio dell’altissimo valore del suo ministero, certo non avrebbe preso alla leggera la propria crisi di fede e non sarebbe saltato a conclusioni precipitose, come invece fa un marito il quale, avendo sempre preso alla leggera il sacramento del matrimonio, alle prime difficoltà della vita coniugale, pensa subito di ricorrere al divorzio; o come oggi un adolescente che, in crisi di identità, viene indotto a pensare che un rapido intervento per effettuare il cambio di sesso lo metterà in pace con i suoi conflitti e gli restituirà la gioia di vivere.
No: i sacerdoti di qualche decennio fa non giocavano con Dio, né con il popolo dei fedeli: avevano fatto una solenne promessa, si erano assunti volontariamente un delicatissimo impegno, e non li sfiorava la mente di poter rompere quella promessa e riprendersi la loro libertà come se  nulla fosse. Non pensavano che la libertà consiste nel venir meno a un sacramento e nel voltare le spalle alla propria vocazione e al proprio dovere; non pensavano che si possa essere felici dopo aver tradito il solenne giuramento di dedicarsi totalmente a Dio e alla Chiesa. Proprio questo senso di responsabilità, unito al timore di dare scandalo alle anime e da un giusto sentimento del proprio onore personale, li tratteneva dal precipitare in una situazione di crisi spirituale e di dubbio, portandola alle estreme conseguenze; prima di pensare a chiedere la riduzione allo stato laicale, cioè prima di rimangiarsi il loro sacro impegno, lottavano, si impegnavano, ingaggiavano una dura battaglia con se stessi. Se avevano perso la testa per una donna, cercavano di chiarire a se stessi se davvero si fossero ingannati allorché avevano scelto, invece, la vita consacrata; se, invece, si trattava di una crisi di fede puramente interiore, non dovuta a fattori esterni, se non indirettamente, come la morte di una persona cara o la dolorosa malattia di un congiunto, allora avevano abbastanza sangue freddo e abbastanza testa sulle spalle per prendersi tutto il tempo necessario a riflettere. A riflettere e, naturalmente, soprattutto a pregare: cioè a chiedere aiuto e consiglio a Dio, a quel Gesù Cristo cui avevano fatto la loro sacra promessa, e che già aveva domandato ai suoi apostoli: Volete andarvene anche voi?



I sacerdoti di qualche decennio fa non giocavano con Dio, né con il popolo dei fedeli: avevano fatto una solenne promessa, si erano assunti volontariamente un delicatissimo impegno, e non li sfiorava la mente di poter rompere quella promessa e riprendersi la loro libertà come se  nulla fosse!

Ci sia permesso riportare, per una ulteriore riflessione, una pagina del già citato romanzo di Selma Lagerlöf La saga di Gösta Berling (dal volume Selma Lagerlöf, traduzione dallo svedese di Augusto Guidi, Torino, UTET, 1965, pp. 3-5), pur tenendo conto della diversa condizione dei pastori luterani rispetto ai preti cattolici e la diversità nell’idea stessa di ciò che è il sacerdozio:
Finalmente, ecco che il pastore è salito sul pulpito.
I fedeli levano il capo. Ah, eccolo! Questa volta non sarebbe mancata la messa come la domenica innanzi e come molte altre domeniche. (…)
Egli aveva bevuto tanto che da molte settimane non gli era stato possibile prestar servizio, e la parrocchia aveva dovuto rivolgere proteste prima al prevosto, poi al vescovo e al Capitolo. Perciò era venuto il vescovo in visita d’ispezione. Sedeva nel coro con la croce d’oro sul petto, e i canonici di Karlstad e delle parrocchie vicine sedevano tutt’intorno a lui.
Evidentemente la condotta del pastore aveva oltrepassato i limiti del lecito. A quel tempo, verso il 1820, si era abbastanza indulgenti verso i bevitori, ma quest’uomo aveva dimenticato nell’ubriachezza ogni dovere suo. Perciò la carica doveva essergli tolta.
Il pastore sul pulpito aspettava l’ultima strofa del salmo che veniva cantato prima della predica.
E guardando i suoi parrocchiani, la certezza di non avere intorno che nemici l’invase: nemici su tutti i banchi, tra i signori delle tribune, tra i contadini giù al basso, tra i ragazzi confirmandi seduti nel coro. Un nemico manovrava col piede il soffietto, un nemico suonava l’organo. Nel banco riservato al clero, null’altro che dei nemici. Tutti l’odiavano, dai bimbi in fasce fino al sagrestano, un rude soldato che aveva combattuto a Lipsia.
Il pastore avrebbe voluto cadere in ginocchio e chiedere pietà! Ma poi si svegliò in lui un’ira sorda. Rivide se stesso qual era quando, un anno prima, era salito per la prima volta su quello stesso pulpito. Allora era un uomo senza macchia, ed ora eccolo lì a guardare l’uomo con la croce sul petto, venuto per giudicarlo.
Mentre leggeva l’introduzione, ondate di sangue gli affluivano al volto. Era l’ira.
Sì, era vero, aveva bevuto, ma chi aveva il dirotto di accusarlo per questo? Aveva visto nessuno il presbiterio dove era stato costretto a vivere? Il bosco di abeti gli giungeva fin sotto le finestre, scuro e sinistro. L’umidità stillava dai soffitti neri, lungo i muri ammuffiti. Non era necessaria l’acquavite per rincuorarsi, quando la pioggia o il nevischio gli entravano in caso attraverso i vetri rotti, quando il terreno mal coltivato non voleva dar pane per scacciare la fame?
Pensò che egli era stato proprio il pastore che si meritavano. Essi bevevano tutti, perché proprio lui doveva astenersene? Il marito che aveva seppellito la propria moglie si ubriacava di birra al banchetto funebre, il padre che aveva battezzato il proprio bimbo, dopo celebrava l’avvenimento con una bevuta generale. Gli inservienti della chiesa bevevano lungo la strada del ritorno, cosicché generalmente arrivavamo a casa ubriachi. Un pastore ubriacone era quel che ci voleva per loro.




