Proselitismo, il fantasma di papa Francesco


di Sandro Magister


Pubblicato sul sito dell'Autore: Settimo Cielo







Nel titolare (vedi sopra) il discorso rivolto il 20 maggio da papa Francesco al Pontificio Istituto Missioni Estere, “Vatican News”, il notiziario telematico ufficiale della Santa Sede, ha dato evidenza all’ennesima, immancabile sua bordata contro il “proselitismo”.

Il testo che Francesco stava leggendo non ne faceva parola, ma il papa non ha saputo resistere dal fare questa aggiunta a braccio:
“C’è un pericolo che torna a spuntare – sembrava superato ma torna a spuntare –: confondere evangelizzazione con proselitismo. No. Evangelizzazione è testimonianza di Gesù Cristo, morto e risorto. È Lui che attrae. È per questo che la Chiesa cresce per attrazione e non per proselitismo, come aveva detto Benedetto XVI. Ma questa confusione è nata un po’ da una concezione politico-economicista dell’evangelizzazione, che non è più evangelizzazione. Poi la presenza, la presenza concreta, per cui ti domandano perché sei così. E allora tu annunci Gesù Cristo. Non è cercare nuovi soci per questa ‘società cattolica’, no, è far vedere Gesù: che Lui si faccia vedere nella mia persona, nel mio comportamento; e aprire con la mia vita spazi a Gesù. Questo è evangelizzare. E questo è quello che hanno avuto nel cuore i vostri fondatori”.

Più avanti Francesco ha ancora aggiunto a braccio:
“Su questo mi permetto di raccomandarvi gli ultimi numeri della ‘Evangelii nuntiandi’. Voi sapete che la ’Evangelii nuntiandi’ è il documento pastorale più grande del dopo Concilio: è ancora recente, ancora è vigente e non ha perso forza. Negli ultimi numeri, quando descrive come dev’essere un evangelizzatore, parla della gioia di evangelizzare. Quando san Paolo VI parla dei peccati dell’evangelizzatore: i quattro o cinque ultimi numeri. Leggetelo bene, pensando alla gioia che lui ci raccomanda”.

In queste due aggiunte non c’è nessuna sorpresa. Sia la critica del proselitismo, sia l’esaltazione della “Evangelii nuntiandi” sono il mantra di Jorge Mario Bergoglio, ogni volta che parla di missione.
Ma sono il perché e il come di questa sua doppia insistenza che sono di difficile comprensione.

SUL PROSELITISMO

Se per “proselitismo” Francesco intende una missionarietà esercitata all’eccesso, forzata, misurata sul numero dei nuovi battezzati, è un mistero da dove egli ricavi la convinzione che questo sia nella Chiesa cattolica un reale “pericolo” che “torna oggi a spuntare”.
Perché se c’è una realtà incontestabile, nella Chiesa dell’ultimo mezzo secolo, è non l’eccesso ma il crollo della spinta missionaria.
È il crollo di cui erano ben consapevoli Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, i quali hanno tentato in più modi di contrastarlo e di richiamare la Chiesa a una missione autentica: il primo, tra l’altro, con un sinodo sull’evangelizzazione e con la successiva esortazione apostolica “Evangelii nuntiandi” del 1975, il secondo con l’enciclica “Redemptoris missio” del 1990, il terzo con la “Nota dottrinale su alcuni aspetti dell’evangelizzazione” del 2007 e con un nuovo sinodo sulla missione.
Senza trovare accoglienza positiva a queste loro sollecitazioni, salvo nella vitalità di alcune giovani Chiese dell’Africa e dell’Asia o, in Occidente, in pochi e isolati nuclei che hanno saputo tener viva la spinta missionaria autentica. Tra i quali proprio il Pontificio Istituto Missioni Estere ricevuto in udienza tre giorni fa dal papa.
Apparteneva a questo istituto padre Piero Gheddo (1929-2017), al quale Giovanni Paolo II affidò la stesura dell’enciclica “Redemptoris missio” e che prima ancora era stato tra i principali estensori del decreto missionario “Ad gentes” del Concilio Vaticano II.
Ma al contrario dei suoi predecessori e sulla base di una lettura opposta della vicenda missionaria della Chiesa di questi ultimi decenni, Francesco sembra voler piuttosto mettere un freno alla missione.
In sostanza, egli vuole che si “testimoni” silenziosamente la fede cristiana con la vita, con il comportamento, in primo luogo con l’amore del prossimo. E solo dopo che la testimonianza avrà eventualmente suscitato delle domande egli esorta ad “annunciare Gesù”. Senza però esplicitare mai questo secondo passo e fermandosi invece ogni volta a insistere sul primo, unica sana alternativa – per Francesco – al tanto deprecato “proselitismo”, con tanto di citazione della “Evangelii nuntiandi” di Paolo VI, a giudizio dell’attuale papa “il documento pastorale più grande del dopo Concilio”.

