TRENTA RIGHE FUORI MODA


Notre-Dame brucia.
Ma le cattedrali sono già morte.

di Alessandro Gnocchi



Pubblicato martedì 16 aprile 2019 sul sito Riscossa Cristiana
 
I neretti sono nostri






Supponiamo per un istante che la religione cattolica sia spenta da secoli, che le tradizioni del suo culto siano perdute” recitava l’incipit di un articolo firmato da Marcel Proust per “Le Figaro” del 16 agosto 1904. Si intitolava “La morte delle cattedrali” quello scritto inquietante e sublime che opponeva le ragioni dell’anima agli effetti della legge di separazione della chiesa dallo stato francese: abolizione dei luoghi di culto, inventario e confisca dei beni della chiesa, “polizia dei culti” e quanto altro la laicità è in grado di concepire prima ancora di partorire il laicismo. San Pio X ordinò all’episcopato di Francia di lasciarsi spogliare serbando in povertà assoluta il mandato pastorale, la fede e la sua trasmissione.

A rischio di apparire algido, intellettuale e privo di umana empatia, devo confessare che ho pensato solo all’articolo di Proust mentre guardavo bruciare la cattedrale di Notre-Dame a Parigi. “Supponiamo per un istante che la religione cattolica sia spenta da secoli, che le tradizioni del suo culto siano perdute”: poco più di cento anni dopo, non dobbiamo più supporlo, ma constatarlo.
L’iperbolico espediente letterario nella sfida proustiana alla barbarie della laicità è divenuto il burocratico certificato dell’opera ancora più barbara di una chiesa che ha smesso di credere in Cristo affinché la vecchia religione “sia spenta” e “le tradizioni del suo culto siano perdute”.

In chi e in cosa credono le facce attonite che passavano sugli schermi e campeggiano sulle prime pagine di tutti i giornali? Cosa andavano ad adorare, se mai sono state educati a farlo, quando entravano nel sacro recinto delle mura di Notre-Dame? Quante volte hanno assistito e acconsentito alla profanazione del tempio partecipando a culti e riti che nulla avevano di pur vagamente cristiano? Notre-Dame, quella vera, quella della fede in Gesù Cristo, dura più delle magnifiche pietre gotiche, e stretta più degli angusti archi rivolti al Cielo, non è forse già bruciata da tempo nei cuori di tutti quei cattolici che l’hanno dissacrata riducendola a una stamberga della neochiesa? Non è forse già abbattuta nei cuori dei pastori di anime morte che vi hanno fatto entrare i lupi assetati del sangue delle pecore?

Supponiamo per un istante che la religione cattolica sia spenta da secoli, che le tradizioni del suo culto siano perdute”. Non lo supponiamo più, oggi, lo sappiamo. L’abbiamo davanti agli occhi ed è proprio questo che ci addolora, più delle fiamme che si sono alzate nel cielo ateo di Parigi, che accoglie ugualmente sorprese dalla morte durante le sconcezze del Bataclan e santifica i bestemmiatori di “Charlie Hebdo” con la benedizione di chi avrebbe dovuto preservare la fede dentro Notre-Dame e invece l’ha barattata per un amplesso con il mondo.
“Notre-Dame è il luogo dei cristiani, ma anche di chi cristiano non è” si sono affrettati a dire i pastori di anime morte, facendo il verso alle anime morte della laicità. Perché tutto è uguale, la santità e il peccato, la salvezza e la dannazione, Cristo e l’Anticristo.

E’ questa Grande Indifferenza la nuova divinità celebrata dentro alle vecchie cattedrali, che sono già morte perché, come scrive Proust, possono vivere solo della fede di chi le ha costruite e di chi continua ad abitarle.
Supponiamo quindi che un giorno alcuni eruditi suffragati da documenti arrivino a ricostruire le cerimonie che vi si celebravano un tempo, per le quali erano state costruite, che erano precisamente il loro significato e la loro vita, senza le quali esse non erano ormai più che lettera morta; e supponiamo allora che alcuni artisti, sedotti dal sogno di restituire momentaneamente la vita a quei grandi vascelli divenuti silenziosi, vogliano rifarne per un’ora il teatro del dramma misterioso che vi si svolgeva, al centro di canti e profumi. (…) Eppure, non ci si può impedire di esclamare: Ahimè, quanto più belle dovevano essere queste feste, al tempo in cui erano dei sacerdoti a celebrare l’uffizio e non per dare a dei letterati un’idea di quelle cerimonie, ma perché avevano nella loro virtù la stessa fede degli artisti che scolpirono il giudizio universale nel timpano del portico o dipinsero le vite dei santi sulle vetrate dell’abside. Come l’opera tutta intera doveva parlar più alto, più giusto, quando tutto un popolo rispondeva alla voce del sacerdote, piegava i ginocchi al campanello dell’elevazione, non, come in queste rappresentazioni retrospettive, al modo di freddi figuranti stilizzati ma perché anche loro, come il sacerdote, come lo scultore, credevano”.