Un patto del silenzio? Oggi i neopreti che hanno perso la fede “fanno finta di nulla” tanto l’hanno persa anche i vescovi e il papa. E poi c’è la scusa dei poveri e immigrati !


Questa, fatte salve - ripetiamo – le differenze fra la Chiesa cattolica e la chiesa scismatica luterana, era la situazione psicologica e morale di un ministro di Dio che si rende conto di essere indegno: combattuto tra lo sconforto e l’auto-disprezzo, da un lato, e la frustrazione e la rabbia dall’altro. Egli paragona la sua miseria, il suo degrado e il suo abbrutimento ai vizi dei suoi parrocchiani; li confronta e si rende conto di essere un uomo perfettamente nella media; vorrebbe perciò ribellarsi al loro giudizio, perché non si sente peggiore di essi.
Ma ecco cosa hanno deciso di fare i neopreti che hanno perso la fede, a partire dalla stagione del Concilio Vaticano II. Invece di sentirsi in colpa, o frustrati, o umiliati, o mortificati; invece di sentirsi inadeguati, o di chiedere ai loro superiori un consiglio, una pausa di riflessione, e di rivolgesi a Dio per ricevere aiuto e conforto, hanno deciso di far finta di nulla. La fede? Che importa; dopotutto, non si sa chi sia Dio, e in ogni caso Dio non è cattolico. Quel che conta sono i valori umani: la giustizia, la pace, la solidarietà, l’accoglienza, i diritti, il rispetto dell’ambiente. Perciò, basta trasformarsi in volontari di una ONLUS e darsi da fare tra pentole, dormitori, centri di accoglienza, mense per i poveri: tutte cose buone e utili, sia chiaro; ma tutte cose che non richiedono l’opera di un prete, di un ministro consacrato. Però, visto che sia i fedeli, sia gli stessi superiori, vescovi e cardinali, parlano e agiscono come se il cattolicesimo fosse divenuto un’agenzia d’interventi umanitari, entro un orizzonte puramente terreno; visto che nessuno parla più dell’eternità, dell’anima, della grazie e del giudizio; visto che inferno e paradiso sono espressioni passate di moda, e il diavolo poi non ne parliamo, chi lo nomina fa la figura del fanatico medievale scappato da qualche casa per alienati mentali: perché preoccuparsi? Che problema c’è? Un prete ha perso la fede? Ma l’hanno persa i vescovi, i cardinali, il papa; l’hanno persa, prima di tutti, i teologi e da loro l’incredulità si è diffusa ovunque.
Beninteso, anch’essi sono stati abbastanza furbi da non dirlo. Perché dirlo apertamente, se ciò comporterebbe la rinuncia alle poltrone e agli stipendi? No, meglio non dirlo; e intanto spostare il baricentro della loro opera verso le cose di quaggiù: pasti caldi per i barboni, diritto all’immigrazione selvaggia per tutti; e dire che anche la Sacra Famiglia era composta da migranti. Non è vero affatto: ma che importa? È credibile: almeno quando si ha a che fare con dei cattolici così ignoranti, superficiali e conformisti, e con dei superiori così smaniosi di primeggiare in veste di agenti della filantropia internazionale.




Un prete ha perso la fede? Ma l’hanno persa i vescovi, i cardinali, il papa; l’hanno persa, prima di tutti, i teologi e da loro l’incredulità si è diffusa ovunque!


Certo, fino a qualche anno fa il gioco non sarebbe riuscito: la gente sapeva la differenza tra la vera dottrina e quella taroccata che ora viene spacciata, abusivamente, per la dottrina cattolica. I fedeli sarebbero insorti; e i superiori sarebbero intervenuti. Ma adesso? Adesso il disordine parte proprio dai seminari e dalle facoltà di teologia: gli uni e le altre completamente permeati dallo spirito del mondo moderno, dalle idee di Heidegger e Rahner, dalla teologia della liberazione e da altre eresie di matrice tipicamente luterana.
Con la scusa dei poveri, si uccide dolcemente la fede: un’eutanasia. In fondo è la soluzione più pulita, quella che consente di evitare scandali e inutili polemiche: e sono contenti tutti. Il clero può restare nell’irreligiosità e i fedeli trastullarsi nei peccati. Vivi e lascia vivere, come si usa dire…



febbraio 2019
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