SULLA “EVANGELII NUNTIANDI

Tuttavia anche il frequente rimando di Francesco a questo documento di Paolo VI apre delle contraddizioni.
Perché è vero che Paolo VI assegna una “importanza primordiale” alla testimonianza silenziosa di vita, nella speranza che essa tocchi le menti e i cuori e accenda un’attesa.
Ma subito dopo scrive:
“Tuttavia ciò resta sempre insufficiente, perché anche la più bella testimonianza si rivelerà a lungo impotente, se non è illuminata, giustificata – ciò che Pietro chiamava ‘dare le ragioni della propria speranza’ –, esplicitata da un annuncio chiaro e inequivocabile del Signore Gesù. La Buona Novella, proclamata dalla testimonianza di vita, dovrà dunque essere presto o tardi annunziata dalla parola di vita. Non c'è vera evangelizzazione se il nome, l'insegnamento, la vita, le promesse, il Regno, il mistero di Gesù di Nazareth, Figlio di Dio, non siano proclamati”.

E non è tutto. Perché l’annuncio non basta – prosegue Paolo VI – se non “fa sorgere in colui che l’ha ricevuto un’adesione” alla Chiesa e una volontà di farsi a sua volta evangelizzatore. “Testimonianza, annuncio esplicito, adesione del cuore, ingresso nella comunità, accoglimento dei segni, iniziative di apostolato”: è tutto questo, per Paolo VI, il “processo complesso” dell’evangelizzazione.

Su tutto questo Francesco sistematicamente sorvola. E anche l’invito da lui rivolto ai missionari del Pontificio Istituto Missioni Estere di rileggere negli ultimi paragrafi di “Evangelici nuntiandi” i moniti di Paolo VI contro “i peccati dell’evangelizzatore” appare contraddittorio.

Se ad esempio si rilegge il paragrafo 80 dell’esortazione, si vedrà che Paolo VI bolla come errori proprio quei modi di pensare che vanno per la maggiore tra molti sostenitori dell’attuale pontificato e che di fatto paralizzano qualsiasi spinta missionaria:
“Avviene che si sente dire troppo spesso, sotto diverse forme: imporre una verità, sia pure quella del Vangelo, imporre una via, sia pure quella della salvezza, non può essere che una violenza alla libertà religiosa. Del resto, aggiungono, perché annunziare il Vangelo dal momento che tutti sono salvati dalla rettitudine del cuore? Se, d'altra parte, il mondo e la storia sono pieni dei ‘germi del Verbo’, non è una illusione pretendere di portare il Vangelo là dove esso già si trova nei semi, che il Signore stesso vi ha sparsi?”.

E ancora, nel paragrafo 78, contro certi facili addomesticamenti delle verità di fede:
“Il predicatore del Vangelo sarà colui che, anche a prezzo della rinuncia personale e della sofferenza, ricerca sempre la verità che deve trasmettere agli altri. Egli non tradisce né dissimula mai la verità per piacere agli uomini, per stupire o sbalordire, né per originalità o desiderio di mettersi in mostra. Egli non rifiuta la verità; non offusca la verità rivelata per pigrizia nel ricercarla, per comodità o per paura”.




In seguito a questo articolo di Sandro Magister è intervenuto il professor Leonardo Lugaresi. Magister ha riportato la lettera da lui inviata, che noi riportiamo di seguito.

Ancora sul proselitismo, che tanto allarma Bergoglio

http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2019/05/23/
ancora-sul-proselitismo-che-tanto-allarma-bergoglio/



Il post di ieri sull’ennesima bordata di papa Francesco contro il “proselitismo” ha  dato spunto alla seguente lettera. L’autore, il professor Leonardo Lugaresi, è specialista dei Padri della Chiesa. Di lui i lettori di Settimo Cielo hanno recentemente apprezzato un illuminante commento sul tema dell’”ira di Dio”.