E, invece, non ci credono più, non i fedeli e meno ancora i loro pastori. E le cattedrali muoiono perché non è più vero quanto Proust poteva ancora scrivere al principio del secolo scorso: “Si può dire che, grazie alla persistenza nella Chiesa cattolica degli identici riti e, d’altro canto, della fiducia cattolica nel cuore dei francesi, le cattedrali non siano soltanto i più begli ornamenti della nostra arte ma i soli che vivano ancora la loro vita integrale, che siano rimasti in rapporto con lo scopo per il quale furono edificati”.

Ai nostri giorni, le chiese hanno visto ben di peggio del fuoco che brucia le travi, cola le vetrate, cancella i dipinti, abbatte le guglie. Sono state dissacrate dai riti di una fede invertita, celebrati con il consenso di chi poi ne piange la distruzione in diretta tv.
Ebbene”scrive ancora Proust “meglio devastare una chiesa che dissacrarla. Finché vi si celebra la Messa, una chiesa, per mutilata che sia essa conserva ancora la sua vita. Dal giorno in cui viene dissacrata è morta, e se anche sia protetta come monumento storico di celebrazioni scandalose, non è più che un museo. Si può dire alle chiese ciò che Gesù diceva ai suoi discepoli: Se non continuerete a mangiare la carne del Figlio dell’Uomo, e a bere il suo sangue, non vi è più vita in voi (San Giovanni, VI, 55). Quelle parole misteriose e così profonde del Salvatore fatte, in questa nuova accezione, assioma d’estetica e di architettura. Quando il sacrificio della carne e del sangue del Cristo, il sacrificio della Messa, non sarà più celebrato nelle chiese, non vi sarà in esse più vita. La liturgia cattolica è una cosa sola con l’architettura e la scultura delle nostre cattedrali, poiché le une e le altre hanno radice in un unico simbolismo.  (…)

Dicevamo poco fa che in una cattedrale quasi tutte le immagini sono simboliche. Alcune non lo sono. Sono le immagini dipinte o scolpite di coloro che avendo contribuito con i loro denari alla decorazione della cattedrale, vollero serbarvi per sempre un posto, onde potere, dalla balaustra della nicchia o dallo sguancio della vetrata, seguire silenziosamente gli uffizi e partecipare senza rumore alle preghiere, in saecula saeculorum. (…) Essi entravano in chiesa, vi prendevano il loro posto che serbavano anche dopo la morte e dal quale potevano continuare, come nel tempo della loro vita, a seguire il divino sacrificio, sia che affacciati fuor del sepolcro di marmo volgano leggermente la testa dal lato del Vangelo o dal lato dell’Epistola, in grado di percepire, come a Brou, e sentire attorno ai loro nomi lo stretto e infaticabile allacciarsi dei fiori emblematici e delle iniziali venerate, serbando a volte fin nella tomba, come a Digione, i colori splendenti della vita, sia che in fondo alla vetrata, nei loro manti di porpora o d’oltre mare o d’azzurro che imprigiona il sole infiammandosene, riempiano di colori i suoi raggi trasparenti e bruscamente li sciolgano multicolori, erranti senza meta per la navata che tingono”.

Ma nelle cattedrali non c’è più posto per i vivi che vogliono morire nell’abbraccio di Cristo e per i morti che già vivono di quella tenerezza. Per questo, dopo cinque minuti di fiamme, di facce che non riuscivo capire e di celebrazioni della laicità di un simbolo cristiano, ho spento il televisore e sono andato a rileggermi Proust. E ho pensato a quanto sia lontano e dimenticato il monito di San Pio X all’episcopato di Francia e a quello di tutto il mondo e di tutti i tempi: lasciarsi spogliare serbando in povertà assoluta il mandato pastorale, la fede e la sua trasmissione.

 



aprile 2019
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