*

Caro Magister,
ho trovato quanto mai opportuno il suo articolo del 22 maggio sul “mito del proselitismo” e ho particolarmente apprezzato il richiamo a una lettura non riduttiva e fuorviante della “Evangelii nuntiandi” di Paolo VI.

Che la missione possa esaurirsi, in sostanza, nella silenziosa testimonianza – certo imprescindibile, su questo non si discute – di una vita cristiana virtuosamente praticata è un equivoco che attualmente viene sempre più coltivato nella Chiesa, e ad esso si connette la pia illusione – che poi non è neppure tanto pia, a ben vedere – che, in questo modo, i cristiani potrebbero essere meglio accettati dal mondo, evitando contrasti e divisioni che nuocerebbero alla diffusione del Vangelo e suscitando invece una benefica attrazione dei “lontani” a desiderare spontaneamente di aderire alla fede in Cristo.

Certo, questo in singoli casi può succedere, e d’altro canto è innegabile che vi siano nel mondo Paesi e situazioni concrete in cui ai cristiani non è possibile fare altro. Ma fare della “testimonianza silenziosa” la norma della missione cristiana è un vero e proprio tradimento del mandato di Cristo, che è inequivocabile: “Andate e ammaestrate (mathetéusate) (didáskontes) tutte lenazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnandoloro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Mt 28, 19-20).

I Padri della Chiesa, che vivevano in un mondo non certo più facile del nostro, ne erano pienamente consapevoli. Mi piace riportare un’acuta osservazione di Tertulliano, che ritengo assai pertinente alla questione.
All’inizio dell’”Apologeticum” (3.1) egli commenta così gli effetti di un certo tipo di “buon esempio” dei singoli cristiani su una società complessivamente ostile al cristianesimo:
Che dire poi del fatto che i più, a occhi chiusi, arrivano a un tale odio [per il nome cristiano] che, pur rendendo a uno buona testimonianza, vi mescolano la condanna del nome? [Uno dice:] ‘Brava persona Gaio Seio, soltanto che è cristiano’ (Bonus vir Gaius Seius, tantum quod Christianus). E un altro: ‘Io mi meraviglio che Lucio Tizio, che è un uomo così sapiente, a un tratto sia diventato cristiano’ (Ego miror Lucium Titium, sapientem virum, repente factum Christianum). Nessuno si ferma a riflettere se Gaio è buono e Lucio è saggio proprio perché cristiano o se è cristiano perché saggio e buono (Nemo retractat, ne ideo bonus Gaius et prudens Lucius, quia Christianus, aut ideo Christianus, quia prudens et bonus)”.

In un mondo non cristiano, anzi, ostile al cristianesimo, come era quello in cui viveva Tertulliano e come è quello in cui viviamo noi, la testimonianza silenziosa della “vita buona” dei cristiani non basta. Non basta perché viene “sterilizzata” dal mondo, che la derubrica a fenomeno individuale, “privato”, culturalmente e socialmente irrilevante.
La testimonianza non basta, se non diventa “critica” – e quindi inevitabilmente “pubblica” – cioè se non provoca gli altri a porsi il problema del nesso tra il bene, di cui la vita del cristiano è innegabilmente segno e testimonianza, e il fatto di Cristo che di quel bene è la sola ragione adeguata.

La domanda scomoda enunciata da Tertulliano è precisamente quella che il mondo non vuol porsi. Per questo è del tutto illusorio sperare che la testimonianza cristiana – se è vera, cioè apportatrice di “krisis” della posizione mondana – possa andare esente da ostilità e da contrasti.
La vita cristiana è, di per se stessa, un giudizio, e non può fare a meno, nelle forme e nei limiti che di volta in volta le circostanze rendono possibili, di una “presa di parola” che  – come dice benissimo “Evangelii nuntiandi” nel passo che lei ha citato, richiamando 1 Pt 3, 15 – “dia le ragioni” su cui quella vita e quel giudizio si fondano.

Cordialmente,
Leonardo Lugaresi






maggio 2019

AL SOMMARIO ARTICOLI DIVERSI